24. Scarafaggi
Art. 137, comma 3 del manuale delle regole:
Ogni studente deve recarsi in farmacia la domenica in un orario compreso fra le 5:00 e le 11:00.
Le ore da quel momento passarono lente e inesorabili. Pietro leggeva le pile di libri che gli avevano assegnato al corso di etica, Melissa fissava la finestra e a intervalli regolari usciva furtiva dalla camera e andava a controllare se fossero comparse nuove comunicazioni. Trentacinque si era raggomitolato sotto le lenzuola nel tentativo di ottenere un po' di privacy e non faceva nulla se non pensare. Aveva bisogno di isolarsi dalle persone per un po' e chiarire quella tempesta di pensieri che gli annebbiava la mente. Nel suo cuore rullava ancora l'incontro della mattina con Aurelia, avrebbe tanto voluto poterle parlare delle sue ipotesi, sapere cosa ne avrebbe pensato lei.
Si sentiva confuso, le intuizioni che sfuggivano e si spezzavano come bolle di sapone nella sua mente. Le pillole che gli avevano somministrato le Piantine Ombra lo avevano lasciato più scosso e turbato della domenica precedente, complice la paura di avere la stessa reazione del ragazzo della stanza 80 e lo shock della notte insonne, terrorizzato all'idea che Sara avrebbe potuto ucciderlo. I bordi degli oggetti gli sembravano più sfuocati del solito, si sentiva stordito, col corpo troppo pesante per muoversi. La pelle madida di sudore gli dava l'impressione che si sarebbe potuto sciogliere sul materasso da un momento all'altro e scomparire per sempre, libero da tutti quei misteri.
Le pillole lo avevano riempito fino a scoppiare di terrore misto a senso di colpa. La sua mente gli giocava brutti scherzi, oscillava fra gli occhi acuti e curiosi di Aurelia e il dolore al petto quando si rendeva conto di stare pian piano dimenticandosi della madre adottiva. Sentiva che i ricordi di lei stavano sbiadendo, quelli visivi soprattutto. Aveva realizzato che non sapeva se lei avesse le dita sottili o le mani grandi, la sua altezza era avvolta in una nebbia scura, anche il colore dei suoi occhi era scomparso dalla sua memoria. Ed era proprio quest'ultima informazione a tormentarlo maggiormente. "Non sai nemmeno il colore degli occhi di tua madre" si ripeteva. "Sei un pessimo figlio, non le hai mai veramente voluto bene, altrimenti ti ricorderesti benissimo il suo aspetto."
Ogni tanto Trentacinque ritornava un po' in sé, anche se gli effetti delle pillole continuavano a tormentarlo come onde che inesorabilmente si infrangono a intervalli regolari sulla banchina. Doveva rimanere concentrato, ricordare il suo obiettivo principale: fuggire. E sopravvivere. Non doveva farsi coinvolgere troppo dalle persone di quella scuola, doveva smettere di pensare alla strana dinamica fra Pietro e Melissa, ad Aurelia, a Sara, a Ginevra, alle lezioni, al numero di demeriti. Ciò che contava era che, se aveva ragione e uno studente stava tentando la fuga dalla scuola, avrebbe potuto emularlo, cercare di capire come aveva fatto. E se la fuga di quello studente fosse fallita e i Sorveglianti lo avessero preso, avrebbe comunque potuto imparare dai suoi errori, in modo da non ripeterli e avrebbe anche saputo cosa accadeva a chi tentava di scappare senza riuscirci.
