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99. || Sophie.

Alle cinque in punto mi trovo di fronte ad un'imponente villa, la casa dove fino a qualche settimana fa ha abitato la ragazza che Christian ha condotto al suicidio.

Ancora non posso credere che i suoi genitori mi abbiano dato il permesso di parlare con me di quanto accaduto. Probabilmente se mi fossi suicidata io, al posto della signora Smallwood mia madre non avrebbe permesso a nessuno di farle visita.

Scendo dall'auto e, camminando lentamente, raggiungo la porta d'ingresso della villa. Ad una prima occhiata somiglia molto a quelle che inquadravano negli episodi di Desperate Housewives, una serie tv che io ho sempre adorato.

Quando il mio dito sfiora il campanello il mio cuore perde un battito. Non ho idea di cosa raccontare ai genitori della povera ragazza che si è tolta la vita in quelle quattro mura, se non che mi dispiace...

D'un tratto la porta si spalanca: una donna dai capelli biondo cenere e gli occhi marroni sorride; ha pesanti occhiaie sotto gli occhi, non è truccata e indossa una tuta bucherellata ed una felpa vecchia di almeno dieci anni.

Deglutisco pesantemente e prendo respiro, cercando di sembrare il più cortese possibile. Fortunatamente è lei a parlare per prima e a sbloccare la parete di ghiaccio fra me e lei.

«Tu devi essere Sophie, giusto?» domanda.

Annuisco, rapidamente, mentre percepisco il mio cuore battere decisamente troppo ritmicamente.

«Entra pure, tesoro»

Si scansa e mi lascia lo spazio per entrare. Appena metto un piede all'interno della casa percepisco un forte profumo di limone e di orchidee. Chiudo un istante gli occhi e cerco di ricordare l'ultima volta che sono entrata a casa mia.

Certo. Dopo l'incidente di Travis...

«Ho preparato del tè, ti andrebbe di berne una tazza?» propose la donna, invitandomi a seguirla nella cucina.

Incapace di parlare riproduco un piccolo sorriso e la seguo, camminando lentamente. Indosso ancora la giacca nera di panno e le scarpe da ginnastica. Non mi ha nemmeno proposto di spogliarmi... non la biasimo, ad essere sincera, dato che molto probabilmente non fa più attenzione a nulla, dopo la morte della figlia.

«Scusami tanto» mormora ad un tratto, «mi sono dimenticata di chiederti se vuoi toglierti la giacca. In casa la temperatura è sicuramente più alta di quella che c'è fuori... ma sinceramente non ne ho idea, dato che non esco di casa da più di due settimane»

Cerca di ridere, ma un groppo alla gola non glielo permette. A disagio, mi tolgo la giacca e la poso sulla sedia di legno.

«Non si preoccupi» rispondo.

La donna sorride, imbarazzata, e si volta verso i fornelli. Prende la teiera e la posa su un piccolo vassoietto, dove ha precedentemente deposto due tazze e due cucchiaini. Sorridendo, deposita il vassoio sul tavolo e mi invita a sedermi e a servirmi.

Rivolgendole un sorriso, prendo la tazza e mi verso il tè. Il cuore continua a battere in modo irregolare e non ha alcuna intenzione di fermarsi: e se la donna dovesse sentirlo? Che cosa penserebbe?

«Mi scuso se ti ho ricevuto in questo stato» inizia, «ma... da quando c'è stato il funerale di mia figlia Mia non ho più avuto voglia di... be', non sono più andata al lavoro e mi sono chiusa in casa»

I miei occhi si inumidiscono.

«Sono la prima persona che vede dopo il funerale di sua figlia?» domando, incontrando il suo sguardo.

«Se escludiamo il mio ex marito, sì»

Ex marito?

Vorrei dirle che non ho idea della sua situazione sentimentale, ma un suo strillo mi interrompe.

«Che sbadata!» trilla, «non mi sono neanche presentata. Io mi chiamo Marcia»

Allunga la grande mano rugosa e io gliela stringo, cercando di sembrare carina. Questa donna mi spaventa un po', ma so che è cambiata per la morte di sua figlia.

«Non avevo idea che fosse separata, signora» mormoro.

«Io e mio marito abbiamo divorziato quattro anni fa, dopo che lui mi ha tradita con una sua studentessa. Lavora in un college privato»

Il mio cuore perde un battito. La storia di Marcia è troppo simile a quella di mia madre. Entrambe single, divorziate quattro anni prima, dopo un tradimento del proprio marito, a causa di una relazione extramatrimoniale con una ragazza giovane.

Ed io e Mia in fondo siamo simili. Adolescenti, giovani, timide, indifese...

«Mi dispiace tanto» mormoro.

