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103. || Sophie.

NELL'IMMAGINE DEI MEDIA HO DECISO DI INSERIRE UNA FOTOGRAFIA DEL BETHLEM ROYAL HOSPITAL, COSI' POTETE AVERE UN'IDEA DI COME SIA FATTO. ESISTE VERAMENTE E POTETE ANDARE SU INTERNET E GUARDARE ALTRE FOTOGRAFIE, PER AVERE IDEE PIU' CHIARE.
LA SALA DOVE SOPHIE PARLA CON CHRISTIAN E' LIBERAMENTE ISPIRATA A QUELLA DI AMERICAN HORROR STORY ASYLUM (ANCHE QUESTA POTETE GUARDARLA SU INTERNET).

BUONA LETTURA!

...

Parcheggio la macchina davanti al palazzo dai mattoni e dalle tegole bordeaux e prendo un gran respiro.

Dopo aver trascorso la mattinata in università insieme a Liam e alle mie amiche, sono tornata a casa per pranzare con il mio ragazzo e, in seguito aver scoperto che avrebbe trascorso il pomeriggio insieme a Matt e Mike, ne ho approfittato per fare delle commissioni.

Be', ad essere precisa, una in particolare.

Fin da quando hanno segregato Christian al Bethlem Royal Hospital di Londra ho sempre pensato di andare a trovarlo, forse perché vederlo a pochi centimetri da me – ma con il coltello dalla parte del manico – mi avrebbe aiutato a superare la mia paura per lui.

Oggi pomeriggio, infatti, mi trovo di fronte all'ospedale psichiatrico dove vive Christian. Non so bene che cosa dirgli, ma sicuramente troverò le parole più adatte per confrontarmi con lui.

Sospirando prendo il cellulare dalla tasca della giacca e guardo a lungo la foto di sfondo: ci siamo io e Liam ed è una foto particolarmente speciale per me, dato che è l'unica che abbiamo insieme, questo perché Liam odiafarsi fotografare.

Lancio uno sguardo all'orario: 04:12. Ho impiegato poco più di mezz'ora per raggiungere l'ospedale e questo significa che per non destare sospetti devo partire almeno per le sei.

Ho abbastanza tempo per parlare con Christian, perciò posso stare tranquilla e mettere da parte la preoccupazione di far tardi per cena e quindi di insospettire Liam. Non sa che sono uscita e... non lo scoprirà mai.

Spengo il cellulare e lo intasco poco prima di scendere dall'auto. Poco dopo aver premuto sulle chiavi della macchina, essa emette il rumore di chiusura. Cercando di tenere a bada la mia ansia, comincio a camminare lentamente verso l'entrata dell'ospedale.

A circa dieci metri da me – nel centro della strada – c'è una piccola rotonda, decorata da alcune fiori colorati e da costruzioni di pietra. Costeggio la rotonda e arrivo di fronte alla scalinata di pietra grigio scuro. La porta di ingresso di legno dipinta di nero è contornata da una cornice di pietra color panna e cornicia anche l'enorme finestra del secondo piano.

Facendo un gran respiro pigio il dito sul campanello e indietreggio. Pochi istanti dopo viene ad aprirmi una donna sulla trentina, con un abito nero professionale e un grembiule bianco sopra ad esso. Ha i capelli biondi legati in uno chignon basso e sorride a malapena, sotto il sottile strato di rossetto rosa.

«Salve» esclamo, «dovrei... vedere un paziente»

La donna cerca di accentuare il suo sorriso. «Venga pure, le faccio strada»

Mi invita ad entrare ed io eseguo i suoi ordini. Dopo aver chiuso la porta mi fa cenno di seguirla all'interno della casa.

Mi guardo attorno per qualche istante, osservando i decori e i mobili dell'atrio: alla mia destra c'è una piccola stanza dove, signore con gli stessi abiti e la medesima pettinatura della donna che mi sta accompagnando, stanno parlando fra di loro. A sinistra, invece, un piccolo salottino con due divanetti intervallati da un piccolo tavolino; le pareti sono coperte da librerie colme di libri impolverati.

