45. La lettera arancione gommagutta
Art. 141, comma 2 del Codice penale:
Chiunque metta in dubbio la Perfezione è punito con la condanna a morte.
Furono giorni lunghi e difficili quelli successivi alla confessione di Pietro, riempiti da lunghe discussioni e racconti. La rabbia, la delusione e la sensazione di essere stati presi in giro non potevano essere cancellate in fretta; erano ferite che avevano bisogno di tempo per guarire e di gesti che riflettessero l'intenzione che Pietro aveva espresso a parole nei giorni seguenti: creare un legame di amicizia e di fiducia reciproca, trovare l'uno nell'altro quel luogo in cui potersi sentire liberi e al sicuro.
I tre, su proposta di Melissa, avevano deciso di sedersi ogni sera sotto la piccola finestra della loro stanza e di raccontarsi pian piano l'uno all'altro, di parlare del proprio passato, di quello che era accaduto durante la giornata, delle speranze che avevano per il futuro: sogni, desideri e incubi.
La quinta sera Trentacinque aveva ancora il volto magro e la pelle pallida, e sembrava ancora un dipinto sbiadito; tuttavia, dopo avere parlato apertamente a Pietro e a Melissa di tutto quello che gli era successo prima di finire alla Scuola dei Demeriti, nonché della sua vista, della sua ipersensibilità agli stimoli e delle sue altre difficoltà e paure, si sentì leggermente meglio. Era ancora come disperso nello spazio più profondo, ma perlomeno questa volta l'ossigeno era stabile e riusciva a respirare; anche se l'ambiente attorno a lui restava completamente buio e denso parlarne era una piccola luce nell'oscurità che lo lasciava, di volta in volta, un po' più leggero.
La sesta sera fu il turno di Melissa che si lanciò in un appassionato discorso motivazionale che recitò dal suo letto a castello.
«Questa scuola e l'intero mondo qui fuori ci hanno fatto sentire come se non avessimo scelta.» La ragazza sollevò un pugno in aria. «Come se la nostra unica opzione fosse nascondere noi stessi e le nostre difficoltà o differenze. Ci hanno costretto a creare un mondo fittizio, una realtà in cui ci ritroviamo ad essere contemporaneamente burattino e burattinaio.»
Prese fiato. «Fin da quando siamo nati ci hanno addestrato a pensare che il nostro valore fosse legato a una percentuale. Sapevamo fin da piccoli che, se non ci fossimo mossi in modo Perfetto e non avessimo interagito con gli altri in modo Perfetto, saremmo stati rifiutati. Sapevamo che c'erano delle regole precise di conversazione: dal volume della voce ai gesti da eseguire o da evitare, da dove e cosa gli occhi dovevano guardare alla distanza fisica da mantenere; comunicare con gli altri era come eseguire una lunga danza mortale in cui, al primo passo falso, potevamo finire ammazzati.»
Pietro la interruppe. «Non dovevano essere serate per sfogarci?» domandò perplesso.
Melissa sbuffò. «Io mi sto sfogando contro il governo» rispose e poi riprese a parlare. «Ci è stato imposto di controllare ogni più piccola parte di noi che devia da quello che è stato deciso essere Perfetto; anche l'incontrollabile. Sapevamo fin da piccoli che, se la nostra pelle non fosse stata di un colore omogeneo, coperta da peli dove era Perfetto che si trovassero e glabra dove era Perfetto che lo fosse, il nostro valore sarebbe sceso. Come anche se avessimo avuto un corpo più alto o più basso dell'intervallo di Perfezione, se non avessimo camminato a lungo o affatto, se non avessimo avuto una capacità uditiva o visiva nel range Perfetto.»
Pietro si distese sul letto.
«Sapevamo che ogni più piccola caratteristica, visibile o invisibile che fosse, sarebbe stata contata e che tutto ciò che non era Perfetto, era Imperfetto. La Perfezione, tuttavia, racchiude soltanto caratteristiche statisticamente più frequenti o che sono state decise essere superiori da una cerchia ristretta di persone a cui poi la maggioranza si è adeguata rendendole così comuni. Non c'è niente di assoluto o di scientifico in quello che è stato fatto, niente di tutto questo reggerà allo scorrere del tempo.»
