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9.

Bielorussia Orientale, nei pressi di Mahiljou, Giugno 1944


Mancava mezz'ora all'alba quando l'Obergefreiter Krause salì i pochi scalini di pietra sbrecciata che portavano alla pedana di legno marcio in cima al campanile. Al gelido buio, tirò giù il fucile di spalla e toccò il polpaccio di Weinrich, che aveva coperto il turno di notte.

«Mi hai portato la colazione?» chiese lui, sollevando pigramente la testa dal calcio dell'arma, con la voce resa rauca dal sonno negato.

«Va', resto io» gli rispose Krause con un borbottio ringhiato.

«Non ripetermelo.»

Weinrich scese i ventiquattro gradini della stretta scala a chiocciola e i dieci pioli in legno che lo separavano dal suolo, stando attento a non cadere nei buchi lasciati dalle granate, e attraversò l'unica, spoglia navata della chiesa. Schegge di vetro e calcina scricchiolarono sotto gli scarponi di cuoio. Superò il pesante portone sfondato e si fermò dietro i sacchi di sabbia del posto di blocco.

«Tutto bene lassù?» gli domandò la sentinella.

«Nulla di nuovo sul fronte orientale» rispose, «Si sono di nuovo ritirati dalla periferia.»

Erano stati giorni tranquilli, quelli: Weinrich aveva smesso di aggiungere tacche alla sua lunga serie, sotto la finestra; il totale, finora, era 61. Si strofinò due occhiaie più pesanti dei battenti della chiesa e si rimise in marcia, attraverso quel che rimaneva della piazza a lato dell'incrocio che dominava il villaggio, fino alla loro mensa improvvisata. Qualche anima pia stava già preparando il caffè, ringraziando il Signore. Si sedette intorno al fuoco con il cambio della guardia e fece colazione in silenzio, masticando a fatica le piastre di segale che chiamavano pane. Ogni boccone era cianuro.

L'Unteroffizier Schreiber si presentò coi primi raggi, ordinò di alzare la mano e distribuì la pillola quotidiana di Pervitin, che tutti buttarono giù senza esitare. Finalmente si sciolsero le mascelle.

«Che dicono al comando?» esordì il giovane soldato Müller.

«Ci levano altri aerei, ho sentito dire da Albrecht» rognò l'alto Gruber, soldato anche lui. «Per la Francia, dice. Sembra che stia succedendo.»

L'Oberschütze Groß, appoggiato a un cannone anticarro da 75 mm, sputò per terra. «Non riesce.»

«Io dico che riesce» lo rimbeccò il soldato Gruber mettendo sul fuoco una misera latta di fagioli.

«Non farti sentire, o ti farai arrestare.»

«Che si fottano. Lo sanno anche loro che siamo senza panzer e senza aerei, sono loro che ce li hanno tolti. Ci vogliono lasciare col culo all'aria qua... tanto sono sicuri che vinciamo, anche se non abbiamo pallottole.»

«Zitto, bastardo, o ci farai arrestare tutti quanti!»

Weinrich alzò la testa.

L'Unteroffizier Schreiber era lontano sulla strada laterale, oltre l'ufficio postale mezzo rovinato che usavano come stazione radio.

«Ho sentito che ne hanno presi altri, di partigiani, ieri sera» riprese il soldato Müller, «Vicino alla ferrovia.»

«Sì, li avranno già fucilati, a quest'ora.»

«Quei bastardi bielorussi piegano le rotaie e fanno volare i treni, maledetti loro» commentò l'Oberschütze Krämer, che da civile aveva fatto il saldatore.

Se quel bestione non avesse perso il posto in officina nel '38 adesso sarebbe stato al sicuro in qualche fabbrica in patria. Amara ironia, pensò Weinrich. Gli altri, che erano in servizio con lui da più tempo, dicevano che più volte aveva fatto richiesta di trasferimento in un reparto di manutenzione, ma gli era stata negata a ogni occasione.

«Siamo troppo deboli qui. Se non ci mandano rinforzi, ci sfondano e vanno oltre senza problemi» concluse l'Oberschütze Krämer, roteando i suoi grossi occhi ottusi.

«Il Führer sa quello che fa» continuò il soldato Müller con convinzione.

Weinrich aveva perso il filo, aveva pensato troppo e s'era distratto, ma forse era meglio così. Tutti guardarono sconsolati il ragazzino e rimasero in silenzio, che c'era quell'insulto di rancio da finire e persino le gavette, anche lì in mezzo al nulla, avevano orecchie.

Quando il sole toccò le campane, da Nord giunse un cupo rimbombare, continuo e sempre più incalzante.

«Dove battono?» chiese il soldato Krämer.

«Quella è Orscha» giudicò il soldato Gruber, l'unico che alzò la testa dal piatto, ma solo perché aveva finito il pane.

Gli stessi cupi presagi echeggiarono alle loro spalle, terribilmente vicini, abbastanza da avere ora l'attenzione di tutti.

«Buon Dio, è il Wellenbrecher.»

«Qualcosa non mi torna» borbottò Groß, tetro. «Hanno avvicinato le loro postazioni?»

Weinrich alzò di nuovo la testa verso l'ufficio postale, nell'esatto istante in cui uno del servizio radio correva fuori urlando verso Schreiber.

Altri tuoni ancora, poi il cielo si mise a fischiare.

«Alle buche...!»

L'ufficio postale esplose, collassando sulle sue fondamenta; le granate atterrarono lungo la strada, sollevando spruzzi di terra e morte. La salva di sbarramento colpì d'infilata la via ma atterrò troppo a sud, piallando la periferia. Mantenendo la lucidità, i soldati afferrarono le armi e si portarono ai treppiedi e ai mortai. Il Pervitin stava cominciando a fare effetto.

