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XXVI - Giorgio ti presento Emma.

Dimentichiamo tutto.

Soffochiamo i nostri sentimenti,

anche a costo dell'infelicità eterna.

Chandler Bing – Friends

Vengo svegliata dal mal di testa, o forse dovrei dire da un martellamento alle tempie. È un dolore lampante e costante, che rischia di portarmi alla pazzia. Sfilo il cuscino da sotto la testa e me lo metto sulla fronte, nella vana speranza di calmare la mia pena. Ho bisogno di una dose massiccia di ibuprofene, ma ciò significherebbe alzarsi e non so se sono in grado. Ho i muscoli intorpiditi e la bocca secca, impestata da un saporaccio che ricorda molto il vomito. Quanto diamine ho bevuto, ieri sera? Rammento di aver preso quel Gin Tonic dalle mani di Francesco, ma poi più niente, solo nebbia. Però so di non aver cenato, quello lo ricordo bene e me lo fa presente anche lo stomaco. Devo ingerire qualcosa, prima di prendere un farmaco, altrimenti rischio di andare in ospedale.

Mi costringo a rimettermi dritta. Prima una gamba, poi un'altra, un giramento di testa e dopo forse cinque minuti torno in piedi. Con gli occhi mezzi chiusi apro la dispensa e trovo la busta con il pane di segale quasi finita. Prendo l'ultima fetta e ci spalmo sopra del burro di arachidi. Il primo morso rischia di farmi rimettere ancora, dal secondo si apre una voragine nello stomaco e lo divoro in meno di un minuto. Ora va meglio, mi posso drogare di farmaci. Mi ficco in bocca la compressa con il maggior quantitativo di principio attivo e bevo mezzo litro di acqua. Mi stropiccio gli occhi, distrutta. Si vede proprio che sono più vicina ai trenta che ai venti. Adesso vado in bagno, mi lavo i denti, faccio pipì e non appena mi sento un po' meglio mi faccio una bella doccia e lavo via questa sbronza assurda. Devo smetterla di non cenare, guarda in che modo mi riduco. Prendo un altro paio di cucchiaini di burro di arachidi, l'unico peccato di gola che mi concedo, ripetendomi che "tanto sono grassi buoni e proteine" e mi sento più sazia. Quando sto per andare in bagno, noto la caffettiera sul fornello. Aggrotto la fronte. Io non la uso mai, ho le cialde del ginseng che infilo nella macchinetta, premo il pulsante e il gioco è fatto. Sollevo il coperchio e noto che è a metà. Capisco subito chi è stato a prepararlo. Giorgio. All'improvviso ricordo che mi ha riportato lui a casa, che mi ha messo a letto, che è rimasto con me finché non sono crollata a dormire. Dovevo essere davvero ridotta male.

Bevo il caffè rimasto – lo so che non bevo caffeina, ma oggi ne ho proprio bisogno - vado in bagno e poi ritorno a letto. Sto cercando di ricostruire ciò che è successo ieri, voglio capire come sono finita a farmi riportare a casa da Giorgio, che ha pure preparato il caffè, quindi è rimasto a dormire qui? Sbuffo. La testa mi fa meno male, l'ibuprofene sta facendo affetto, dunque mi decido a prendere il telefono. Di lui nessuna traccia, ma mi preme rispondere al messaggio di Erica "chiamami quando ti svegli".

«Ehi, sei viva!» esclama la rossa, con un tono di voce che rischia di farmi tornare il mal di testa. «Come stai?»

«Mi sono drogata di ibuprofene», replico, parlando per la prima volta e avvertendo una raucedine degna di Maria De Filippi. «Mi racconti che ho combinato?»

«Hai bevuto come un cesso e ti sei vomitata anche l'anima.»

Ottima capacità di sintesi, non c'è che dire.

«Mi ha riportato Giorgio a casa?» domando, anche se so già la risposta.

«Sì, l'ho chiamato io», dice con nonchalance, come se fosse una cosa normale. I miei occhi ancora mezzi chiusi si spalancano.

