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Prologo

4 Settembre 18:03

Sono sdraiata nel letto della mia stanza, immersa nella lettura di un libro, quando la suoneria del cellulare mi riporta bruscamente alla realtà. È Nicole. Cavolo, le devo dire che domani partirò per Seattle.

Nicky: «Ehi Anny, è da un po' che non ci sentiamo. Possiamo chiamarci come ai vecchi tempi?»

Sorrido debolmente, un po' malinconica. Non me lo faccio ripetere due volte e la chiamo subito.
Settembre è finalmente arrivato, e questo significa solo una cosa: l'estate è finita e si ritorna a scuola. Quest'anno ho trascorso un'estate bellissima qui a Portland, e forse sarà l'ultima. I miei genitori, qualche settimana fa, mi hanno annunciato che ci trasferiremo a Seattle. Domani.
«Tesoro, è ufficiale: ci trasferiamo.» Le parole di mio padre rimbombano ancora nella mia mente come un'eco.
«... A Seattle, non sei contenta?» aveva aggiunto, come se fosse la notizia migliore del mondo.
Non riesco ancora a credere che tutto questo stia accadendo davvero. Quando me l'hanno detto, mi sono persino tirata dei pizzicotti sul braccio, sperando fosse solo un brutto sogno. Ma non lo era. Perché proprio a me?
A dire il vero, non sono per niente entusiasta di questa nuova avventura. Non mi hanno nemmeno dato il tempo di rifletterci, e io non sono pronta a lasciare il posto che chiamo casa.
«Che significa che devi trasferirti? E dove, di preciso?»
Deglutisco con difficoltà, sapendo che la mia risposta non le piacerà. «A Seattle.»
Dall'altra parte del telefono, sento Nicole ridacchiare amaramente. «Verrai a trovarmi, vero?» La sua voce è carica di rabbia, anche se cerca di nasconderlo.
Sono due ore e mezzo di treno, come farò a sopportare l'idea che non tornerò mai più?
Sospiro profondamente, cercando di trattenere l'agitazione. «Non lo so.» Mento. Non voglio dirle che questa partenza potrebbe essere definitiva. Almeno per il momento.
Cala il silenzio. Un silenzio pesante, quasi soffocante, che nessuna delle due osa interrompere. Sto per riaprire bocca, ma è troppo tardi: Nicole ha già riagganciato.
«Nicole?»
Abbasso lo sguardo sul telefono e lo lascio scivolare sul letto. Faccio lo stesso, lasciandomi cadere tra le lenzuola. Mi rannicchio, stringendo forte un cuscino come se fosse una persona a cui non voglio dire addio.
Con la coda dell'occhio, noto la mia valigia aperta e ancora disfatta sul pavimento. Forse è davvero arrivato il momento di prepararla. Non posso rischiare che mia madre venga qui a ricordarmelo con uno dei suoi sguardi severi.
Esito per un momento, ma poi mi decido. Sbuffando, mi alzo dal letto e comincio a piegare i vestiti con lentezza, sistemando le mie cose nella valigia. Non ci metto troppa cura; prendo quello che capita, un capo qua e uno là. A chi importa, dopotutto?
Ma presto mi accorgo che la valigia è troppo piccola per contenere tutto. Alcuni vestiti rimangono fuori, come a ricordarmi che niente oggi vuole andare per il verso giusto.

