Giorni passati ∙ Credere
1945, Zacatecas (Messico)
Il sole già caldo seppur primaverile era sorto da poco, iniziando or ora ad illuminare con la sua tenue e chiara luce le strade polverose del piccolo paese messicano. Il temporaneo pallore dei raggi dovuto all'ora mattutina donava alle tegole rosse e alla sabbia scura riflessi perlacei che tra meno di mezz'ora sarebbero spariti, sostituiti dal classico color terracotta.
Raphael era abituato a quel paesaggio brullo e simile a un deserto abitato, al caldo torrido estivo e agli alberi che non crescevano spontanei. Era abituato sì, ma non per questo gli piaceva. Anzi, lo odiava. L'unica cosa positiva nel vivere in un paesino dimenticato da Dio era il fatto che non ci fosse tanta gente, fonte solo di interminabili seccature. Un pensiero alquanto insolito per un bambino di otto anni, ma Raphael era fatto così.
Il motivo per cui quel giorno il bambino era fuori così di buon'ora era solo uno: scappare. E sì, si rendeva conto di essere egoista e codardo, ma non vedeva cosa altro potesse fare.
Non sapeva dove andare, non sapeva cosa fare, non sapeva neanche capacitarsi di quello che, in quello stesso momento, in casa sua, stava accadendo. Sapeva solo che aveva paura, ma più che altro era una paura incredula: come poteva essere successo? Come poteva? Non era possibile, non lo era!
Raphael si ripeteva queste parole tentando di trattenere i singhiozzi mentre correva, i sandali in cuoio che facevano entrare la sabbia provocandogli solo un'ulteriore sofferenza. Sentiva gli occhi e la gola bruciare mentre tratteneva lacrime che si rifiutava di far cadere, non facendo altro che peggiorare tutto.
Si fermò solo di fronte a un edificio a lui familiare quanto la casa in pietra in cui viveva: la chiesa del villaggio. Non era affatto imponente e neanche bella, ma se confrontata a tutte le case in sassi e legno era di gran lunga uno dei pochi posti dove uno riusciva a meravigliarsi e sentirsi al sicuro.
Ma Raphael non era mai stato come tutti gli altri: non si era mai particolarmente meravigliato per le ampie arcate e volte sul soffitto, non si stupiva ogni volta guardando i rosoni di vetro colorati, non venerava l'edificio per la veneranda età e la storia che raccontava. L'unica cosa che aveva sempre attirato la sua attenzione era una statua di Maria con in braccio Gesù Cristo infante: era una piccola e modesta scultura, posizionata lungo una parete laterale, dove nessuno guardava quasi mai. C'erano molte altre cose che attiravano la gente in quella chiesa, e pochi avevano notato quella statuetta minuziosamente intagliata nel mogano scuro. Raphael era uno dei pochi. Era rimasto ammaliato fin da subito dalla semplicità e l'espressività di quella piccola scultura, non vista e sottovalutata. Forse non era marmo o oro quello con cui era fatta, ma fu proprio quella modestia a catturare l'attenzione del bambino, quando aveva sei anni. Era rimasto a dir poco incantato, dalla linea dolce del mento di Maria fino alla curiosità innata di un bambino che gli occhi di Gesù riuscivano a trasmettere, come se si stesse ponendo mille domande in una volta sola, senza riuscire a formularne nemmeno una.
E, come succedeva ogni domenica, anche quel giorno Raphael andò incontro a quella statuina che tanto gli piaceva, ma stavolta non per ammirarla. Quello, non era giorno di festa, e la chiesa era vuota. Quella volta, Raphael non indossava il suo abito migliore. Quella volta entrò nell'edificio tentando di trattenere le lacrime.
Attraversò quasi a corsa la navata centrale, incespicando anche sui suoi stessi passi. Quando fu davanti a Maria e a suo figlio, cadde in ginocchio, tremante, e iniziò finalmente a piangere.
Fu quasi un sollievo, uno sfogo. Calde lacrime scendevano copiose e veloci sulle gote del bambino, inzuppandogli la maglia e facendo luccicare i grandi occhi scuri.
Senza pensare, senza riflettere su ciò che stava facendo, Raphael giunse le mani nell'atto di preghiera. Le parole gli si riversarono fuori dalla bocca come un fiume in piena, esattamente come stavano facendo le sue lacrime che continuavano a cadere.