«In che senso l'hai chiamato tu?»

«Stavi fuori di testa e quel tizio ti stava mettendo le mani dappertutto, avevo bisogno di aiuto per scollartelo di dosso.»

«Quale tizio?»

«Non ti ricordi? Si chiamava Niccolò.»

Certo che mi ricordo. Quel pezzo da novanta, altissimo, giovane e figo. Iniziano a venirmi dei flash della serata. Io appiccicata a Niccolò, Giorgio che mi parla, io che gli rispondo male, poi è tutto confuso.

«E che fine ha fatto?»

«Giorgio l'ha mandato via, era parecchio incazzato.»

No, questo non me lo ricordo. Da distesa sul letto che ero, mi drizzo a sedere. «Come l'ha mandato via?»

«La finisci di domandarmi le cose che ti ho appena detto?» Touché. «Comunque, avevi appena collassato, quello continuava a farti bere e ti stava addosso come una piovra. È normale che Giorgio si sia innervosito.»

Normale, cosa, per l'esattezza? Mi sta tornando il mal di testa a causa del nervosismo.

«Ma perché non vi siete fatti gli affari vostri?» alzo la voce, ormai in balia della rabbia. «Mi piaceva quel ragazzo!»

Cioè, credo che mi piacesse, me lo ricordo un po' sfocato il suo viso, però come mi toccava il sedere ce l'ho ben presente. In ogni caso, non erano fatti di Erica e Giorgio, soprattutto di quest'ultimo.

«Emma, dieci minuti dopo hai vomitato anche il pranzo del battesimo! Non eri in te!»

«Ma saranno affari miei, noi? Chi ve l'ha chiesto?!»

«Io ero preoccupata!»

«E potevi pensarci tu, allora! Cosa hai chiamato a fare Giorgio? Lo sai che non ci parliamo!»

«Ma sei seria?»

Stiamo litigando, di punto in bianco. Colpa mia, naturalmente, ma ho tutte le ragioni di questo mondo. Ok, avevo bevuto un po' troppo, ma tutto si poteva risolvere con un po' di aiuto da parte di Erica, non c'era bisogno che Giorgio facesse il cavaliere della tavola rotonda. Dio, quanto non lo sopporto!

«Senti, Emma, fai una cosa», parla di nuovo Erica, e la sua voce adesso è profonda e seria. «Richiamami quando ti sei data una calmata.»

Riattacca, senza darmi il tempo di rispondere. Sospiro, buttando il telefono in mezzo alle coperte e rimettendomi distesa, la faccia affondata nel cuscino. Non volevo discutere con Erica, ma sono troppo arrabbiata. Non con lei o, meglio, anche un po' con lei perché è andata a chiamare proprio l'ultima persona che volevo venisse in mio soccorso. Non l'ho detto alla mia amica, ma quando l'ho visto tubare con Giada, in cucina, ero del tutto sobria e me lo ricordo benissimo. È per questo che non ho cenato, mi si è chiuso lo stomaco e ho pensato di bere qualcosa per non pensarci. In effetti ha funzionato, pure troppo, dato che l'ultima cosa che ricordo è quando ho – quasi – vomitato sulle scarpe di Giorgio. Dopo non ho idea di cosa sia successo, deve avermi portato qui e messa a letto. No, aspetta, sono riuscita a lavarmi, mi rivedo nel bagno barcollante, ma poi niente, il buio. Quel che è certo è che non chiederò a Giorgio cosa ho fatto dopo, non lo voglio né vedere, né sentire. Stasera non ci vado al locale, possono benissimo cavarsela senza di me. Se tutto va bene, lo rivedo la settimana prossima, al massimo, magari mi è passata l'arrabbiatura.

Di punto in bianco, suona il campanello. E adesso chi è? Mica sono le mamme? Oddio, non è che ho dimenticato che dovevano venire qui? O magari è il corriere, ho ordinato qualcosa negli ultimi tempi? Non mi pare. Non ho voglia di parlare con nessuno, se lo ignoro, prima o poi se ne andrà. Suona di nuovo e io resto sul letto. Finché non comincia a suonare ripetutamente rischiando di assordarmi.

