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47.

Potulizt, 20 km a Ovest di Bromberg, Gennaio 1945


Albert si chinò verso il malcapitato. Sul petto della logora camicia a righe, sopra un numero di matricola, svettava un triangolo rosa. «Chi sei?» gli chiese, ma quello a malapena aprì la bocca. Si sedette accanto a lui e slacciò la fibbia della bisaccia. Da qualche parte doveva avere una galletta avanzata, se non un intero barattolo di fagioli.

Trovò il pacco di biscotti e lo allungò all'uomo, che si sfregò la mascella spigolosa e divorò tutto fino all'ultima briciola.

«Grazie» disse infine il prigioniero ansimando, in un tedesco segnato dall'accento della Pomerania.

«Hai sete?»

Il prigioniero annuì, e Albert gli allungò la bottiglia che usava come borraccia. «Come ti chiami?» gli chiese nel mentre.

«Leonhard Von Hinten.»

«Hai visto passare dei sovietici, Leonhard?» le tracce nel fango erano troppo confuse, mescolate a quelle d'una colonna appiedata.

Leonhard ci pensò su un poco. «Probabilmente ora sono nel Lager.»

«Un accampamento? Cosa ci facevi in un accampamento? ...O era una prigione? Che ti è successo?»

Leonhard scosse la testa.

«Aiutami ad alzarmi, ti porto a vedere.»

Albert si mise in piedi e gli infilò la testa sotto un braccio. «Sei sicuro che troveremo i sovietici?» chiese ancora.

«Penso di sì.»

«Quanti? Solo quattro, vero?»

«Quattro ne ho visti.»

«Andiamo, allora.»

Giunsero al filo spinato alla sera, superarono la rete e si nascosero fra le baracche. Oltre la prima fila e una seconda recinzione, brillava il fuoco di un bivacco.

«Resta qui» sussurrò Albert appoggiando Leonhard a un muro. «Se arriva qualcuno, urla il mio nome.»

Leonhard lo guardò, attendendo chissà cosa, e non parlava.

Stava dimenticando nulla? "Il nome, cretino, non gliel'hai detto."

«Albert.»

Leo annuì.

«Sai dove posso trovare un'arma?»

«Puoi provare nel corpo centrale, gli alloggi delle guardie. Proprio dove hanno acceso il fuoco.»

Albert lasciò perdere il piano e si allontanò, girando intorno alla piazza, tenendo sempre un occhio verso il fuoco. Tre soldati dormivano avvolti nei cappotti, stesi sul nudo terreno, accanto ai loro fucili incrociati in una piramide sopra la quale svettava uno dei loro elmetti. "Chissà perché non dormono dentro le baracche" si chiese, e infilò la testa in una di esse.

Per poco non vomitò: il puzzo di merda e morte era nauseante, così forte da impregnare il legno delle pareti. Cosa diamine facevano in quel posto lo sapeva solo il Diavolo, e in Albert s'insinuò l'idea che fosse meglio così: non sapere.

Ributtò tutto giù e continuò il suo aggiramento, cercando il quarto nemico che doveva essere di sentinella. Lo sentì proprio alle spalle del corpo di guardia, al limite del cono di luce offerto dal fuoco. Ansimava, piegato in due contro il muro, e gli dava le spalle, le brache slacciate. A terra, dietro di lui, giaceva il cinturone con la giberna. E con essa la baionetta.

Lo riconobbe dai capelli paglierini e in lui montò la rabbia. Si avvicinò trattenendo il fiato e lentamente si chinò a raccogliere l'arma. La lama scivolò fuori dal fodero con solo un sospiro, o forse fu Paglierino a sospirare. Alzò lo sguardo e la vide, stretta nella mano, ancora stropicciata come l'ultima volta che l'aveva vista: la sua piccola Agathe.

Ormai una furia, Albert si lanciò addosso al soldato, gli chiuse la bocca e avvicinò la lama al collo; Paglierino emise un urlo soffocato e gli morse la mano. La lama recise carotide e giugulare con uno spruzzo di sangue. Il soldato, la giubba invernale insozzata di rosso, perse vigore e cadde in ginocchio. Albert lo mollò e si prese la mano ferita, lasciandosi sfuggire un grugnito.

Qualcosa intorno al fuoco si mosse, un soldato si rigirò e borbottò versi senza senso, alzò la testa e lo vide; urlò mentre Albert gli si avventava addosso e lo pugnalava più volte. Gli ultimi due si svegliarono di soprassalto e si lanciarono verso i fucili, ma furono troppo lenti: l'ombra di Leonhard era già accanto alle armi. Lanciò l'elmetto in testa al nemico più vicino e afferrò un fucile, roteandolo come una mazza sulla testa dell'ultimo malcapitato. Tirò a fatica l'otturatore e un proiettile volò in alto – gli idioti li avevano lasciati carichi. Richiuse e sparò a bruciapelo. Il violento rinculo gli fece perdere l'equilibrio e Leonhard per poco non cadde.