— Maria... aiutami. N-non so cosa fare, n-non so... — Un violento singhiozzo lo interruppe, ma continuò. — Non so più cosa voglia dire essere una famiglia.
Il resto venne da sé: passi della Bibbia e preghiere in latino si mescolarono alla storia detta in spagnolo veloce di Raphael, del perché stesse piangendo, del perché fosse lì. A malapena riusciva a mettere due frasi compiute insieme, i singhiozzi strazianti e le lacrime bollenti non miglioravano certo la situazione. Era plausibile però, considerato che nella testa del bambino era il caos.
Raccontò tutto. Raccontò a quella statuina di come quella mattina fosse stato svegliato da delle urla. Urla di rabbia, odio, disperazione. Raphael era balzato giù dal letto, spaventato. Era corso a passi felpati verso dove provenivano le grida, non riuscendo a capire da chi provenissero né perché. Col senno del poi, avrebbe preferito non scoprirlo.
In salotto c'erano i suoi genitori, che litigavano come Raphael non avrebbe mai immaginato possibile. Le urla e gli insulti di suo padre, livido di rabbia e con il volto deformato dall'odio, rimbombavano sul basso soffitto in legno. Anche Guadalupe urlava, sgolandosi. Il contenuto di quelle urla Raphael fece fatica anche solo a concepirlo: non aveva mai sentito tanto odio in delle parole, né tantomeno aveva mai visto i suoi così furiosi. Non sembravano neanche più umani. Facevano paura.
Raphael stava per parlare ancora, quando si interruppe, causa un violento singhiozzo. Non aveva la forza di pronunciare quelle parole, non aveva la forza di ammettere ciò che era successo. Era semplicemente troppo per un bambino di soli otto anni, seppur un bambino come Raphael.
— Ehi, ragazzo — una voce sorpresa e incredula lo riscosse, facendolo balzare in piedi. Colui che aveva parlato era un giovane prete che conduceva solitamente la messa: Raphael lo aveva etichettato dal primo momento in cui era arrivato – due anni prima – uno di quei ragazzi talmente altruisti che se solo ti scappava uno starnuto avevano già pronto un fazzoletto di stoffa, e, Raphael ci giurava, sarebbero stati disposti anche a soffiartelo loro, il naso.
— Tutto a posto? — Il giovane prete si stava avvicinando, ancora con un po' di sorpresa negli occhi nocciola.
Raphael si apprestò ad asciugarsi il volto fradicio, mentre i singhiozzi cessavano e la sua solita espressione distaccata riprendeva posto sul suo viso. — Sì — rispose con un tono secco e quasi di sfida che sorprese non poco il prete.
— Sicuro, piccolo? Dove sono i tuoi genitori? — Gli stava parlando come si parla a un animale in gabbia per tranquillizzarlo, e Raphael ne fu indignato, soprattutto perché aveva involontariamente toccato un tasto dolente.
— Non sono qui — rispose secco Raphael mentre chiudeva la sua espressione a riccio; per quanto potesse essere turbato o addolorato, non avrebbe mai pianto davanti a qualcuno.
« Non piangere mai, Raphael. Qualsiasi cosa accada, non mostrare mai a persone di cui non ti fidi le tue debolezze: non tutti sono buoni come te a questo mondo. Non tutti sono leali. »
Le parole che suo padre gli aveva detto tanto tempo prima gli erano ancora impresse nella mente. Il suo marcato accento spagnolo si sentiva forte e chiaro malgrado fossero anni che viveva in Messico. Una voce così famigliare, eppure la stessa che aveva udito solo poco prima, nettamente trasformata. Irriconoscibile.
Il giovane prete lo stava ancora guardando, incuriosito da quel bambino gracile dalla voce glaciale, ma non impietosito, malgrado lo avesse visto piangere solo pochi attimi prima. Non era impietosito, ma capiva che aveva bisogno di aiuto, e ancora di più capiva che il piccolo non avrebbe voluto nessun tipo di aiuto da chicchessia. Decise quindi di inginocchiarsi di fronte al minore in modo che i loro visi stessero alla stessa altezza. Non cercò di invadere i suoi spazi, né tantomeno di chiedere perché stesse piangendo. Domandò solo: — Come ti chiami?
Raphael lo scrutò stringendo i grandi occhi scuri a fessura; era in assoluto il bambino più sospettoso del mondo, pensò il prete. Poi rispose: — Raphael.
— Io mi chiamo Miguel — si presentò il prete. Raphael lo guardò con una faccia che diceva “Non te l'ho chiesto”.