La voce di Melissa si fece più forte e sicura. «Ogni persona ha pari valore e dignità. Noi meritiamo di non essere lasciati indietro, di non essere rinchiusi e nascosti; meritiamo un mondo diverso. Non dobbiamo prendere voti alti o avere successo per meritare di stare al mondo, di venire considerati come persone, noi non abbiamo niente da compensare. È per questo che vi chiedo di unirvi a me per cambiare le cose, ognuno secondo le proprie possibilità.»
«Stai preparando il tuo discorso per creare una rivolta?» scherzò Pietro.
«Ah, ah, divertente» disse Melissa con espressione impassibile. Fece una pausa per prendere fiato e notò che Trentacinque aveva gli occhi lucidi. «C'è qualcosa che non va?» gli domandò.
Il bambino scosse il capo. «No, mi ricordi solo molto la mia madre adottiva...» La sua voce si fece triste. «Vorrei solo sapere quello che le è accaduto...» confessò. «Sapere se è morta o se...» La voce gli si spezzò. «O se è tutto un incubo, magari me lo sono immaginato.»
Melissa scese giù dal letto e lo raggiunse. «Capisco i tuoi dubbi, ci sono alcune parti della tua storia che sono diverse da ciò che accade di solito.»
Pietro annuì grave. «Ho sentito molti racconti di persone che sono arrivate qui, ma il tuo è un caso più unico che raro: il gas viene diffuso nelle case solo se la busta non viene toccata entro il tempo limite; e quando l'hai toccata tu hai detto che c'era ancora un po' di corrente, giusto?»
Trentacinque annuì.
«Quindi il tempo limite non era passato» proseguì Pietro. «E hai detto che il gas era arancione...»
«Esatto.»
Pietro si appoggiò di peso al muro. «Ma il gas che usano di solito è verde e induce il sonno, non la morte» rifletté. «E di che colore hai detto che era la busta?»
«Arancione» mormorò Trentacinque con un filo di voce.
«Sicuro non fosse gialla?»
«Sicurissimo.»
«E la busta è entrata dentro di te...» sussurrò Pietro assorto.
«Giusto.»
«E anche questo non l'ho mai sentito accadere» mormorò il ragazzo portandosi una mano al mento. «Non ricordi nemmeno nulla del tragitto da casa tua alla Scuola dei Demeriti; anche questo è strano, molto strano.»
Melissa fulminò Pietro con lo sguardo e poi si concentrò su Trentacinque. «C'è sicuramente qualcosa che non torna, ma la carta purtroppo non è in grado di fabbricare ricordi dal nulla; mi dispiace, Trentacinque, ma la scena che hai visto è reale.»
Il bambino si morse la lingua, sentiva le lacrime sul punto di spuntare. «Lo so, è solo che vorrei... vorrei avere delle certezze.»
«Lo so» mormorò Melissa con voce roca.
Trentacinque si bloccò, un ricordo si fece strada prepotente nella sua memoria. «Il Fico!» esclamò. «Quando mi sono svegliato, mi ha detto che è normale non ricordarsi come si è arrivati alla Scuola dei Demeriti! Mi ha mentito...»
Pietro lo guardò e completò il suo pensiero: «Forse lui sa qualcosa.» Si alzò di scatto da terra. «Potremmo andare a chiederglielo» incalzò.
Trentacinque sentì nuovamente quel filo di velenosa speranza farsi strada dentro al suo cuore. «Sì, per sicurezza» mormorò.
Melissa li osservava entrambi, incerta. «Forse intendeva dire che nessuno si ricorda come ha fatto a entrare a scuola dal giardino.»
Pietro annuì. «Può essere, ma perché non provarci? Cosa abbiamo da perdere?»
Trentacinque sentì il filo di speranza farsi sempre più grande, quasi strabordare dal suo cuore.