«Le chiamo immediatamente la direttrice. Può attendere su uno di quei divanetti» mormora la donna.

Le rivolgo un sorriso. «D'accordo, grazie mille»

Guardo la donna salire le scale fino al primo piano, poi mi volto e raggiungo i divanetti. Sospirando mi accomodo su uno di essi e cerco di concentrarmi su quanto sia comodo e non su quanto sia agitata in questo momento.

Vedere Christian mi agita più di quanto abbia immaginato prima di partire. Ma devo resistere e mantenere la calma.

D'un tratto una donna minuta, con i capelli biondi raccolti in uno chignon basso e un abito rosso scuro, entra nel salottino e mi raggiunge.

«Mi scuso se l'ho fatta attendere» mormora, allungando la mano.

Dopo essermi alzata in piedi, gliela stringo energicamente, riproducendo un piccolo sorriso.

«Non si preoccupi» replico.

«Bene» continua, «se vuole seguirmi la conduco direttamente alla sala incontri»

Annuisco con un vistoso cenno del capo, poi riprendo a camminare. La donna davanti a me sale gli scalini in pietra pestando i tacchi scuri cercando di non provocare troppo rumore. Appena giunge al primo piano, si gira di novanta gradi per controllare che sia ancora dietro di lei. Dopo avermi rivolto un sorriso, svolta a sinistra e percorre tutto il corridoio.

«Non mi pare di averla già vista, signorina» esclama lei, dopo avermi permesso di starle accanto.

«Ehm, sì» rispondo, «è la prima volta che vengo qui, ad essere onesta»

«Be', spero sappia che prima di poter spiccicare parola con qualsiasi nostro paziente ha il dovere di firmare e, naturalmente, di informarci con quale ha intenzione di parlare»

A disagio, fermo una ciocca di capelli dietro all'orecchio. «Certamente!»

«Perfetto» conclude la donna.

Dopo avermi sorriso, si volta per aprire la porta e mi lascia entrare. Sulla mia destra c'è un uomo sulla quarantina, nascosto dietro ad un computer. Non si degna di salutarmi e sposta immediatamente lo sguardo sul viso della direttrice.

«E' qui per una visita» annuncia questa.

«Nome del paziente, signorina» esclama l'uomo mezzo secondo dopo.

Torno a guardarlo e, sospirando, rispondo: «Christian Brooke»

L'uomo alza lo sguardo e mi fissa con la bocca spalancata. Mi chiedo per quale motivo abbia avuto questa reazione, ma decido di non chiederglielo. Dopo aver deglutito, si china per battere sulla tastiera del computer il nome che ho appena pronunciato e manda in stampa il foglio.

Diversi secondi dopo posa il foglio e una penna di fronte a me e mi indica una linea dove firmare. Senza pensarci su due volte afferro la biro e trascrivo nome e cognome.

«Bene» mormora l'uomo, «l'accompagno»

Si alza dalla sedia e, mentre mi volto per raggiungere una seconda porta nera, mi accorgo che della donna non c'è più traccia. Deglutendo, seguo l'uomo. Apre la seconda porta e quasi mi spinge all'interno di un'enorme camera dove i pazienti stanno praticando attività ricreative: alcuni sono seduti ai tavoli di legno e giocano a carte, altri sui divani a leggere e a parlare, altri ancora seduti per terra...

In questa stanza regna il caos assoluto: persone con occhi fuori dalle orbite, con i capelli unti e spettinati, che indossano solo una camicia da notte bianca o un pigiama azzurro spento. Il mio cuore perde un battito e comincio a commuovermi per lo stato delle persone che ho attorno. Mi ricorda molto la seconda stagione di American Horror Story, in particolar modo la sala creativa dove sono ambientate la maggior parte delle scene.