Il giorno dopo, il viaggio verso la stazione è silenzioso. Mamma guida, papà e Eleonor canticchiano a bassa voce, ma io mi limito a fissare il paesaggio che scorre fuori dal finestrino. Mi sembra di lasciare un pezzo di me dietro.
Arrivati alla Union Station, la torre con l'enorme scritta "Go By Train" mi accoglie come un monito. Non voglio andare, ma non ho scelta. La stazione è piena di persone, voci, passi. Eppure mi sento sola.
Papà posa la mia valigia a terra. «Anne, è quasi ora.»
Annuisco, incapace di dire una parola. Il mio sguardo vaga, cercando disperatamente Nicole tra la folla. Non c'è.
Quando l'annuncio del nostro treno risuona, il cuore mi si stringe. Salgo con la valigia in mano e prendo posto accanto al finestrino. Le luci di Portland scivolano via mentre il treno parte. Mi appoggio allo schienale e stringo il telefono tra le mani.
L'ho chiamata tante volte. Le ho lasciato un messaggio. Ma Nicole non mi ha mai risposto.
«Ehi ciao. Oggi è la mia partenza.» Momento di pausa. «Ci tengo a dirtelo. Anche se so che sei ancora arrabbiata con me. Ma se ci ripensi a farti sentire, richiamami, okay?» Sospiro. «Ti voglio bene, ciao.» E riaggancio.
Scendo dal treno appena arrivati, stringendo il manico della mia valigia. La stazione di Seattle è rumorosa e affollata, ma per me sembra tutto ovattato, come se il mondo intorno si fosse fermato per lasciarmi solo con i miei pensieri.
Fuori, il cielo grigio tipico di Seattle accoglie il nostro arrivo. Rimango per un attimo immobile, osservando la struttura della nuova casa da fuori. I miei genitori sembrano entusiasti, ma io non riesco a condividere il loro entusiasmo.
Li sorpasso, trascinando la valigia su per il vialetto.
«Finalmente arrivati!» esclama mio padre con un sorriso euforico, mentre posiziona le valigie davanti al portone.
Non rispondo. Salgo le scale e mi chiudo nella mia nuova stanza. Appoggio la schiena alla porta, portandomi il viso tra le mani.
E se questa nuova vita non dovesse piacermi? Scuoto la testa, cercando di scacciare i pensieri negativi, ma tornano più forti di prima.
Mi decido a sistemare le mie cose. Apro la valigia e inizio a riporre vestiti e libri negli armadi, un gesto ripetitivo che spero mi aiuti a distrarmi. Ma nulla sembra funzionare.
Poi sento dei passi avvicinarsi. Un leggero bussare alla porta mi riporta alla realtà.
«Posso entrare?» chiede mia madre con voce delicata.
«Certo,» rispondo, abbassando lo sguardo.
Lei entra, facendo piccoli passi verso di me. Nella mano tiene qualcosa.
«Volevo darti questa.» Posiziona una rosa blu sulla scrivania, guardandomi con un sorriso tenero. «Spero ti piaccia.»
Rimango in silenzio, fissando la rosa. «Grazie,» mormoro, senza sapere cos'altro dire.
Quando esce dalla stanza, prendo la rosa tra le mani, rigirandola lentamente. Il colore è vivido e intenso, quasi ipnotico. Cosa significa? Perché me l'ha regalata?
Non posso fare a meno di cercare su Google il significato della rosa blu: irraggiungibile.
Fantastico. Nemmeno il tempo di iniziare una nuova vita qui a Seattle, e già qualcuno mi reputa irraggiungibile.
Mi butto sul letto, esausta. La giornata è stata lunga, e i miei pensieri non mi danno tregua.
Poco dopo, sento di nuovo la porta aprirsi. Vedo il viso di mia madre spuntare nell'uscio.
«Ciao,» sussurra, entrando.
Mi metto a sedere sul letto. Lei fa lo stesso.
«Sei arrabbiata con me, vero?»
«Perché dici questo?»
«Quando ti ho lasciato la rosa, mi hai risposto con freddezza. E lo stai facendo tuttora,» dice con una calma disarmante.
Silenzio. Un silenzio che pesa come un macigno.
«C'entra Nicole, vero?» rompe il ghiaccio.
Annuisco lentamente. «Non ha accettato la nostra partenza e ora non mi risponde nemmeno al telefono.»
Sospira. «Quando abbiamo deciso di trasferirci, sapevamo che sarebbe stato difficile per te. Ma io e tuo padre abbiamo bisogno di ricominciare. Lui ha trovato un nuovo lavoro qui, e tutti noi abbiamo bisogno di cambiare aria.»
La guardo negli occhi. Per quanto odi ammetterlo, ha ragione. Ma questo non rende le cose più semplici.
«E ora come faccio con Nicole?» chiedo, quasi disperata.
«Guarda la rosa che ti ho regalato. Sei un po' come lei,» dice, prendendola dalla scrivania.
«Che c'entra adesso la rosa?»
«C'entra eccome. Lei è come te, e Nicole è il tuo obiettivo irraggiungibile. Ma non è detto che debba rimanerlo.» Me la restituisce, con un sorriso che riesce a scaldarmi il cuore.
«Ora spetta a te capire come superare questa paura e andare avanti. Forse riuscirai a riportare Nicole nella tua vita. Ma ricorda, la chiave è non arrenderti mai.»
Mi stringe in un abbraccio caldo e rassicurante.
«Grazie,» sussurro.
Per la prima volta da giorni, sento un filo di speranza. O forse mi sto solo illudendo, ma non voglio ammetterlo.

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