67.
Berlino, Maggio 1945
Tenevano i piedi nudi immersi nella sabbia umida, seduti sulla stessa rena grigia che ricopre le coste del Mar Baltico. Eppure Leo era sicuro di non averlo mai portato a Stettino, no.
Si strinse a fianco a lui, baciandogli le guance gelide. «Mi manchi» gli sussurrò in un orecchio, «Vorrei tu fossi ancora qui.»
Charlie si voltò a guardarlo, serrò le labbra e gli toccò i capelli dorati, in quel momento folti come non erano più. Cercò il suo collo e le sue mani, esplorò il suo corpo come mille volte insieme avevano fatto anni prima.
Si alzò e gli tese una mano. Nonostante il freddo sorrideva felice – anzi, fiducioso.
Leo affondò nel verde e ocra brillante, toccò la mano che gli era offerta e si issò in piedi. «Vorrei tu fossi ancora qui» ripeté.
Il suo amato non rispose, eppure Leo poteva avvertirne il labile richiamo, come proveniente dall'altra parte del mare lì davanti a loro: «Sono qui, ancora. Sono al tuo fianco. Sono dentro di te.»
«Sempre» gli rispose sommessamente, prima di stringere ancora quel distante fantasma.
Una mano delicata gli toccò la spalla e lo fece voltare.
«Erika...»
Tornò verso Charlie, ma la sua ombra non c'era più. Al suo posto attendeva la scrivania del suo studio, nella casa che aveva a Stettino. Nella mano si ritrovò il foglio che aveva stretto per giorni, incerto su come riempirlo. «Non so cosa scrivergli» singhiozzava, «Non voglio fargli male, ho paura... di ferirlo. Ho paura che qualcuno la legga e faccia male a tutti noi...»
Si scuoteva e cercava la penna, invano, e si costernava per non aver agito in tempo, per essersi trattenuto.
Erika scese a toccargli il braccio. «Troverai le parole» lo confortò. «Andrà tutto bene... ora va'.»
Tra i piedi nudi, Leo sentiva ancora la sabbia umida e fredda.
***
La Germania si arrese la mattina del 2, dopo che gli ultimi infelici difensori avevano approfittato della confusione notturna per abbandonare Tiergarten e fuggire a Ovest, attraverso Spandau. I combattimenti proseguirono fino al primo pomeriggio, quando smise di cadere quella pioggia leggera.
Boleslaw seppe poco dopo che la torre dello zoo era stata risparmiata e aveva firmato una resa. Tra chi aveva cercato rifugio là dentro, molti s'erano suicidati, spinti dalla pazzia e dal terrore. Così seppe in seguito.
Seppe anche che Hitler era stato trovato morto e carbonizzato, avvolto in una coperta.
Anche l'Hotel Adlon bruciò quel giorno: le fiamme avvolsero il tetto e le cantine, divorandone le più profonde fondamenta, brillando nella notte berlinese come un cuore pulsante, una stella in Terra. Dell'edificio fu miracolosamente risparmiata solo un'ala minore, mentre del resto il fuoco non lasciò che tristi cumuli di mattoni ricoperti di cenere.
Amaramente, pensò Boleslaw, s'intonavano al panorama.
Certo con una certa dose di ironia, qualche berlinese avrebbe potuto dire che la parabola nazista era finita com'era iniziata, tutto sommato: con un tremendo incendio.
Ma Boleslaw Jaruzelski non poteva immaginarlo. Seduto sopra un carro, guardava il desolante deserto che era Berlino, e si chiedeva cosa li avrebbe attesi in futuro.
***
Albert strinse a sé l'amata Agathe e la baciò. Non aspettava altro da cinque anni ormai, e si costernava per non essere arrivato in tempo, per non essere riuscito a evitarle quella maledetta tortura. Si sentiva colpevole, ma avrebbe trovato dopo il tempo per chiedere scusa al mondo, per chiedere il perdono per ogni cosa che aveva fatto.
Lei si separò poco dopo e guardò imbarazzata l'uomo che sedeva tra i mattoni, lo sguardo rivolto verso una finestra che non esisteva più.
«Non potrò mai sdebitarmi» disse Albert stringendo le mani di Agathe, viso e corpo ancora provati dalla violenza, «Davvero.»
Leonhard inspirò la brezza che attraversava Unter den Linden: sapeva di cenere. Forse avrebbe piovuto di nuovo.
«Non devi» rispose, «Sono io che avevo un debito con voi. Tu hai fatto molto più che aiutarmi a ritrovare il senno.»
Sopra di loro, nel cielo lattiginoso del primo mattino, ancora aleggiava il fumo dell'Adlon, consumato dalle fondamenta fino all'ultimo piano, fin dentro quelle stanze dove s'erano incontrati, dove s'erano baciati e ritrovati. Ne era valsa la pena, portarsi dietro quella ferita aperta, soffrire così tanto per così poco? Sì, ne era valsa la pena, per ogni attimo trascorso, per ogni respiro, per ogni fugace sguardo. Avrebbe voluto trattenere la mano, quel giorno, fuggire con lui in Provenza, nella Spagna di Franco, o ancora oltre in Africa nel profondo Sud o da qualche parte sulle coste brasiliane, ovunque lontano da lì, da quel tempo. Eppure... quella coppia alle sue spalle era la prova che aveva fatto anche del bene, restando, anche dopo tutto il male che aveva fatto.
«Ma sei proprio tu?» chiese Agathe, richiamandolo tra le rovine. «Sei proprio quel Leonhard? Stento a crederci.»
«Stento a crederci anch'io, eppure eccomi qua.»
Agathe si appoggiò al marito e gli strinse un braccio. «Andiamo ora» lo pregò con un debole fiato, «Ho bisogno di levarmi... questo schifo di dosso.»
«Cosa farai adesso?» chiese Albert, attardandosi ancora un poco prima di seguire la moglie verso casa.
«Cosa farete voi?»
«Oh, abbiamo le nostre ferite da sanare. Torneremo a Wedding, vedremo come risorgerà Berlino. Ma tu?»
«Io...» Leo si sollevò e si spolverò l'uniforme. Aveva bisogno di abiti civili, ne avevano bisogno tutti. «Io attraverserò il Reno, ho... ho ancora un debito da saldare.» Si voltò di nuovo verso la strada, verso i palazzi distrutti e gli alberi che tornavano di già a germogliare. «È il mio cruccio più grande.»
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