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Cap. 15 Il progetto

"...la trappola dovrà essere autentica, gli uomini dovranno aver l'incarico di portarlo al Duca vivo o morto. Sarò io a far fallire l'agguato, ribaltando la situazione, e questo mi guadagnerà ciò che ci serve".

Il conte aveva alzato gli occhi dal foglio, con la fronte corrugata. Un agguato! Mandare dei sicari a catturare il fabbro, ma comunicando in anticipo luogo e ora a Jeanne, per consentirle di intervenire e di sventare, agli occhi del giovane, il pericolo!

"...Mi infilerò nella mischia e sarò dalla sua parte; dopo di che, avrò conquistata la sua fiducia e gratitudine senza meno".

Questa mia figlia è pazza. Un vero agguato con armati non consapevoli del suo ruolo? Definirlo pericoloso è poco... anche se... è vero, se le riuscisse, otterrebbe di certo la confidenza del nostro ricercato!

"...Badate, padre, che l'agguato sarà rischioso per gli uomini che manderete. Il nostro soggetto ha una prestanza notevole, penso che potrebbe rivelarsi un buon combattente. Quanto a me, poiché da una donna non si attenderanno alcuna capacità, il mio coltello farà facile breccia nella loro boria. Voi vedete di organizzare, quindi, ma non mandate uomini che vi premono troppo, perché non ne usciranno bene".

Non ne usciranno bene! Modesta, la ragazzina...

"... E nel caso siate preoccupato per la mia incolumità, vi anticipo che sto pensando a un colpo ad effetto. Immaginate cosa accadrebbe se, nell'intervenire in sua difesa, gli assalitori dovessero riuscire a ferirmi! Il rimorso e la commozione del giovane! Sarebbe ancora più certo il risultato. Sto calcolando, allora, se possa convenirmi lasciarmi colpire. Dipenderà dalle circostanze, ma voi non vi preoccupate se dovessero riferirvi che sono rimasta ferita nello scontro".

Il conte aveva accartocciato la missiva e s'era alzato. Soffriva a star seduto, quando doveva pensare. L'ideale sarebbe stato poter uscire, ma era una giornata assai rigida, e il vento piegava rabbioso gli alberi. Avrebbe voluto spaziare con lo sguardo sulla valle, almeno, attraversata dal fiume ingrossato dalle piogge recenti; dalla grande finestra il panorama sarebbe stato magnifico, ma il vetro, spesso e opaco, incastonato nella pesante griglia piombata, rendeva tutto sfocato.

Aveva provato ad aprire un'anta, ma il gelo l'aveva spinto a richiuderla, irritato per non poter avere ciò che desiderava.

Organizzare un agguato potrebbe allarmare la nostra preda, andava riflettendo. 

Anzi, l'avrebbe fatto di certo, il giovane avrebbe capito d'esser stato individuato e si sarebbe dileguato. Tranne che...

Il conte continuava a percorrere la sala, calpestando il folto tappeto. A tratti quello nascondeva le griglie aperte nel pavimento, da cui saliva tutto il tepore dell'aria scaldata nel sotterraneo, da una fornace tenuta costantemente accesa dalla servitù. Tubi correvano attraverso il palazzo per scaldare l'abitazione del conte, privilegiato come solo i nobili erano, nella loro epoca.

Nella casetta di pietra di Mouzy, intanto, Jeanne si difendeva dal freddo con un misero braciere, e col fuoco del risentimento. Il fabbro l'aveva profondamente irritata, già con l'atteggiamento tenuto durante la sera in casa sua, per non parlare dell'indifferenza dimostratale successivamente, e senza contare che era passato troppo tempo da che si era trasferita.

Non aveva ancora combinato nulla e questo era pericoloso. Non poteva permettersi di fallire, non avrebbe avute altre occasioni, questo era chiarissimo. Dunque attendeva, insofferente, notizie circa il piano proposto al conte nella lettera che aveva scritto la notte stessa del famoso malore della serva.

Chiusa la porta alle spalle del giovane Villhelm, come le si era presentato e come lei, di certo, non era così ingenua da credere si chiamasse sul serio, Jeanne aveva afferrato indispettita calamaio e pergamena. Ma quanto stava impiegando il conte a rispondere? Esasperata, aveva dovuto trovare il modo di ingannare l'inattività.

Ogni giorno portava fuori il suo cavallo, attaccato a un minuscolo calesse, acquistato al mercato settimanale, come per un quieto giro a prender aria; appena fuori paese lo staccava e, inforcatolo, si lanciava sfrenata nel bosco, a sfogare le energie nel galoppo. Tra gli alberi, poi, lo lasciava riposare, e faceva esercizio col coltello, per tenersi elastica. Senza un avversario era un allenamento scadente, ma non aveva di meglio. Tornavano nelle strade abitate al passo, il castrone nuovamente aggiogato al calesse, lei di nuovo intabarrata nel manto. E un altro giorno finiva.

Infine, il vetturino della carrozza per Bouillon, durante la sosta a Mouzy, era sceso per consegnarle una missiva. Jeanne l'aveva ringraziato con garbo e offerto una mancia, che quello aveva intascato fulmineo. Appena sola, aveva svolto il foglio.

Al castello, dov'era cresciuta, le vetrate consentivano al sole di illuminare le ampie sale anche d'inverno. Jeanne se ne ricordò, esasperata, mentre cercava di leggere nella poca luce della casetta. Non avrebbe mai rimpianto quella prigione, ma doveva ammettere che almeno era confortevole.  Gli uomini del passato dovevano scegliere: o sbarrare le finestre con tavolati chiusi, per difendersi dal freddo, o tenerle aperte, lasciando entrare la luce ma anche il rigore invernale. Poi, erano state inventate le vetrate.

A Mouzy però il vetro, vero lusso moderno, non era neppure conosciuto, se non di fama. Al massimo, in quelle umili casette, si tendeva una pelle di pecora, lavorata per essere molto sottile e appena traslucida, su un telaio. Così si riparavano dall'aria gelida le piccole aperture nelle pareti, dando alle stanze, anche nelle grigie giornate invernali, un po' di luce naturale. Così poca che Jeanne dovette accendere un lume, benché fosse mattina, per leggere la breve comunicazione. Che la portò al colmo dell'irritazione.



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