In fin dei conti, quella della fuga era l'unica spiegazione possibile a quanto successo: quella mattina i Sorveglianti erano entrati in farmacia tutti agitati perché avevano appena scoperto che uno studente mancava all'appello, forse era scappato proprio passando dalla mensa o prendendo qualcosa da lì. Per questo motivo all'inizio avevano deciso solo di chiudere la mensa, convinti che l'avrebbero ripreso in poco tempo. La farmacia invece l'avevano chiusa per la sua posizione: era troppo vicina e sarebbe stato complicato nascondere quanto stava accadendo ai tanti studenti curiosi. In seguito, i Sorveglianti si erano resi conto che stava passando troppo tempo e del ragazzo o della ragazza fuggitiva non c'era ancora traccia, così disperati avevano mandato un messaggio e avevano intimato gli studenti di rimanere in camera in modo da facilitare le ricerche. Le Piantine Ombra erano state impiegate per pattugliare la scuola, proprio perché veloci, non eccessivamente grandi e abbastanza forti da immobilizzare il fuggitivo se l'avessero trovato. Erano anche dotate di tecnologie in grado di riconoscere gli studenti, erano perfette per quel compito. Tutti i pezzi combaciavano. Forse la persona che era fuggita aveva deciso di farlo proprio la seconda domenica del mese per sfruttare l'agitazione generale che l'omicidio di Ginevra avrebbe provocato. Quella persona sapeva che i Sorveglianti e una parte del personale scolastico sarebbero stati più distratti del solito, e aveva approfittato dell'occasione. Tutto tornava.
A Trentacinque non restava che scoprire come aveva fatto a fuggire, prendere spunto e farlo lui stesso, così sarebbe potuto tornare dalla madre e avrebbe finalmente ricordato di che colore erano i suoi occhi. Forse l'avrebbe detto anche ad Aurelia, a Melissa e a Pietro, sarebbero potuti fuggire insieme.
Non appena avessero dato il via libera per uscire dalla stanza avrebbe potuto cominciare a indagare e a fare finalmente qualcosa per potersene andare da quella scuola. Si sfregò le mani sulla testa, doveva pensare a un piano d'azione. La prima cosa sensata da fare era aiutare Melissa a trovare Sara, in questo modo avrebbe potuto sincerarsi che Sara non c'entrasse effettivamente nulla con l'obbligo di rimanere nelle stanze e in più avrebbe potuto cercare di capire se fosse ancora intenzionata a ucciderlo, anche se si sentiva abbastanza sicuro di essere fuori pericolo ormai. Aveva, infatti, il sospetto che la puntualità degli assassinii commessi da Sara non fosse casuale e nemmeno una sua ossessione, ma una scelta obbligata. Il modo in cui uccideva, rimanendo illesa e senza farsi scoprire, doveva richiedere circostanze particolari che si verificavano unicamente in quello specifico arco di tempo. Dunque, se proprio avesse voluto ucciderlo, avrebbe dovuto aspettare almeno un altro mese.
Trentacinque, provato dalla precedente notte in bianco, cadde in un profondo sonno senza sogni e dormì fino al mattino.
Al risveglio, la prima cosa che vide fu il vasetto della Mimilosa raspante: stava crescendo molto velocemente, il suo stelo ormai aveva raggiunto i cinque centimetri e sembrava sul punto di sbocciare nei giorni successivi. Trentacinque si tirò su dal letto, la maglietta grigia incollata alla schiena, madida di sudore, forse la sua non era stata una notte priva di sogni come gli era sembrata.
Con un gesto automatico allungò il braccio in cerca degli occhiali, la sua mano però incontrò solo la pila di libri che usava come comodino. Sospirò: non pensava che avrebbe sentito così tanto l'assenza delle sue lenti. Si stiracchiò con lentezza e lo sguardo gli cadde su Melissa che sembrava non avere chiuso occhio tutta la notte: aveva lo sguardo spento, cerchiato da delle profonde occhiaie scure. Eco le zampettava attorno, la coda bassa e lo sguardo mogio, sembrava sapere che i tormenti della ragazza si sarebbero placati solo quando avesse visto Sara.