«Che diamine, arrivo!»

Corro verso la porta e la spalanco. Per poco non mi cade la mascella.

«Eri in bagno?»

È Giorgio. Porta con sé due buste della spesa, quelle grandi e resistenti, dell'Esselunga, strapiene di roba . Ha i ricci che gli sono cresciuti troppo, la barba di qualche giorno fa, indossa una T-shirt nera e i soliti jeans. Non può fare a meno di osservarmi e io mi rendo conto di indossare la camicia da notte più corta che possiedo. Si riprende in fretta e mi supera senza che risponda o lo inviti a entrare.

«Ho fatto la spesa», mi informa, dopo aver poggiato le buste sulle sedie. Inizia a tirar fuori frutta, formaggi, verdura, pasta, ogni tipo di cibaria. «Devi mangiare, non puoi campare di aria, poi è normale che vomiti. Hai fatto colazione? Ti preparo due pancake.»

Non ho ancora fiatato. Sono sopraffatta da tutto ciò, dalla presenza ingombrante di Giorgio che sistema la spesa in frigo, nella credenza, che cerca una padella per cuocere questi pancake che non vuole nessuno. Guardo le sue braccia nude e piene di tatuaggi che fanno cose, sento le sue parole vuote, che mi sembrano forzate, e non riesco a resistere.

«Chi ti ha chiesto di farmi la spesa?»

Resta fermo con una bottiglia di latte a mezz'aria, il frigorifero aperto. La sistema nello scomparto a lato e poi lo chiude.

«La coscienza che tu non hai», risponde, puntando gli occhi scuri dentro i miei. «Non c'era niente e visto che non ancora non hai capito che se hai intenzione di sbronzarti devi mangiare, ci ho pensato io.»

«Allora meno male che ci sei tu!» esclamo con tutto il sarcasmo di cui sono capace. «Grazie per salvarmi sempre la vita, mio cavaliere!»

Sto per fare una battutaccia sul suo cognome, ma taccio per decenza. Giorgio incrocia le braccia e mi fissa ancora.

«Sei impazzita?»

«No, sono stufa.»

«Di cosa?»

«Di te, che sei sempre tra i piedi e non mi lasci respirare!»

Mi sta salendo di nuovo il mal di testa. Inizio a massaggiarmi le tempie, vorrei proprio rimettermi a letto e svegliarmi domani mattina, senza dolori, senza hangover, senza Giorgio che continua a parlarmi, senza questa assurda voglia di discutere.

«Emma, ma che cazzo dici?»

Ha alzato la voce, ma non mi aspettavo nulla di diverso. Mi rassegno: se dobbiamo litigare, litighiamo.

«Perché sei dovuto intervenire, ieri sera?» rilancio io, spostando il punto della questione. Giorgio solleva le sopracciglia nere.

«Stai scherzando?»

«No! Ti sei dovuto mettere in mezzo, come sempre, anche se nessuno te l'ha chiesto!»

«Me l'ha chiesto Erica perché ti aveva visto in condizioni pietose! Sono venuto ad aiutarti!»

Certo, perché io non sono in grado di cavarmela da sola, deve essere sempre lui quello in prima linea a sistemare le cose, a mettersi in mezzo, a rovinare tutto.

«Devi smetterla di starmi addosso!» gli butto addosso, la pelle del viso che mi va a fuoco per lo sforzo. «Tu non sei mio padre, non ce l'ho mai avuto e non mi è mai servito, quindi piantala di stressarmi!»

«E quindi dovevo lasciare che quello ti mettesse le mani dappertutto?»

Spalanco la bocca. Allora vuole giocare proprio sporco.

«Non è che le tue di mani se ne siano state a posto», non riesco a non commentare. Stringo le labbra, indecisa se essere pentita o no di queste parole, che naturalmente non gli sfuggono. Una scia di confusione passa sul suo viso.