«Si accomodi pure in uno di questi tavoli» mi dice l'uomo, «le chiamo immediatamente il signor Brooke»

Gli rivolgo un sorriso decisamente troppo tirato e vado a sedermi nel tavolo più lontano dai pazienti. È qualcosa di orribile da pensare, ma sono un po' intimorita da tutte queste persone. Cerco di calmarmi e di pensare positivo.

Devo resistere.

Devo restare.

Devo dimostrare a Christian che sono abbastanza forte da sopravvivere al suo nuovo mondo.

Improvvisamente sento qualcuno strisciare la sedia di fronte a me e sedersi. So che è Christian, ma non ho il coraggio di alzare il capo. Prendo ancora qualche respiro, per calmarmi, poi alzo il viso.

Christian ha i capelli un po' più corti dell'ultima volta che l'ho visto, la barba di qualche giorno e l'unico tatuaggio visibile è l'àncora sotto l'orecchio.

«Sophie» esordisce, «che piacere vederti»

Gli rivolgo un sorriso tirato. «Già, non sai quanto»

Una donna dall'altra parte della stanza caccia un urlo straziante. I miei occhi guizzano su di lei e riesco immediatamente ad individuare il problema: fra le mani ha un coltello e si è appena tagliata il polpaccio.

A metà tra il disgusto e la pietà, mi tappo la bocca con una mano.

«Si chiama Sharon» mormora, «e ha la passione per gli oggetti che tagliano e il sangue. Non ti ricorda nessuno?»

Christian mi scocca un'occhiata.

«Lo sai che non mi taglio più» ringhio.

Christian sospira, quasi con aria fintamente dispiaciuta. Che grandissimo attore!

«Potrei saperlo se qualcuno non mi avesse confinato in questo cazzo di ospedale. Da quando sono bloccato qua dentro mi perdo tutti gli episodi di Geordie Shore»

Roteo gli occhi. «Oh, andiamo, lo sanno tutti qua dentro che hai finito di guardare quella serie tv ancor prima di conoscermi!»

Sul suo volto appare un sorriso ammiccante e malato allo stesso tempo. Mi ritrovo a sbuffare.

«Comunque grazie mille per essere venuta, davvero»

«Non capisco se sei sarcastico o no»

Christian scoppia a ridere. «No, affatto, sono serio. Sei l'unica persona – escluso il mio avvocato – che è venuta a trovarmi da quando sono qui. E so anche per quale motivo»

Alzo lo sguardo e incontro i suoi occhi. «Cosa?»

«Sei venuta qui per sconfiggere la tua paura, ossia vedermi e restare sola a così pochi metri di distanza da me. Correggimi pure se sbaglio»

Abbasso il capo e deglutisco pesantemente. È così evidente che sia questo il motivo della visita?

«Puoi stare tranquilla» continua, «non ho intenzione di farti male, perché se anche ti tocco con un dito non hai idea di cosa mi accadrà stasera»

«Tranquillo» replico, «ho idea di cosa significhi soffrire e sentire il dolore sulla propria pelle»

Christian ridacchia. «Giusto, quasi dimenticavo»

Per qualche secondo nessuno dei due osa parlare. Continuo a guardarmi attorno, nella speranza che accada qualcos'altro che allontani un'altra sessione di dialogo fra me e Christian. I miei occhi balzano su alcuni medici che stanno aiutando la donna che si è tagliata il polpaccio.

«Dunque» esclama improvvisamente Christian, «stavo pensando al fatto che non abbiamo una conversazione del genere da... be', credo da quella sera, no?»

Sposto lo sguardo sul suo viso e pochi secondi dopo incontro il suo sguardo. I suoi occhi mi incutono ancora un po' di paura, ma è qualcosa di sopportabile.

«E potremmo ancora parlare in questo modo se tu non avessi organizzato quella...»