«Ho bisogno di avere delle risposte» mormorò. I suoi muscoli, i suoi polmoni e il suo cervello continuavano a chiedere di sua madre, si convincevano che era stata tutta un'allucinazione, un falso ricordo; oppure, se era accaduto davvero, magari si era salvata in qualche modo, era stata soccorsa dagli ufficiali di polizia che l'avevano portato lì a scuola o da qualche vicino. Era viva, doveva essere viva, non poteva essere morta. In fondo, i tre ragazzi che tutti pensavano fossero morti durante la lezione di genetica erano in realtà vivi e vegeti e si trovavano chissà dove fuori dalla scuola; anche lui stesso era sembrato morto per un po' e invece era lì e respirava ancora.
Sua madre poteva essere viva.
Doveva essere viva.
Aveva detto che non lo avrebbe abbandonato.
Lo aveva promesso.
Melissa si morse il labbro, Eco aveva la testa appoggiata sul suo grembo e teneva gli occhi chiusi.
«Va bene» acconsentì la ragazza. «Ma andiamoci tutti assieme.»
Pietro si affrettò a prendere la mappa. «Facciamo adesso?»
Trentacinque annuì, si sentiva il cuore sul punto di scoppiare. Se ragionava dal punto di vista logico e razionale, sapeva che sua madre probabilmente era morta; sapeva che non doveva sperare, non così tanto, ma gli era impossibile. Era meglio togliersi quel dubbio in fretta, se già la speranza si era fatta così enorme, non osava immaginare come sarebbe aumentata man mano che i giorni fossero passati.
«Andiamo» rincarò il bambino.
Melissa si alzò dal pavimento, seguita a ruota da Eco; Pietro si infilò la mappa nel calzetto.
«Conosco una scorciatoia» mormorò il ragazzo.
I tre lasciarono la stanza, percorsero corridoi su corridoi, camminarono su una decina di tappeti fino a che non raggiunsero le pareti verdine della sala d'attesa antistante l'infermeria.
La porta era semiaperta e un rivolo di luce illuminava il pavimento.
«Bussiamo?» domandò Trentacinque.
Pietro scosse il capo con lentezza. «Entriamo e basta.»
Le pareti verde veronese erano le stesse del giorno in cui Trentacinque era arrivato, ma le Piantine non erano più ordinatamente allineate sulle pareti o sul pavimento: l'intera sala era vuota.
In fondo, proprio sotto al lucernario, se ne stava in piedi il Fico. I suoi occhi verdi brillavano come sempre.
«Mi hanno avvertito che sareste arrivati» disse calmo.
Pietro fece un passo indietro. «Chi l'ha fatto?»
«I Moduli di ascolto» sussurrò il Fico con lentezza. «Anche se rimanete in silenzio, i vostri passi fanno rumore.»
«Ma come-» fece per domandare Pietro.
«Non è questo né il tempo, né il luogo» lo interruppe il Fico. «Mi sembra abbiate questioni più urgenti da risolvere se siete venuti fino a qui, o mi sbaglio?»
Pietro si riscosse e guardò Trentacinque.
Il Fico in risposta puntò i suoi occhi verdi sul bambino. «E la questione riguarda te, deduco.» Schiacciò la lunga striatura verticale da cui parlava formando una piccola striatura orizzontale. «Immagino che tu voglia risposte su ciò che ti avevo detto che era meglio non ricordare e non cercare.»
Trentacinque rimase in silenzio. Voleva davvero porre quella domanda? Poi non sarebbe più potuto tornare indietro.
«Sai qualcosa di mia madre?» si trovò a sussurrare con voce incrinata.
Il Fico sbatté le palpebre marroni. «Dipende da quale madre intendi.»
Trentacinque si sentì preso in giro. «Ne ho solo una di madre» gli rispose.
Il Fico gli si avvicinò lentamente, le lunghe radici che si muovevano come le zampe di un ragno. «Deduco che tu parli della tua madre adottiva.»
«Sì» mormorò Trentacinque, il cuore che batteva sempre più forte.
«Allora di quella so qualcosa» rispose il Fico con leggerezza. «Cosa vuoi sapere esattamente?»
«Cosa è successo il giorno in cui ho ricevuto la busta?» domandò rapido il bambino.
