XXV - L'ultimo bacio, mia dolce bambina.
Vorrei essere almeno la mano che ti protegge,
una cosa che non ho mai saputo fare con nessuno
e con te invece mi è naturale come il respiro.
Cesare Pavese
Giorgio
Non dovrei fumare la seconda sigaretta di fila, ma dopo un turno del genere non posso farne a meno. Il weekend è sempre devastante, anche se non pensavo che sarebbe venuta tutta questa gente, stasera. Non dopo quell'articolo, almeno.
Tiro fuori il fumo e sento il sudore appiccato sul collo. Odio l'estate a Milano, è invivibile. Il caldo, la gente, le zanzare, l'umidità, i Navigli infuocati. Però anche tanti clienti, tanto lavoro, soldi. L'inverno è più spento, anche se Milano è un flusso continuo di fauna umana, che a volte rimane, a volte se ne va, a volte si ferma un momento e poi scompare. Io sono sempre stato più un tipo da autunno/inverno, è Emma quella che ama l'estate. Il cielo azzurro, i colori, il lago, i vestiti troppo corti, i capelli al vento, le guance arrossate dai raggi del sole. Il suo profumo che resta nell'aria.
Butto la sigaretta lungo la strada, trattenendo il desiderio di accenderne un'altra. Dovrei rientrare a finire di sistemare la cucina, ma non ne ho voglia. È stata la settimana più pesante dall'inizio di tutto, questa, ed è soltanto venerdì. Gli ultimi tre giorni mi sembra quasi che siano stati vissuti da qualcun altro.
«Boss?»
La voce di Erica è arrivata accompagnata dal caos proveniente dall'interno. Nonostante tutto, il locale è pieno. Forse "Milano da bere" non ha poi tutto questo seguito. Mi volto a guardarla e rimetto nel pacchetto quella che sarebbe stata la terza sigaretta.
«Che c'è?»
Il volto stanco della ragazza – dovrei darle qualche giorno di riposo in più, sta lavorando senza sosta – mostra un cipiglio preoccupato. Fa un passo davanti e si piazza davanti a me.
«Ecco...» biascica, in difficoltà. «Si tratta di Emma.»
Emma. Dopo la litigata ad Arona, me ne sono tornato a Milano e mi sono chiuso in cucina a lavorare senza sosta. Lei è tornata solo oggi, l'ho vista, ma non ci siamo parlati. Ho avuto più di una volta l'istinto di andare a dirle qualcosa, ma poi non sapevo cosa, e ho desistito. Forse avrei dovuto dirle scusa, ho esagerato, ma poi ripensavo a quella recensione e non riuscivo a pentirmi delle parole che le ho detto. Ci ho buttato davvero il sangue, su questo ristorante, tutti i miei risparmi, tutte le mie energie, tutto quello che avevo. Forse avrei dovuto aprirlo da solo, magari chiedere un prestito e non farmi coinvolgere dalle Casali-Boschi, ma probabilmente non sarebbe stato lo stesso. Sarebbe stata un'altra cosa, solo mia, senza Emma. Non so se riesco a immaginarmelo.
«Che succede?» domando, tentando di mantenere un tono neutro. Erica si passa una mano tra i capelli rossi che le ricadono disordinati sul viso.
«Credo che non stia molto bene.»
«In che senso?» La mia voce non riesce a rimanere ferma. L'aiuto-cuoca sospira.
«Penso abbia bevuto un po' troppo. Forse dovremmo andare a controllare.»
Socchiudo gli occhi e tiro fuori l'aria. «Quanto ha bevuto?»
«Non lo so, so solo che barcolla un po' troppo per i miei gusti. Sta ballando con uno, ma non la vedo molto stabile.»
Sta ballando con uno. Il mio cervello si concentra su questa informazione, dimenticandosi della questione alcool.
«Con chi sta ballando?»
Erica solleva entrambe le sopracciglia. «Ti sembra il punto focale della questione?»
«Puoi rispondere, per favore?»
«Non lo so con chi sta ballando, Gio!»
Ha alzato la voce, palesando il suo nervosismo e anche la sua preoccupazione. Io mi do un morso al labbro inferiore per impedirmi di ribattere allo stesso modo, ma lei continua. «So solo che barcolla e non ha nemmeno i tacchi! Mi sa che non ha nemmeno cenato.»
«Tipico», è la mia risposta acida, che non riesco a trattenere. «Che ci pensasse quel tipo, allora.»
Gli occhi già grandi di Erica aumentano ancora di più di volume. «Ti sembra il momento di metterti a fare il geloso?»
Io? Geloso? Mi scappa una risata. «Non sto facendo il geloso! Emma ha trent'anni, sa badare a sé stessa, non devo certo farle io da babysitter.»
«Babysitt... Oddio. Va be', lascia stare, ci penso io. Grazie di nulla, Boss.»