Trentacinque rabbrividì, per quanto quella ragazza gli facesse paura, sperava anche lui che non le fosse capitato nulla di male. Non voleva che morisse, anche se avesse avuto la certezza che era stata lei ad uccidere tutte quelle ragazze, desiderava comunque che rimanesse in vita; non solo per Melissa, non solo per tutte le persone che le volevano bene, era proprio l'idea della morte che gli provocava la nausea. Anche in quel momento il suo cervello continuava a immaginare il corpo di Ginevra riverso a terra, il collo squarciato dalle sbarre metalliche, il sangue che scorreva e che, come un lago, le macchiava i vestiti. Inevitabilmente la sua testa continuava a riproporgli versioni differenti della scena: a volte la vedeva dissanguarsi con lentezza, urlare fino a non avere più voce, mentre il dolore le riempiva i muscoli e le svuotava il respiro, altre volte la immaginava morta sul colpo, senza rendersi conto di nulla. Continuava a domandarsi come si fosse sentita in quegli attimi, quali emozioni e pensieri le fossero entrati nella testa. E il dolore, quella era la parte peggiore. Non riusciva a smettere di sentire anche lui delle sbarre che gli trafiggevano le gambe, il cuore che batteva velocissimo, la sensazione di non avere più un corpo intero, ma spezzato in tanti pezzi, e il sangue che non stava più all'interno, ma fuori e copriva tutto. Quando pensava ai suoi organi doveva fermarsi, riprendere fiato, cercare di dirigere l'attenzione altrove. Da un lato avrebbe voluto sapere esattamente come era morta dall'altro preferiva rimanere nell'illusione che il Modulo di ascolto e cattura fosse calato su di lei senza che se ne fossa resa conto e che in meno di un nanosecondo fosse morta. Non voleva che nella sua testa entrasse un altro corpo non in vita, nemmeno quello di Sara.
Erano le sette di mattina, ma non c'erano ancora stati aggiornamenti dal giorno precedente: sul cartello giallo continuavano a rimanere quelle poche righe che li intimavano a non lasciare la stanza.
Melissa con passo malfermo si alzava ogni cinque minuti dal letto, andava a controllare se ci fossero novità, e poi si ributtava sul materasso, gli occhi sempre aperti e vigili, nonostante la carenza di sonno. Anche Trentacinque ogni tanto andava a dare un'occhiata, desideroso di uscire di lì il prima possibile e poter cominciare a indagare. Era vero che non avevano specificato l'orario nell'avviso, ma si aspettava che entro le nove del mattino avrebbero detto loro che potevano uscire dalla stanza o che sarebbero dovuti rimanerci ancora un po'.
Alle otto e trenta in punto, mentre Trentacinque stava per varcare nuovamente la soglia della camera notò con la coda dell'occhio che erano comparse delle macchie nerastre nell'angolo in basso a sinistra del cartello giallo.
«Si è aggiornato!» esclamò sorpreso.
Melissa si alzò di scatto dal letto, oscillò e per un attimo Trentacinque pensò che sarebbe caduta, ma Eco corse immediatamente al suo fianco e la ragazza appoggiò una mano sulla sua schiena per sorreggersi. Pietro, svegliato dall'urlo di Trentacinque, guardò Melissa ancora intontito. «Che succede?» bofonchiò.
«Ci sono novità...» mormorò Melissa con voce sottile.
Solo in quel momento Trentacinque si rese conto di essersi cacciato in un guaio. Non si sentiva ancora pronto a rivelare ai due ragazzi che non riusciva a leggere cosa c'era scritto sul cartello, anzi non era nemmeno sicuro ci fosse scritto qualcosa di nuovo, l'aveva solo dedotto.
«È qualcosa di brutto?» disse Melissa avvicinandosi a lui agitata. «Sei pallido come uno straccio.»
Gli occhi di lei si posarono ansiosi sulle nuove parole comparse, le spalle le si abbassarono. «Possiamo uscire» sospirò.
Trentacinque sperò che aggiungesse altro, le vorticanti macchie scure erano abbastanza grandi da fargli pensare che ci fosse scritto molto di più.
«Dicono che c'è stata una disinfestazione straordinaria ieri, di scarafaggi. Per questo hanno dovuto chiudere la mensa, poi il problema si è aggravato e hanno dovuto chiudere l'intera scuola» aggiunse la ragazza.
«Che c'è? Hai paura degli scarafaggi, Trentacinque?» domandò Pietro, attribuendo a quello la sua reazione. «Ve l'avevo detto che non c'era niente di cui preoccuparsi» aggiunse.
«In effetti... Ha senso» mormorò Trentacinque, la voce bassa mentre i suoi piani per la giornata crollavano e la possibilità di fuggire si faceva sempre più lontana.
«La tua era una buona ipotesi» cercò di rassicurarlo Melissa, ignara che la sua disperazione fosse dovuta a tutt'altro.
«In ogni caso sono contenta che stamattina abbiamo genetica, così posso controllare che a Sara non sia capitato nulla.»
Pietro roteò gli occhi, ma non disse nulla.
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