Il Fico sospirò. «Se mi stai ponendo questa domanda, significa che i tuoi ricordi sono riaffiorati» constatò. «Se vuoi posso darti qualcosa per farti scordare tutto nuovamente...»
Trentacinque scosse il capo con forza. «Io voglio sapere che cosa le è successo.»
«Ma tu sai già cosa le è capitato» mormorò con dolcezza il Fico.
Trentacinque sentì la testa girare e il mondo farsi sempre più ondeggiante. «Non lo so...» mormorò. «Lei è...?» non riuscì a completare la domanda.
La striatura da cui parlava il Fico si piegò verso il basso. «È morta.»
Trentacinque si sentì ancora più instabile e Melissa gli si avvicinò, pronta a sorreggerlo in caso fosse caduto.
«Ma perché?» domandò il bambino con voce stridula. «Nessun altro è morto a causa della busta.»
Il Fico sospirò nuovamente. «Non è morta a causa della busta, è morta a causa del gas che ha respirato.»
«Ma l'ho respirato anch'io!» esclamò quasi boccheggiando. «Perché non sono morto anch'io? Perché sono vivo?!»
Il Fico assunse un tono ancora più calmo, se possibile. «Perché tu hai toccato la busta.»
Trentacinque cadde in ginocchio. «Non capisco...»
«So che invece hai capito» disse dolcemente il Fico. «La busta conteneva un antidoto che è penetrato dentro al tuo corpo e ti ha protetto dal gas.»
Una lacrima scese lungo il volto di Trentacinque. «Ma perché?»
«Perché tu dovevi andare alla Scuola dei Demeriti per venire rieducato» rispose il Fico.
«Ma perché uccidere mia madre?» sussurrò. «Lei non c'entrava nulla.»
Il Fico borbottò fra sé e sé prima di riprendere a parlare. «Non l'hanno uccisa per colpa tua, se è questo che pensi.» Fece una pausa. «L'hanno uccisa perché dovevano ucciderla, e quello è stato il momento migliore per farlo.»
«Cosa?!» intervenne Pietro. «Ma cosa stai dicendo? Perché avrebbero dovuto uccidere sua madre?»
Il Fico sospirò ancora. «Perché pensare certe cose è pericoloso, metterle in pratica ancora di più.»
A Trentacinque tremavano le mani, le orecchie fischiavano. «Parla chiaro» sussurrò. «Non ci sto capendo nulla.»
Il Fico si avvicinò ancora di più a loro tre. «Tua madre adottiva faceva parte degli Agitatori...» disse con un filo di voce. «È per questo motivo che hanno mandato un solo ufficiale di polizia a casa tua; uno di quelli nuovi che non hanno la minima idea di come funzionino le cose di norma quando viene consegnata la busta per la Scuola dei Demeriti.» Fece una pausa. «Gli hanno solo detto di fare la foto alle pillole, dare la lettera e poi andarsene. Dopo di che hanno atteso che lui terminasse il suo turno e hanno cominciato a togliere pian piano la corrente dalla vostra casa in modo che voi non poteste fuggire. Hanno fatto poi partire il gas letale. Se tu non avessi toccato la busta, saresti morto come tua madre, poco gli importava, ma hanno voluto darti questa possibilità perché la condanna a morte era solo per lei, non per te.»
Le gambe di Trentacinque cedettero e lui si ritrovò a terra. «Vuoi dire che il governo ha ucciso mia madre?»
Il Fico annuì.
«Perché pensavano fosse un'agit..., argit..., un cosa?»
«Un Agitatore» ripeté il Fico. «Sono le persone che si ribellano al governo.»
«E com'è che non ne abbiamo mai sentito parlare?» domando scettico Pietro.
Il Fico posò i suoi occhi accesi sul ragazzo. «Perché basta sapere della loro esistenza per venire uccisi.»
«Tu come fai saperlo?» domandò Trentacinque in un sussurro. «Come fai a sapere quello che è accaduto a mia madre?»