«Mia non si era mai ripresa dal nostro divorzio. Ha sempre avuto un buon rapporto con il padre, forse migliore di quello che coltivavamo io e lei. E pensavo che fosse una cosa reciproca, invece no. Dopo il tradimento mio marito non ha più chiamato Mia e lei ne ha sofferto parecchio per quella sua decisione»

Mi tappo la bocca, quasi sul punto di scoppiare a piangere. Christian le sceglie bene le sue prede... tutte uguali dal punto di vista caratteriale, con lo stesso passato alle spalle.

«Purtroppo ne so qualcosa, signora» sussurro debolmente.

Marcia si alza in piedi e posa la sua tazza nel lavello. A disagio abbasso lo sguardo e mi accorgo che io non ho ancora bevuto neanche un sorso del tè che ha preparato. Deglutendo, afferro la tazzina e bevo un sorso.

«Dunque, per telefono mi hai detto di conoscere Christian, il ragazzo che ha violentato mia figlia»

Per poco non sputo il tè addosso a Marcia. Cercando di calmarmi, poso la tazza sul tavolo e annuisco, lentamente.

«Sì» rispondo, posando una ciocca dietro all'orecchio, «io e Christian ci siamo conosciuti quattro anni fa, al mare. Uscivamo insieme da due settimane quando è successo... quello che è successo»

Marcia sospira pesantemente e ricrea una strana espressione, forse come a dire che le spiace per quanto mi sia capitato.

«Mia me lo ha presentato» dice d'un tratto, «sembrava un ragazzo così bravo, così maturo... invece a quanto pare no»

Il mio cuore perde un altro battito. Mi rendo conto di aver sentito queste parole solo un'altra volta: Ariana l'ha sussurrato dopo che Christian ha provato a violentarmi, sulla spiaggia. Sì, è un piccolo ricordo che ho sempre segregato nell'inconscio e che adesso ha deciso di venir fuori.

Apro gli occhi lentamente. Adagiata sul sedile posteriore di una macchina mi guardo attorno, senza muovere il capo e sperando di capire con chi sia. Ho la vista annebbiata, perciò all'inizio è decisamente un po' troppo complicato mettere a fuoco e dedurre tutte le informazioni di cui ho bisogno per capire cosa sta succedendo.

Mano a mano che i minuti passano mi rendo conto di essere sdraiata; la mia testa è poggiata sulle gambe sode di Shelley, mentre il mio busto e le mie gambe rispettivamente sulle cosce di Ariana e Daisy.

Ancora non sanno che sono sveglia.

Poco prima di individuare Julian, seduto sul sedile anteriore, mi chiedo cosa sia successo e per quale motivo mi trovo in questa situazione... o posizione. Non ho idea di quanto sia accaduto nella precedente ora; rammento solo la festa a casa di Samantha, la mia scappatella in bagno e la passeggiata con Christian sulla spiaggia.

Poi, il vuoto. Un buco. Il buio. Nero. L'oscurità più assoluta.

«Dobbiamo portarla immediatamente a casa» esclama Julian, con aria rabbiosa.

Chiudo gli occhi e poco dopo sento Ariana ringhiare.

«Assolutamente no» replica, «dobbiamo denunciare quanto successo! Ti rendi conto di cosa le ha fatto? Non sappiamo neanche se è... se...»

«No» s'intromette Shelley, «non dirlo. Stai zitta...»

Daisy singhiozza.

Mi chiedo chi stia guidando. Nessuno di noi ha la patente, ciò significa che qualche amico di Christian e Samantha ci sta riaccompagnando a casa. Voglio sapere chi è, voglio capire cosa sta succedendo.

Perché Ariana ha detto quella cosa?

Perché Shelley l'ha zittita?

Che cos'è successo? Che cosa mi è successo?

«Dobbiamo portarla in ospedale?» chiede Daisy, tra un singhiozzo e l'altro.

Sento la mano di Ariana aprire le mie gambe. Non ho idea di cosa stia facendo, ma non posso assolutamente ribellarmi. Muoio dalla voglia di sapere che cosa sta accadendo, ma per ora è meglio fingere di dormire o di essere svenuta.

«Ha perso del sangue»

Cosa? Che cosa cazzo è successo?

Mi imploro di restare immobile, almeno per qualche minuto ancora. Devo resistere.

«Credete che sia...?»

«Porca puttana, Ariana» grida Shelley, «smettila di dirlo. Non lo è»

La macchina svolta a sinistra. Vorrei tanto sapere chi sia il guidatore e dove ci sta portando, ma non ho idea di niente.