Il cielo si riempì di puntini neri e poi di sbuffi scuri, e agli obici si unirono i canti lamentosi degli aerei d'attacco sovietici a caccia dei panzer tedeschi.

«Krämer, Müller! In ricognizione!» sbraitò l'Unteroffizier Schreiber tornando da ciò che restava del posto di comando, immacolato per qualche assurdo miracolo. I due fanti scattarono e sparirono tra gli stretti vicoli. «Weinrich, al campanile! Difendete questa strada a ogni costo, o giuro che in Germania faccio tornare giusto le vostre teste!»

L'aria si riempì ancora di fischi. Una seconda salva sconquassò il villaggio e atterrò tra l'incrocio e la chiesa; con un boato il campanile scomparve in una nube di polvere e si piegò su un fianco, e il tetto della chiesa si sollevò ed esplose scagliando tegole rosse sulle case intorno. Una terza granata atterrò più in là, oltre il posto di blocco, e aprì un cratere profondo mezzo metro nell'asfalto della strada alle loro spalle.

Weinrich rimase saldo, valutò come continuare a eseguire gli ordini e individuò una palazzina a due piani, all'angolo di fronte alla piazza, per portarsi più in alto. Mentre attraversava il forno abbandonato al pianterreno e s'arrampicava su scalini polverosi il suolo cominciò a tremare. Dalla finestra verso Est vide Krämer e Müller tornare indietro a rotta di collo, neanche li inseguissero tutti i principi dell'inferno. Dietro di loro iniziarono a mitragliare, una raffica dopo l'altra in sequenza serrata.

«Panzer!» urlò Weinrich ai compagni sulla strada, indicando una colonna di T-34 che avanzava protetta ai fianchi da file di fucilieri. I sovietici calavano sul villaggio, dritti sull'incrocio, e la loro malandata compagnia era l'unico ostacolo in mezzo.

Weinrich posizionò l'arma sul davanzale e attraverso l'ottica individuò l'ufficiale nemico più alto in grado. «Dio, concedimi la salvezza, rendimi meritevole del tuo amore» sussurrò.

E fu uno.

I soldati sovietici corsero al riparo.

E furono due.

Il carro in testa ruotò la casamatta svasata e alzò il cannone. Weinrich saltò indietro, appena in tempo per evitare le schegge dello squarcio che s'aprì nel muro.

Le mitragliatrici tedesche iniziarono a ronzare. Di nuovo alla finestra, Weinrich vide Gruber nella strada sotto di lui portarsi sul fianco della colonna. Teneva sottobraccio il corto tubo marrone d'un Panzerfaust. La granata volò contro la corazza inclinata della fiancata ed esplose; il carro colpito si fermò e iniziò a fumare, e i fanti sovietici spararono nel vicolo.

Weinrich prese la mira e inspirò.

E furono tre.

Tirò l'otturatore, inspirò di nuovo.

Quattro.

Qualcuno di sotto gli rispose. Il palazzo fu scosso di nuovo dal colpo di un cannone.

E cinque.

Ricaricando, Weinrich corse al pianterreno e di nuovo in strada, dove Schreiber guidava le truppe e distribuiva le munizioni. Ora sanguinava da un orecchio sotto l'elmetto sporco.

«Continuate l'attacco! Fino all'ultimo uomo o vi caccio io su una baionetta!» urlava con voce roca, ma nessuno lo ascoltava: ogni uomo pensava a sé, reso cieco e sordo dalla furia; ognuno chiuso nel suo piccolo bozzolo di follia con inumana lucidità si esponeva a pallottole e granate. Una si portò via l'MG 42 che bloccava la strada e i suoi tre serventi. I carri avanzarono ancora, aggirando gli ostacoli e schiacciando i caduti. L'incrocio era perduto, e con esso il villaggio, e col villaggio il fianco dei bastioni che qualcuno ai piani alti aveva chiamato Wellenbrecher.

Groß si lanciò su Schreiber prima che Weinrich potesse intercettarlo e chiedere cosa fare. «Ordina la ritirata!» urlò al superiore, ma quello ricaricò il mitra e rimase sul posto. «Sei un pazzo!»

Un cannone sparò tra di loro, Groß e Schreiber volarono in direzioni opposte. Il soldato scelto non si rialzò.

Weinrich corse dall'Unteroffizier, schiacciato contro il terreno, la testa sollevata e le mani contratte in una posa innaturale. Gli s'inginocchiò a fianco e premette la macchia scura che si stava formando sull'addome.

Ordini, aveva bisogno di ordini.

Ma Schreiber piangeva.

«Non abbiamo vie di fuga» farfugliò prima di tossire sangue.

«Sergente, i rinforzi?» Weinrich era disperato.

«Non ci sono rinforzi!» Schreiber tossì di nuovo e chiuse gli occhi inzaccherati di lacrime. Non rispose più, seppur respirasse ancora.

Weinrich balzò in piedi e guardò i compagni intorno, senza più altra guida se non quella di Dio. Con Schreiber ridotto così ora il comando spettava... ora il comando spettava a... perché erano soli?

Il 75 mm aprì il fuoco dall'altro lato dell'incrocio, bloccando ancora i sovietici e dando respiro ai tedeschi: alcuni fuggirono verso ripari migliori, e Weinrich li seguì. Superò i sacchi di sabbia, il cannone e i compagni. Lo chiamarono ma lui non si voltò e continuò a scappare.

I richiami furono coperti dalle esplosioni, e le mitragliatrici ancora una volta ripresero a ronzare.


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