Il Fico sorrise lentamente. «Perché le appendici di un altro Fico sono venute a prelevarti quando eri svenuto e mi hanno riferito tutto quando ti hanno portato qui, in modo che potessi curarti a dovere.» La fessura da cui parlava si piegò ancora più in su. «È mio compito curare i miei pazienti al meglio e per farlo ho bisogno di avere più informazioni possibile, per questo motivo noi Fichi siamo programmati per scambiarci informazioni tramite Piantine.»
«Perché ci stai rivelando tutto questo? Se sai che ci metterà in pericolo» domandò Pietro con un filo di voce. «Non dovrebbe esserti vietato?»
Lo sguardo del Fico si fece imperscrutabile. «Vi ho comunicato queste informazioni unicamente per il benessere del mio paziente Trentacinque; è consentito dal mio regolamento interno. E nessuno saprà che voi sapete, ho allontanato tutte le mie appendici in modo che non rimanessero prove.»
«E cosa dovremmo farcene di queste informazioni?» lo incalzò Pietro. «Potevi inventarti un'altra storia, tipo che si era trattato tutto di un errore.» Sbuffò. «Mi sa tanto di trappola...»
La bocca del Fico si increspò, formando un leggero sogghigno. «Ma io sono programmato per dire sempre la verità, come avrei potuto mentirvi?»
Trentacinque indietreggiò. «Perché hai quell'espressione?»
«Perché lo trovo divertente» sussurrò lui cantilenando. «Io dico sempre la verità, eppure mento sempre.»
«Ci hai mentito?» gli domando Melissa, guardinga.
Il Fico si voltò a guardarla, gli occhi verde intenso che la squadrarono dalla testa ai piedi. «No, a voi non ho mai mentito, ma ora è vostro dovere occuparvi di Trentacinque.»
«Ce ne stiamo già occupando» intervenne Pietro. «Al contrario tuo.»
Il Fico posò gli occhi su di lui, ma lo ignorò. «Ora dovete andare, alcune Piantine stanno già tornando; non le posso tenere lontane a lungo.»
Melissa annuì e toccò con delicatezza il braccio di Trentacinque. «Dobbiamo tornare in camera» disse calma. «Te la senti di camminare?»
Il bambino annuì e si alzò con l'aiuto di Eco. Melissa lo guidò fuori e Pietro, dopo avere lanciato uno sguardo diffidente al Fico, li seguì a ruota.
«Quel Fico è sempre più strano» borbottò il ragazzo.
«Però ci ha dato le risposte che volevamo» ribatté Melissa.
«Sì, ma-» tentò di dire lui.
«Non è questo il momento, ci sono Moduli di ascolto praticamente ovunque, ricordi?» disse la ragazza.
«Il foglietto è freddo, non ce n'è nessuno» ribatté Pietro.
«Gli Agitatori...» mormorò Trentacinque. «Dobbiamo trovarli, dobbiamo scoprire quello che sanno.»
«Trentacinque...» disse Melissa con voce rotta. «Io non penso che...»
«Loro conoscevano mia madre, loro...» La voce gli si spezzò. «Che cos'altro dovrei fare?!» Quasi urlò, la disperazione e la rabbia e la confusione gli facevano vibrare le corde vocali, le sentiva quasi sul punto di spezzarsi. «Tu mi costringi a vivere» le sussurrò. «E allora ho bisogno di un senso, ho bisogno di qualcosa a cui aggrapparmi» aggiunse angosciato. «Ne ho bisogno e non ce la faccio in un altro modo. Cosa dovrei fare per il resto della mia vita? Aspettare che altre persone muoiano? Non ce la faccio.» I suoi occhi si erano fatti scurissimi. «Ho bisogno di scoprire cosa sono questi Agitatori, chi sono, come entrare in contatto con loro; ho bisogno di sapere se conoscevano mia madre, se...» La voce gli si spezzò.
"Se mia madre parlava loro di me, se c'è qualcuno al di fuori di qui che sa della mia esistenza, se magari qualcuno di loro mi sta cercando" pensò, ma non ebbe il coraggio di dirlo ad alta voce.
Melissa lo guardò e rimase in silenzio per un istante. «Va bene, cercheremo di scoprire come contattare gli Agitatori.»
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