«Che vuoi dire?»

«Lascia stare», provo a tagliare corto – pentita – ma com'è ovvio, lui non lascia stare.

«No, ora me lo dici.»

Tiro su con il naso. Tanto vale scoprire tutte le carte, ormai.

«Ti ho visto fare il cretino con Giada.»

Un attimo di silenzio ci avvolge, ma dura davvero poco. Dopo aver riflettuto sulle mie parole, Giorgio esplode di nuovo.

«Ancora con Giada, Emma?» urla, arrabbiato come l'ho visto poche volte. «Perché sei ossessionata da Giada?»

«Io non sono ossessionata da Giada!» strepito di rimando.

«Che ti importa di quello che faccio con Giada?»

«E a te cosa importa di cosa faccio con gli altri?» rigiro la frittata, perché non esiste che rispondo a quella domanda. Non ce l'ho nemmeno io, la risposta. Giorgio fa una pausa, il pomo d'Adamo che trema.

«Eri fottutamente sbronza», abbassa la voce, ma di poco. «Non ti reggevi in piedi, non eri in condizioni di...»

Si blocca, non riesce a dire cosa non ero in condizione di fare. Forse farmi baciare da qualcuno che ha il coraggio di farlo? Glielo vorrei dire, ma significherebbe mettermi in una situazione imbarazzante dalla quale non saprei come uscire.

«Sono affari miei, Giorgio!» strepito, stanca. «Tu devi lasciarmi vivere! Devi smetterla di controllarmi e di starmi addosso!»

«Io mi preoccupo per te!»

Rimango con la bocca mezza aperta, senza che le parole riescano a uscire. Mi fa male la gola per lo sforzo e ho il cuore che batte troppo forte. Respiro a fondo, cercando di regolarizzare il mio petto.

«E non lo fare», dico, la voce più bassa. «Non devi preoccuparti per me, non ne ho bisogno.»

Siamo vicini, troppo vicini. Riesco a vedere le leggere rughe attorno ai suoi occhi allungati, le pupille scure che mi fissano. Sento le labbra che mi tremano.

«Non smetterò mai di preoccuparmi per te.»

Il suo è un sussurro che mi entra dentro. Ovvio che non smetterà mai di preoccuparsi per me. Sono esausta e voglio chiudere questa conversazione.

«Immagino che per te sia difficile da capire, ma io non sono più una bambina.»

«Lo so che non sei più una bambina.»

«Allora perché non mi lasci in pace?»

Tace. È in difficoltà, lo vedo dalla sua espressione, lo conosco troppo bene. Tira indietro la testa, ponendo della distanza tra noi e anche se so che è giusto così, mi dispiace.

«Senti, lasciamo perdere», dice alla fine, allontanandosi un po' di più. Che codardo. È sempre il solito, mai una volta che riuscisse a dire quello che pensa davvero, che prova davvero. Vorrei solo che se ne andasse via. Cerco i suoi occhi, ma non li trovo.

«Quanto ti odio quando fai così.»

È una frase triste, la mia, forse anche un po' infantile, che di certo non si aspetta la risposta che viene poco dopo.

«Mi odi così tanto che mi hai chiesto un bacio, pensa un po'.»

Mi immobilizzo. Rimango ferma, all'improvviso senza più percepire il caldo estivo che ti si appiccica addosso, che fino a qualche secondo fa mi stava tormentando. In che senso gli ho chiesto un bacio?

«Quando?» gli chiedo, terrorizzata dalla risposta. Giorgio, che forse si è pentito di aver confessato, torna di nuovo a guardarmi.

«Stanotte. Prima di addormentarti. Mi hai chiesto di dormire con te e di darti un bacio.»

Ho dei vaghi ricordi di noi due che parliamo, con me distesa sul letto e lui alla mia altezza, ma non ho la più pallida idea di cosa io gli abbia detto. Forse questo.

«Non ci credo», provo a rimediare, ma la mia voce è debole. Per la prima volta da quando è arrivato, noto un ghigno soddisfatto sulle sue labbra.

