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Capitolo III ∙ La morte di Guadalupe

1989, New York

Era autunno quando Guadalupe Santiago morì.

Foglie decidue, dal rosso fuoco al color corteccia, si erano sedimentate ormai da un mese per i viali adornati da alberi ora spogli. Il vento che per giorni aveva infuriata ora s'era placato, lasciando il posto ad una brezza fredda ma quieta.
Un cielo nuvoloso grigio perla andava a coprire completamente il sole da circa una settimana; il colore freddo ed uniforme di quel grigio era a contrasto con la vivacità del terreno, dovuta alle foglie sui marciapiedi che nessuno si era degnato di pulire.

Raphael indossava un cappotto solo per non destare sospetti, malgrado avesse potuto farne a meno dato che per lui il freddo era totalmente indifferente.

L'apparente ragazzo camminava per le strade, deserte data l'ora improbabile – le quattro di mattina. Il suo passo era svelto e deciso, le mani sprovviste di guanti e i capelli ricci lasciati liberi da ogni cappello inutile. Il viso era contratto e la mascella era serrata, ma non per il freddo che non avvertiva.

Il vampiro avrebbe quasi preferito che quell'aria gelida gli sferzasse il volto, gli facesse dolere gli occhi e gli screpolasse le labbra; sarebbero state valide distrazioni. Invece no. Il suo naso non era neanche minimamente arrossato, era scientificamente impossibilitato dall'ammalarsi ed era costretto a soffrire interiormente senza alcun dolore o malanno fisico che lo distraesse.

L'unica cosa che poteva fare era camminare, percorrere quelle stradine un tempo familiari ma che non percorreva da trentasei anni. Il motivo che lo aveva spinto a farlo era uno, e non lieto: sua madre, Guadalupe, stava morendo.

In tutti quegli anni aveva preferito non rimanere in contatto con la sua famiglia, non direttamente almeno. Mentire gli procurava solo dolore e sensi di colpa. Si era limitato ad osservarli da lontano, vedere i suoi fratelli minori che crescevano, diventavano uomini, mettevano su famiglia. Aveva osservato pure sua madre, che sbiadiva via via che il peso degli anni si faceva sentire.

Dentro di sé, Raphael aveva sempre saputo che un giorno sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe dovuto dirle addio. E ora il momento era arrivato. Ma era troppo presto. Sapeva di non essere pronto. E, altrettanto bene, sapeva che mai lo sarebbe stato.

Una volta gli era stato detto che non ci si accorge dell'importanza di una cosa finché non la si perde. Da morto, da vampiro, da dannato, questa frase lo faceva sorridere amaramente. Lui più di tutti sapeva la verità che celava quella frase.

Gli era stato anche detto che la vita vale perché ha una fine. Raphael quasi sorrise nell'immaginarsi il suo amico Magnus Bane che storgeva il naso e protestava dicendo che non importava la durata di una vita: non erano i numeri a definire un'esistenza, erano i fatti. Ciò che uno aveva compiuto, nel bene e nel male. La vita vale sempre, aveva detto lo Stregone, anche se senza fine come la sua. Anche se senza vita come quella di un vampiro, aveva aggiunto ridendo.

Era stato proprio Magnus a dirgli che Guadalupe aveva avuto un ictus, due anni prima. Da allora, sua madre era rimasta barricata in un letto dalle lenzuola bianche di un ospedale; Raphael non era potuto andarla a trovare, i doveri al clan gliel'avevano impedito. Ora che però stava giungendo al termine, voleva e doveva a tutti i costi vederla un'ultima volta.

Non sapeva bene perché fosse sempre nella costante ansia quando ripensava alla sua famiglia. Forse era strano il fatto che i suoi fratelli più piccoli ora fossero adulti, con dei figli, mentre Raphael – il maggiore – era ancora un quindicenne. Ma stavolta non poteva semplicemente non rivederli. Lo credevano uno Stregone, un incantatore, e ogni giorno che passava il vampiro si sentiva sempre più in colpa per quella bugia.

Cosa avrebbe detto? Cosa avrebbe fatto? Avrebbe davvero lasciato morire sua madre nella menzogna?

Ripensò a quello che, molti anni addietro, a Zacatecas, il prete di nome Miguel aveva detto al bambino addolorato che era: « Ma noi andiamo sempre avanti. E se da soli sentiamo di non farcela, ricorda, Raphael: ci sarà sempre qualcuno disposto ad offrirti una mano per rialzarti, anche dove spesso sembra non esserci speranza o soluzione ».

Ma noi andiamo sempre avanti.

Non lo so, Miguel, pensò fra sé e sé Raphael. A volte andare avanti è arduo; tornare indietro, però, lo è di più.

Il vampiro era giunto dinanzi l'ospedale; non notò neanche l'aspetto dell'edificio da tanto era distratto. Quasi non capì come si fosse ritrovato nell'atrio e come avesse trovato le parole per chiedere alla giovane donna della segreteria il piano e il reparto dove alloggiava sua madre. Un attimo dopo, stava salendo le scale; il passo tranquillo a dispetto dei conflitti che aveva nella testa.

Piano due, stanza quattordici.