«Portiamola a casa» conclude Ariana infine, «domani mattina ci occuperemo di lei. Prima di tutto dobbiamo capire che cosa è successo prima... e poi torneremo a casa»

Julian sbatte una mano sul cruscotto dell'auto. «Porca troia. Non avremmo dovuto fidarci di quel coglione. Lo so che non era adatto a Sophie»

«Adesso smettila!» grida Ariana, in lacrime, «non fai la figura dell'eroe arrivato tardi dandoti la colpa di quanto accaduto. È vero, Sophie è la tua migliore amica, ma è anche la nostra»

Probabilmente Julian si è voltato a guardarla e, per la prima volta nella sua vita da quando si è innamorato della mia migliore amica, le ringhia contro.

«Basta!» strilla Daisy, singhiozzando, «mi fate venire il mal di testa!»

La macchina svolta ancora. Non so che ore siano, non so dove sono, non so chi sta guidando.

Non so niente.

«Al prossimo incrocio devi girare a destra» esclama Julian ad un tratto.

Il guidatore annuisce con un "mh-mh", ma non osa parlare. Perché si ostina a stare in silenzio? Forse ha notato che sono sveglia e sa che sto segretamente origliando la conversazione?

«Ecco, da questa parte» mormora Julian.

Come ha detto prima, la macchina svolta a destra.

Cerco di calmarmi e di capire su quale strada io sia. Hanno detto che vogliono portarmi nell'appartamento che abbiamo affittato, perciò devo trovarmi su una strada che porta lì.

L'unica con una rotonda è quella che fiancheggia la spiaggia. Questo significa che mi hanno portata via dalla festa di Samantha.

Ma perché?

La macchina si ferma di colpo. Julian apre la portiera e scende; poco dopo si apre la portiera di fianco a Shelley e, facendo attenzione e non farmi sbattere il capo da nessuna parte, mi lascia cadere sul sedile e scende dall'auto. Così fanno anche Ariana e Daisy.

Rimango sdraiata, immobile, sui sedili posteriori, mentre le due portiere vengono chiude. Per un attimo mi chiedo se sono rimasta sola, ma poi ricordo che il guidatore – chiunque sia – non è ancora sceso.

Penso di aprire gli occhi, osservarlo e smascherarlo, ma la suoneria del suo telefono mi interrompe. È una canzone uscita anni fa, di cui ricordo perfettamente il titolo.

What The Hell di Avril Lavigne.

Non conosco i gusti musicali degli amici di Christian, perciò non riesco a collegare questa suoneria a nessuno di loro. Ad un tratto sento una voce. Non è una voce che conosco, non appartiene a nessuno delle persone che ho ascoltato fino a un minuto prima.

Che cosa sta succedendo?

Che cos'è successo?

Chi è la persona al volante?

Perché non ha parlato?

Sa che sono sveglia?

Mi accorgo che i miei polmoni sono senza aria. Spalanco la bocca e prendo una boccata d'aria, poco prima di cominciare a tossire come una tredicenne che ha provato a fumare per la prima volta.

Marcia è di fianco a me, in piedi; continua a battere una mano sulla mia schiena, sperando di farmi riprendere.

Che cos'è successo?

Ho ricordato qualcosa che per quattro anni ho cercato di allontanare dalla mia mente, ma so che c'è ancora una parte, un pezzo che forse non sono ancora pronta per ricordarlo.

«Sophie» mi chiama Marcia, «sei sicura di stare bene?»

«Ce-certamente» balbetto, cercando di riprendermi.

No, non sto molto bene ad essere sincera.

«Dovresti andare a casa» mi dice Marcia, «se hai altre domande da porgermi puoi chiamarmi e organizziamo un altro incontro»

Mi alzo in piedi. Sono ancora un po' frastornata e non so spiegare a parole ciò che mi è appena capitato. Mi infilo la giacca di panno nero e, dopo aver salutato la donna, esco da quella casa. Non posso certo guidare in quelle condizioni, ma devo tornare a casa prima che Liam si insospettisca.

Dovrei raccontargli tutto questo? Oppure devo tenere tutto dentro, nascosto?

Salgo in macchina e sospiro.

Christian è in un ospedale psichiatrico, è lontano da me... ma io ho ancora paura. Mi ha rovinata. E ci è riuscito in pieno.

Improvvisamente il mio cellulare squilla. Guardo il display...

Chiamata in arrivo da: Liam.

Merda.

«Pronto?»

«Sophie» mormora, «dove sei?»

«Non... non preoccuparti» rispondo, «sto tornando a casa»

E detto ciò spengo la chiamata e metto in moto l'auto.

Ho promesso a me stessa che avrei cercato di vivere la mia vita senza pensare a Christian e a tutto il male che ha seminato, ma non ho minimamente rispettato la mia decisione, o la mia promessa. Devo farlo, devo riuscirci.

Christian si è già preso troppe cose della mia vita.

E bastano quelle.

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