Il soldato colpito dall'elmetto si rimise in piedi e lo caricò, buttandolo a terra e gettandogli le mani al collo. Urlava in russo, e così non sentì il pugnale calargli tra le scapole.

«Levamelo di dosso, è pesante» disse Leonhard, schiacciato sotto il corpo morto.

Albert lo liberò e lo aiutò a rialzarsi. «Stai bene?» gli chiese mentre si allontanava per riprendere il suo piccolo tesoro.

«Sì, anche se un po' dolorante.»

«Avevo tutto sotto controllo ma grazie comunque dell'aiuto. Non c'era bisogno di mettersi in pericolo per me.»

Si sedettero intorno al fuoco, tremanti per il freddo e lo stress.

«Che facciamo adesso?» chiese Leonhard, iniziando a rovistare nei tascapane dei morti.

«Io devo tornare a Berlino, ho bisogno di sapere come sta mia moglie.»

«E come vuoi farlo? Ridotto così? Da solo?»

Albert si strofinò una mano sulle guance alla luce del fuoco. Aveva davvero bisogno di darsi una pulita, e la ferita sul volto gli bruciava terribilmente. «Sì» rispose con fare seccato. «Tu che farai invece?»

Leonhard rimase interdetto. L'idea della libertà nell'ultimo anno non gli aveva minimamente sfiorato la mente, e ora si ritrovava a non sapere come sfruttare un premio tanto ambito da altri. «Mi aspettavo di morire qua dentro, in verità. Me lo sarei meritato.»

«Perché? Sei forse un criminale?»

«Non sono certo un santo.»

«Nessuno lo è di questi tempi.»

Leonhard si toccò l'ossuto anulare. Pensò alle coste dove era nato, alla casa di suo padre abbandonata prima che tutte quelle insensatezze avessero inizio.

«Andrò a Stettino» concluse, «Forse ritroverò mia moglie.»

Albert storse il naso, ma fece un cenno d'assenso. «Non è distante, ma non so dirti se è stata già occupata o è ancora in mano nostra.»

«Se dovessi morire non cambierebbe niente. Anzi, forse sarebbe meglio così.»

Albert aveva mille domande che gli affollavano la bocca, ma le ingoiò tutte. «Se vuoi... possiamo fare un po' di strada insieme, finché non... non esci da questa condizione pietosa, e quando sarà il momento ognuno per la sua strada.»

«Sì... volentieri. Ti ringrazio» rispose Leonhard stupito.

«Basta che non mi rallenti. Non ho tempo da perdere.»

«Certo.»

«Bene.»

Tra i due calò il silenzio, finché Leonhard non iniziò a sbottonarsi la camicia.

«Che fai? Così prenderai freddo.»

«Dobbiamo cambiarci entrambi. Vediamo cosa si può recuperare da questi poveri disgraziati.»

Con un po' di fortuna riuscirono a mettere insieme due uniformi non troppo sporche, ed equipaggiamento e vettovaglie non mancavano. Avrebbero coperto le casacche insanguinate coi pastrani, ma il problema restavano le loro facce.

«Domattina svegliamoci presto» consigliò Leonhard, «Negli alloggi troveremo sicuramente di che lavarci e raderci.»

Albert annuì ed entrambi si misero a dormire.

Il cecchino passò la notte tormentato dall'insonnia, rigirandosi più e più volte finché non si schiarì un poco il cielo.

Svegliò Leonhard, che lo condusse nel dormitorio degli ufficiali. Molta della loro roba era ancora lì, abbandonata in tutta fretta. Si fecero entrambi una rapida doccia e Albert si tagliò la barba, attento a non riaprirsi la guancia.

«Ti dispiacerebbe aiutarmi?» gli chiese Leonhard, porgendogli il rasoio. «Mi tremano le mani.»

Albert acconsentì.

«Ti sei lasciato i baffi, vedo.»

«Sì, è un problema?»

«Potrebbero scoprirci.»

«Sono pronto a rischiare.»

Tutt'e due rimasero in silenzio per un po', finché Albert non allontanò la lama.

«Se vuoi, posso tagliarti i capelli. Non garantisco nulla ma...»

«No, non toccarmi» rispose Albert diffidente, arruffandosi la zazzera castana. «Li legherò sotto l'elmetto.»

Leonhard non insistette.

Appena dopo l'alba, col sole alle spalle, si misero in marcia.

Due ore dopo un'altra pattuglia sovietica entrò nel campo, per trovarci quattro corpi nudi e nient'altro d'interessante.

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