Fece per attraversare il corridoio dal tipico odore di disinfettante, quando un'infermiera lo bloccò. — Per chi è venuto? — gli chiese indagatrice. La crocchia bassa e lenta le si stava disfacendo sulle spalle; non esattamente consono alle norme ospedaliere.

— Guadalupe Santiago. So già la stanza.

— Possono entrare solo i parenti.

— Sono un parente. Mi chiamo Raphael Santiago, sono un nipote.

L'infermiera socchiuse gli occhi. Era evidente che non si fidasse.

— Quanti anni hai? Sotto i tredici non possono entrare.

— Ne ho quindici.

La donna fece per parlare ancora, ma Raphael ne aveva abbastanza. Fu facile usare l'encanto e convincerla a lasciarlo andare. Era solo una mondana.

Quando entrò nello stanzino, vi trovò i suoi tre fratelli al capezzale di Guadalupe. Gli fece male vedere i loro capelli intessuti d'argento. Ancora più male gli fece lo sguardo opaco di sua madre ora colmo di stupore. — Raphael — disse, con voce roca e a malapena udibile. — Sei venuto.

Chinò il capo e si avvicinò lentamente al letto, con un fare esitante non da lui.

Guadalupe lo fissava, e così i fratelli. Raphael si rivolse a loro, ma non riuscì a tirare fuori un debole sorriso come avrebbe voluto; la diffidenza e lo stupore nei loro sguardi gli facevano dolere il petto. — Hola — cercò di dire, con il volto sereno ma la voce che stentava ad uscire. Fece un cenno con il capo tentando di rimediare.

Il fratello più piccolo dei quattro, che ora aveva circa quarant'anni, fu l'unico ad alzarsi dalla sedia traballante ove sedeva per abbracciare Raphael. Era tanto che non lo vedeva e, anche se era rimasto apparentemente un adolescente, lui era contento della sua presenza, almeno quel giorno. Il Nascosto ricambiò l'abbraccio, sollevato che almeno lui, il minore, lo considerasse ancora parte della famiglia malgrado ora fosse uno "Stregone".

Nei minuti successivi il silenzio sarebbe regnato, tra i fratelli imbarazzati e la madre impossibilitata dal parlare per la numerosa quantità di tubi, di cui uno nella trachea. Poi, sorprendendosi da solo, Raphael aveva iniziato a parlare a Guadalupe, non in inglese ma in spagnolo: il tono veloce, dolce ma fermo; rassicurante. Le parlò del più e del meno, di tutto ciò che gli passava per la testa, con l'obbiettivo di alleviare la tensione e distrarre sua madre. Le parlò della chiesa a Zacatecas, del colore delle foglie, della migrazione delle rondini, delle onde nella baia di Long Island, della luna luminosa e dei momenti lieti che ricordava della sua infanzia.

Guadalupe iniziò a sorridere.

Anche gli altri presenti iniziarono a dialogare: parlarono di questo, quello e quello. Tutto andava bene, finché la loro madre diletta sorrideva.

Poteva essere uno strano spettacolo: i tre uomini, la vecchia donna e il ragazzino che chiaccheravano in spagnolo come se stessero prendendo il tè, e non come se uno dei presenti fosse in punto di morte.

Questo, quello e quello.

Raphael fu il primo, grazie all'udito da vampiro, ad accorgersi che il respiro già irregolare di Guadalupe stava venendo meno. È buffo come, quando lotti una vita per non lasciare trapelare emozione alcuna, alla fine tu non riesca a provarle appieno neanche quando vorresti. I suoi fratelli si alzarono, si avvicinarono, la chiamarono per nome; anche quando il cuore di Guadalupe smise di battere, continuarono a sussurrare il suo nome, misto a preghiere.

Raphael invece non fece nulla di tutto ciò. Non pianse, non poteva permetterselo. Non si alzò né si mosse.
Non poteva fare a meno di fissare, con volto immobile, il lieve sorriso che ancora increspava le labbra senza vita di sua madre.

E non poteva fare a meno di ripensare alle sue ultime parole: « Sei venuto ».

Sì, madre, pensò mentre si metteva finalmente in piedi. Sono venuto.

Se prima non sapeva cosa avrebbe fatto, come avrebbe agito, ora Raphael ne era sicuro. Per quanto non gli piacesse, era così che doveva andare.

Usò l'encanto sui suoi fratelli: disse loro che non avevano mai avuto un fratello maggiore. Che non era mai esistito nessun Raphael. Tutti i ricordi che avevano di lui – Raphael che insegnava loro a sedere composti a tavola; Raphael che li aiutava con lo studio; Raphael che li abbracciava; Raphael che li difendeva ogniqualvolta che un bullo faceva il gradasso – svanirono, con una semplice frase e la malia dei vampiri: — Non è mai esistito alcun Raphael Santiago, perché voi lo dimenticherete. Non è mai esistito; mai.

A quel punto Raphael uscì, consapevole e sicuro che, ormai, tutti i legami che lo facevano essere ciò che era stato stavano svanendo, uno dopo l'altro.

Ma era così che doveva andare. Era lui ad avere in mano la penna che scriveva il suo destino, certo; ma il destino sembrava prevedere sempre le sue mosse, tanto che, alla fine, non pareva esserci differenza.

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