Christian sospira pesantemente. «Su questo ti devo dare ragione, purtroppo, ma volevo che tu fossi mia. E, detto sinceramente, voglio tuttora che tu sia mia. Quando avevi quindici anni eri bella, Sophie, ma ora... ora sei una neo-donna e sei sempre più splendida»

Storco un sopracciglio e lo fisso senza fiato. Come può dire queste cose pur sapendo tutto quello che è accaduto fra me e lui?

«Ti ricordo che hai cercato ben due volte di violentarmi» mormoro, «e che ho un ragazzo»

Sul suo viso si spazia un sorriso smagliante.

«Giusto, il tuo amabile ragazzo... Hamilton, come sta? Mi manca fare cazzate con lui, sai?»

«Sta bene» rispondo.

Christian continua a tenere quel ghigno sul viso. Perché si sta comportando come se fosse... normale? Come se non fosse pazzo?

A questo punto capisco... Christian non è affatto pazzo, è solo ossessionato dalla vittoria e quando perde scatena un putiferio. Si trova in un ospedale psichiatrico perché è riuscito a sviare la galera, non per altro. E questo significa che sono venuta solo per sconfiggere la mia paura, ovvero quella di restare sola con lui.

È successo. L'ho superata?

Sì.

No.

Non lo so.

«Sei un po' silenziosa» osserva Christian, ghignando.

Lo incenerisco con lo sguardo e, dopo essermi passata una mano sul viso, continuo a pensare a quale sia la cosa migliore da fare. Posso andarmene oppure devo restare?

«Devo chiederti una cosa» sbotto, prima di averlo deciso.

No. Non gli chiederò che cos'è successo dopo che le mie amiche mi hanno salvato, quella sera.

«Dimmi pure»

No, Sophie. Smettila!

Devo resistere.

«Cosa è successo dopo che...»

«...Ariana, Shelley, Daisy e quello sfigato di Julian ti hanno salvato? Be', il tuo amico mi ha tirato qualche cazzotto e qualche calcio. Mi ha spaccato il labbro e mi sanguinava il naso, ma mi sono ripreso abbastanza in fretta»

Roteo gli occhi. «Intendevo che cosa è successo a me, non a te»

«Ah» replica lui, ridacchiando, «be', le tue amiche ti hanno riportata a casa di Samantha e dopo siete tornati nel vostro appartamento»

I miei occhi si illuminano. Lui sa cos'è successo? Conosce il nome della persona che mi ha accompagnata a casa e che non ha osato parlare durante il viaggio in auto?

Forse parlargliene non è poi così male; scoprirò qualcosa in più senza il bisogno di dover aspettare i comodi del mio inconscio.

«Sai chi ci ha riaccompagnato?» domando.

Christian mi scruta per qualche istante, come se cercasse di capire per quale motivo sia così curiosa. Non lo sono solo perché mi mancano dei pezzi della storia, ma anche perché voglio capire cos'è realmente accaduto.

«No» dice infine, «non ne ho idea. Senza dubbio è stato qualcuno che ha la patente, perché a quanto mi risulta nessuno del tuo gruppo l'aveva a quel tempo»

«Sì» replico, «giusto. Be'... grazie mille»

Christian mi rivolge un sorriso. «Di niente, Sophie»

Rimango in silenzio ancora per qualche secondo, ripensando a ciò che ho scoperto. Christian non sa chi sia la persona che ci ha riaccompagnati a casa quella sera, perciò non ho molte speranze di scoprirlo attraverso gli altri, ma solo con la mia mente, se solo si decide a sbloccarsi.

Devo a tutti i costi ricordare ciò che è successo dopo il viaggio in macchina.

«Posso chiederti una cosa?» chiede Christian.

Alzo lo sguardo e con un gesto del capo annuisco.

«Sei venuta qui solo per sconfiggere la tua paura?»