«Invece dovresti», ribatte, canzonatorio, ma io non ho intenzione di farmi prendere in giro. Faccio un passo avanti e azzero di nuovo la distanza tra noi. Se vuole giocare, giochiamo.

«E tu me lo hai dato, questo bacio?»

Capisco di aver centrato il punto vedo il sorriso sparire dalla sua faccia. Deglutisce e riesco a vedere il sudore sulla fronte.

«Eri ubriaca», si giustifica, ma non gli riesce molto bene.

«Perché, se fossi stata sobria me lo avresti dato?»

Il mio tono è sarcastico, sto cercando di fare quella sicura di sé, ma dentro di me sto morendo. Che figura di merda. Ho la faccia in fiamme e non riesco a decifrare lo sguardo di Giorgio. Che diavolo mi sta succedendo? Perché non riesco più a soffocare i miei sentimenti? Ci sono riuscita così bene in questi anni. Ero diventata la regina del nascondere in fondo al cuore tutto ciò che provavo ed è bastato un litigio e una sbronza per farmi cedere così. Questa storia del ristorante è stata un errore, sin dall'inizio. Alla fine ha ragione lui, avrebbe dovuto aprirlo da solo e io farmi da parte. Sarebbe stato meno imbarazzante, nonché doloroso.

«Dipende», parla ancora lui e mi sento ancora più confusa. Siamo di nuovo tanto vicini.

«Da cosa?» balbetto, quasi non riesco a parlare a causa del cuore che non la smette di fare un casino nel mio petto. Giorgio sposta il viso verso il mio e avvicina la bocca al mio orecchio. Le nostre guance si sfiorano.

«Se lo vuoi ancora questo bacio.»

Sto impazzendo. Il mio cervello sta implodendo, i miei neuroni sono andati a quel paese e non riesco a pensare più a niente, tranne alle labbra di Giorgio che sono così vicine alle mie che riesco a percepire il loro sapore. Chissà se è sempre lo stesso.

«Chiedimelo», sussurra con la voce più roca e sensuale che abbia mai sentito in tutta la mia vita. Sì, più dell'altro giorno ad Arona. Più di ogni altro momento, ogni altra occasione, ogni fantasia.

«Cosa?»

Che domanda cretina.

«Chiedimelo.»

Rimango immobile. Il mio volto è ancora a pochi centimetri dal suo. La nostra pelle non si sfiora, ma la mia sta bruciando. Mando giù la saliva, la gola secca che quasi mi fa male. Faccio l'ennesimo sforzo contro la mia codardia e incrocio gli occhi di Giorgio. Mi sta guardando come solo una volta mi ha guardata. Una volta che ho cercato in tutti i modi di dimenticare, ma che adesso è un ricordo vivido nella mia mente.

«Mi dai un bacio?»

L'ho detto in un soffio. Il fiato mi manca, il cuore mi batte, le membra mi tremano, la pelle scotta, le orecchie non sentono. Il cervello è spento e io non riesco a pensare ad altro che a Giorgio e alle sue labbra, vicinissime alle mie, la distanza non esiste più. Per un lunghissimo secondo, temo che si tiri indietro. Poi, la sua bocca si posa sulla mia e tutto a un tratto, la vita diventa bella.