— Perché sei qui, Raphael? — domandò allora Miguel il più dolcemente possibile. La pelle abbronzata e i capelli d'oro lo facevano assomigliare a un angelo, pensò Raphael. Ma non un angelo vendicatore, più un angelo misericordioso sempre pronto a farsi in quattro per gli altri.
Dentro di sé, Raphael apprezzò questo fatto, ma non si poteva dire che apprezzò in egual misura la domanda, perché rispose scontroso: — Pregavo, come si fa solitamente nelle chiese.
Miguel non si scompose a quel tono infastidito, si limitò ad alzare lo sguardo verso la statuina della Maria e di Gesù Bambino. Raphael stava pregando rivolto a quella, tra tutti gli altri simboli nella chiesa. Non sapeva il motivo per lo stesse facendo ma poteva supporlo: il bambino si era fatto subito sospettoso quando lui gli aveva chiesto dei suoi genitori, e stava pregando in lacrime davanti a una statua sacra che rappresentava l'amore familiare. Qualunque cosa fosse successa, c'entravano in qualche modo i suoi genitori, e non doveva essere una cosa bella.
— Ti va se prego insieme e te, Raphael? — mormorò con voce dolce e calda il prete.
L'altro sgranò gli occhi, sorpreso; non si aspettava quella domanda. Poi domandò, dubbioso: — Perché dovresti farlo?
— Sono un prete — rispose tranquillo Miguel con un piccolo sorriso. — E non ho ancora fatto le mie preghiere mattutine. Sarei felice se tu le facessi insieme a me.
Raphael era ancora evidentemente sorpreso e incuriosito da quell'inaspettata proposta, ma si inginocchiò comunque affianco al prete, che sorrise incoraggiante.
— Non sempre la vita è semplice — disse mentre giungeva la mani nel simbolo della preghiera, imitato da Raphael. — Ma noi andiamo sempre avanti. E se da soli sentiamo di non farcela, ricorda, Raphael: ci sarà sempre qualcuno disposto ad offrirti una mano per rialzarti, anche dove spesso sembra non esserci speranza o soluzione. Che sia un amico, Dio o la famiglia, esisterà sempre qualcuno che tiene a te, anche se forse non lo sai. Se un giorno ti verrà il pensiero di essere solo al mondo, abbandonato da tutto e tutti, abbi fede nelle cose a cui tieni. Abbi fede, Raphael. Perché nessuno è solo. Finché avrà un'anima e finché sarà degno di essere amato, nessuno sarà mai solo.
Raphael non lo dette a vedere, ma provò un moto di gratitudine per quel giovane prete, che, malgrado non lo conoscesse e non sapesse il motivo per cui stava piangendo, lo stava incoraggiando ad andare avanti, come se in realtà sapesse molto di più di quanto non desse a vedere.
Nessuno dei due poteva prevedere che Raphael avrebbe involontariamente fatto tesoro di quelle parole, e che ci si sarebbe aggrappato con le unghie e con i denti in futuro.
I due pregarono insieme: il ragazzo di venti anni accanto al bambino di otto, le mani giunte, le teste chine in direzione di Maria e di suo figlio.
Come prima, Raphael pregò, ma non più con le lacrime agli occhi; si sentiva stranamente libero, come se gli fosse stato tolto un peso enorme dalle spalle. I suoi genitori forse si stavano ancora urlando addosso e lui continuava a soffrirne, ma non aveva più la sensazione di non avere nessuno. Accanto a lui c'era ancora Miguel, con gli occhi chiusi e le labbra che si muovevano in silenzio, che lo aveva spronato a credere.
E Raphael, il bambino arcigno e diffidente, credeva; ora più che mai. Credeva che le cose si sarebbero aggiustate. Ma soprattutto, credeva intensamente che, forse, qualcuno che lo amava lassù ci fosse davvero, come una presenza rassicurante.
Quella era la fede: la sensazione di non essere mai solo anche quando il tuo mondo va in pezzi, la cosa che poteva spingere un giovane uomo ad aiutare un ragazzino, quel sentimento di lealtà e dedizione che spingeva Raphael, in quel momento, a non crollare.
Non era solo, lo sentiva. Non sarebbe mai più stato solo, mai moralmente. Finché avrebbe avuto un'anima, lui non sarebbe mai crollato. Non ne avrebbe avuto bisogno.
Lui era Raphael Santiago. E credeva in questo.
Aveva fede.
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