I miei occhi incontrano i suoi per diversi istanti. Non so se dire la verità oppure se mentire. Mi chiedo cos'abbia fatto lui quando gli ho fatto le mie domande. Be', in passato ha mentito tutte le volte, ma da quando mi sono seduta a questo tavolo mi sembra abbia dato risposte veritiere...

«No» dico infine, «non sono venuta qua solo per sconfiggere la mia paura, ma anche per farti delle domande, ed una di queste era esattamente quella che ti ho chiesto due minuti fa»

Christian annuisce con un movimento del capo.

«E la seconda qual è?» chiede.

Ecco. La seconda. Devo tirare in ballo la questione di Mia, di quella povera ragazza che ha rinunciato alla sua vita per colpa di Christian? Sto quasi per parlare, quando una lunga coda bionda attira la mia attenzione. È una ragazza che ho già visto qualche volta e, come sempre, ha l'aria stanca e indossa un vestito costosissimo.

La riconoscerei ovunque.

Ma lei riconoscerebbe me?

Se qualcuno scoprisse che mi trovo in quest'ospedale psichiatrico, ne passerei di tutti i colori. In fin dei conti non è molto giusto andare a trovare in un ospedale psichiatrico un ragazzo che è stato giudicato pazzo dopo aver provato due volte a violentarti.

Per questo motivo devo assolutamente andarmene. Lei non può vedermi. Mi alzo in piedi e guardo Christian.

«Devo andare» esclamo.

Christian si alza in piedi e mi sorride. «Va bene»

Riprendo a camminare con passo svelto e, poco prima di raggiungere la porta, sento qualcuno afferrare il mio polso. Mi volto di scatto e i miei occhi incontrano quelli di Christian.

Come Liam, è alto esattamente venti centimetri più di me e la sua altezza e la sua robustezza mi sovrastano. In confronto a lui sembro una bambina delle medie, lui mio fratello maggiore.

È in questo preciso istante che non percepisco più alcuna paura nei suoi confronti, perché quando ha afferrato il mio polso ogni persona e ogni oggetto attorno a noi è scomparsa.

Compresa la mia paura.

«Sì?» mormoro.

«Voglio chiederti se... se tornerai da me, qualche pomeriggio... mi fa piacere parlare con te... in qualche modo mi sta aiutando a rimettere a posto i pezzi del puzzle e a riconoscere di meritarmi la galera»

Per qualche secondo resto a guardarlo, indecisa se accettare o se rifiutare. Christian mi ha quasi violentata, due volte, e solo per questo non merita più alcun bene. So bene che ha torto marcio, ma qualche visita posso anche concedergliela, no? La sua famiglia è praticamente sfasciata, i suoi amici l'hanno abbandonato e l'unica persona che gli fa visita è l'avvocato Cabret...

«Verrò ancora se questi incontri resteranno segreti fra me e te» mormoro.

Christian mi guarda dritto negli occhi per qualche istante, come se stesse pensando ad una risposta. Non devo fidarmi ciecamente di lui, devo solo fargli credere che mi fido e lui ci cascherà.

Alla fine accetta e capisco che probabilmente non ne farà parola con nessuno. Indecisa se concedergli un sorriso, mi limito ad un "ciao" e immediatamente mi volto, trotterellando fino alla porta.

Quando essa si chiude alle mie spalle ho la sensazione di aver sbagliato tutto, di aver commesso un altro dei miei errori. Cerco di calmarmi, di riprendere fiato e di non pensare subito negativo.

Prendo respiro e guardo l'uomo seduto dietro al computer. Prima di uscire gli rivolgo un gran sorriso, poi apro la porta e abbandono la stanzetta.

Uscendo dall'ospedale psichiatrico mi torna in mente l'immagine della coda bionda e mi chiedo che cosa diavolo ci faccia qui questa persona.

Visita un paziente, proprio come me, o aspetta di vedere Christian?

E se è veramente qui per Christian, lui le riferirà che sono stata al colloquio?

Se andràcosì, sono proprio nella merda.

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