Tutto quello intorno a noi scompare, le discussioni, le parole dette, urlate, il locale, la recensione, tutto se ne va. Siamo solo noi, nella cucina del mio appartamento, la mia schiena contro il tavolo, le sue labbra che si uniscono alle mie e la sua lingua che esplora la mia bocca, stuzzicando ogni terminazione nervosa. È un bacio dolce, dapprima lento, poi sempre più rovente e impetuoso. Le sue mani si infilano tra i miei capelli, il suo bacino resta attaccato al mio, i nostri respiri si mescolano tra loro. Quando poi la sua bocca si sposta lungo il collo e inizia a mordere la mia pelle rovente, Dio, forse è ancora meglio. Con un gesto secco, mi afferra i fianchi e mi solleva, mettendomi a sedere sul tavolo. Urto qualcosa la schiena, ma può cadere tutto per terra, non mi importa. Le sottili spalline della camicia da notte che indosso finiscono verso il basso e quanto sono previdente a non mettere il reggiseno, quando dormo. Ho smesso di respirare, ma non mi importa, posso sopravvivere lo stesso, finché Giorgio continua a lambire i miei capezzoli. Torna sulle mie labbra e mi bacia ancora, mordendomi e provocandomi un piacevole dolore, poi torna sul collo, mentre la sua mano destra si fa spazio tra le mie gambe. Sono così eccitata che alle sue dita basta sfiorare la stoffa umida degli slip per farmi gemere. Forse l'ho fatto a voce troppo alta, perché la sua mano si ferma. Cerco i suoi occhi, atterrita dall'idea che si sia pentito. Ha lo sguardo rosso di lussuria. Mi avvicino con il volto al suo e bacio le sue labbra perché non riesco a non farlo, ne ho bisogno.

«Non smettere», sussurro, o forse dovrei dire che lo supplico. Ti prego, G, continua a farmi godere così. E lui non se lo fa ripetere due volte, riprendendo la sua lenta tortura, mentre continua a baciarmi.

Ho trascorso anni a cercare di dimenticarlo, ma in realtà è sempre stato qui, nascosto nella mia mente. Il ricordo di noi due insieme, nel mio letto della casa di Arona, in quel pomeriggio di novembre pieno di pioggia, la mia verginità che se ne andava e il corpo di Giorgio stretto col mio. Io terrorizzata e inesperta, lui sicuro di sé e tormentato dal senso di colpa. Non l'ho mai dimenticato, anche se ho fatto finta di niente per più di dieci anni. Come potevo dimenticarlo? Avrei voluto, avrei dovuto, ma non ce l'ho fatta. E forse, nonostante tutto, non l'ha mai fatto nemmeno lui.

Il modo in cui mi tocca e mi vuole è sempre lo stesso. Delicato ma sensuale al medesimo tempo, deciso e tenero quando mi accarezza, come se temesse di farmi male. Ma non mi fa male, ed è tutto perfetto, tutto giusto, così bello.

La sua mano smette di accarezzarmi e non riesco a nascondere un verso di disappunto. Poi sento le mie mutande scivolare via e scendere verso le caviglie, per finire a terra. Le dita di Giorgio premono sulle mie ginocchia e le allargano, e credo di rischiare lo svenimento per la troppa tachicardia quando non vedo più i suoi occhi, ma solo i suoi capelli ricci in mezzo alle cosce. Quando la sua lingua accarezza la mia femminilità non vedo più nulla, solo lampi di piacere nel buio. Vengo in pochi minuti, con un grido strozzato, guidata dalla sua esperienza che mi lascia senza fiato. Risale su con la testa e scorgo il suo volto tra gli occhi socchiusi.

«Così però mi mandi al manicomio», biascico, il respiro mozzato. Con uno sforzo immane, mi tiro su e tento di rimettermi seduta, le gambe che ancora tremano. Le nostre facce tornano alla stessa altezza e premo le labbra sulle sue, la sua lingua che si fa spazio di nuovo nella mia bocca. È ancora vestito, mentre io sono quasi del tutto nuda e questa cosa mi scatena pensieri poco lucidi. Tocco con la mano destra la sua maglietta nera e mi faccio spazio contro i suoi addominali perfetti, per poi scendere verso i jeans. Mi aiuto con le dita per sbottonarli, per liberare la sua eccitazione che freme. Sento il suo fiato mozzarsi quando infilo la mano nei suoi boxer e lo tocco.

«Emma...»

Sentirlo pronunciare il mio nome mi eccita ancora di più. Voglio dargli lo stesso piacere che ha dato a me, lo voglio dentro di me, voglio tutto, ora, in questo momento, voglio lui. L'ho sempre voluto.

Fin quando non mi ferma. Non me la aspetto la sua mano sulla mia, che la afferra con presa salda e mi impedisce di continuare. Ci metto un attimo a capire.

«G...»

Giorgio allontana le mie dita in fretta e si riabbottona i pantaloni. Io non so che cosa dire o fare, sono ancora ferma con le gambe oscenamente aperte. Le richiudo solo quando lui si allontana da me.

«Non posso.»

Due parole che mi arrivano addosso come uno schiaffo. Forte, in pieno viso, che fa male.

«Che vuol dire che non puoi?»

Non capisco. Ho sbagliato? Ho fatto qualcosa di male, non sono brava abbastanza? Distoglie lo sguardo dai miei occhi confusi.

«Non posso, Emma», mi dice, con la voce bassa, molto diversa rispetto a prima. «Non di nuovo.»

Un campanello d'allarme mi suona in testa. Sto iniziando a capire, anche se non voglio.

«Perché non puoi?»

«Mi dispiace.»

«Ti dispiace di cosa?»

Deglutisce, in difficoltà. Ho un déjà-vu.

«Di tutto questo. Io, cioè... Noi non avremmo dovuto.»

Noi non avremmo dovuto. Proprio come undici anni fa. Qualcosa mi si spezza dentro.

«È questo che pensi? Che non avremmo dovuto?»

Ho la voce acuta, come quando sto per piangere, ma non posso permettermi di piangere. Giorgio ancora non mi guarda.

«Emma, noi siamo soci in affari, siamo amici.»

Sta succedendo di nuovo. Ho permesso che succedesse di nuovo. Non doveva succedere di nuovo.

«Amici?»

La mia voce è aumentata di un'ottava. Non ci credo che lo sta dicendo davvero. No, noi non siamo amici. Non lo siamo per niente. Non dopo questo. Vorrei urlargli che non è vero, che non voglio che accada di nuovo, che non gli permetterò di trattarmi ancora così, che stavolta non mi accontenterò di un "è stato un errore, facciamo finta di niente", che mi merito di più.

«Em...» I suoi occhi che trovo così belli riescono a guardarmi. «Dieci anni fa non sono riuscito a fermarmi, adesso...»

«Adesso invece sei maturato, quindi puoi resistere alla voglia di scoparmi e fare lo stronzo ancora di più di quanto non l'hai fatto in passato.»

Non sono riuscita a trattenermi. Non può averlo detto sul serio. Non può farmi questo. Non di nuovo, non così.

«Emma...»

«Vaffanculo, Giorgio.»

Mi rimetto in piedi. Scendo dal tavolo e mi sistemo la camicia da notte, trovo i miei slip e li rimetto, mentre cerco di smettere di tremare. Lui, intanto, ha ripreso le sue cose e mi guarda.

«Em...»

Lo guardo un'ultima volta. I suoi occhi sono spenti. Ha i capelli disordinati, la pelle arrossata, la maglia stropicciata e io mi odio per trovarlo così bello e per volerlo così tanto.

«Vattene.»

E lo fa. Sbatte la porta e resto sola di nuovo. Non so per quanto tempo rimango ferma, senza muovermi, totalmente vuota. Riesco a portare il mio corpo sul letto e a sedermi. Mi appoggio alla spalliera, tiro su le ginocchia verso il petto, i piedi sotto il lenzuolo e inizio a piangere. I singhiozzi mi inondano il corpo e non mi importa se qualcuno nel palazzo mi sente, io voglio solo piangere. Come ho pianto a diciassette anni, piango adesso, a ventotto, per lui. Perché Giorgio è l'unico uomo che nella vita mi ha fatto sentire protetta, sicura, amata. Quando ero con lui, tutto andava bene, ero sicura che niente mi avrebbe fatto del male, perché c'era Giorgio, il mio G, la mia roccia.

Ma è anche l'unico uomo che mi ha fatto a pezzi il cuore. Ancora una volta. 

Note di Greta ❤️

Ciao. Scusate 💔

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