Si volta e rientra dentro con una velocità che non mi aspetto. Mi lascia lì fuori, in mezzo ai ventenni che fumano le loro sigarette elettroniche, spensierati e tranquilli. Riprendo il mio pacchetto di sigarette normali che avevo rimesso in tasca e mi accendo la terza. Aspiro in fretta, con rabbia, con una tensione che mi sta salendo lungo il corpo, fino al cervello. Il respiro si affanna e per calmarmi spingo due dita sopra gli occhi. Non ci riesco.
«Vaffanculo», dico a voce alta, senza rivolgermi a nessuno, forse a me stesso. Butto la sigaretta ancora a metà e mi faccio strada per rientrare. La musica mi assorda le orecchie, la gente mi si butta addosso e il caldo è asfissiante. Cerco Emma in mezzo alla pista, ma individuo prima Erica vicino all'entrata del bagno e la raggiungo. Lei mi rivolge uno sguardo talmente giudicante che mi fa vergognare. Fa un cenno con la testa alla porta.
«È appena entrata.»
«Come sta?»
«Tu che dici?»
Ho la decenza di tacere. Aspettiamo lì, impossibilitati a parlare per la musica troppo alta, attorniati da ragazzi in fila. Dopo un tempo per me troppo lungo, Emma esce dal bagno. La prima persona che riconosce è Erica.
«Eri!» urla, prima di abbracciarla stretta, forse troppo, dall'espressione sofferente della sua amica. «Sono proprio contenta di vederti!»
Ok, è ubriaca. Lo capisco dagli occhi lucidi, dalla voce strascicata, dai capelli arruffati, dal trucco sbavato. Credo che abbia appena vomitato, ma non mi azzardo a chiederglielo. Mi avvicino.
«Emma», la chiamo, alzando la voce. Quando si accorge della mia presenza non mi regala lo stesso sguardo sereno che ha rivolto a Erica. La sua bocca si storce in una smorfia.
«Che vuoi?» chiede subito, diretta. Vorrei risponderle a tono, ma decido di provare un approccio soft.
«Come stai?»
«Mi lasci in pace?»
E con questa domanda stizzita l'approccio soft se ne va subito a quel paese. Faccio un passo in avanti.
«Quanto hai bevuto?»
Emma stringe gli occhi già più piccoli del normale. «Che ti frega?»
È parecchio arrabbiata e onestamente non me l'aspettavo. Sono trascorsi tre giorni dalla nostra litigata e credevo che si fosse calmata, almeno un po', ma dopotutto l'alcool amplifica tutte le emozioni, in particolare la rabbia. E non solo quella. Nonostante l'aspetto malmesso, il suo volto così vicino al mio mi costringe a ripensare a quello che è successo prima della litigata. E non so se sono pronto a ripensarci.
«Tesoro, perché non andiamo un attimo a prendere un po' d'aria?» si intromette Erica, interrompendo qualsiasi mia riflessione. Emma interrompe il contatto visivo con me e si volta verso di lei.
«Oh, ma ti ci metti pure tu? Sto benissimo, anzi, torno da Niccolò.»
Niccolò. Quell'idiota si chiama Niccolò. Erica sospira.
«Ma chi è Niccolò, adesso?»
«Un ragazzo molto carino che mi sta aspettando. Io vado, ciaaaaao!»
Sgomita per superarci e riesce a fare qualche passo in avanti, finché non le afferro il gomito sinistro e la tiro verso di me.
«Emma, ferm...»
Non mi fa finire di parlare, ché con un gesto secco si libera della mia stretta. I suoi occhi chiari emanano fuoco.
«G, mollami! Fatti i cazzi tuoi!»
E con un movimento poco stabile, se ne va verso questo Niccolò. La vedo camminare verso il centro della sala e fermarsi davanti a un ragazzo alto che non riesco a distinguere bene. Ho lo stomaco attorcigliato.
«Che le hai fatto per farti odiare così?»
La voce di Erica mi ha raggiunto nonostante la musica alta. Potrei risponderle, ma è più comodo far finta di non aver sentito. La guardo.
«Io torno in cucina, Emma è stata abbastanza chiara.»
«In cucina non c'è più niente da fare, è tutto sistemato.»
«E allora me ne vado a...»
Mi interrompo. Ho appena visto il tizio in questione, tale Niccolò, porgere un bicchiere a Emma, al cui interno non credo proprio ci sia dell'acqua. Lei beve, ancora, poi si mette a ballare sul posto, con gli occhi chiusi, persa tra i fumi dell'alcool. Dopotutto, se è quello che vuole, io non posso farci nulla. Ci siamo tutti ubriacati almeno una volta nella vita – io molto più di una – e se Emma non vuole parlarmi, devo accettarlo. Ma poi accade qualcos'altro. Il tipo si avvicina a lei e le afferra il mento, per poi poggiare le labbra sulle sue. Vedo chiaramente la sua lingua infilarsi dentro la bocca di Emma e non so bene cosa mi succede dentro. Una parte di me mi dice che ha ragione lei, che dovrei farmi i cazzi miei, ma poi lui mette entrambe le mani sui suoi fianchi prima e sul sedere poi, e allora non ci vedo più. Abbandono Erica e mi dirigo a grandi falcate verso di loro.
«Oh, Gesù!» esclama la mia aiuto-cuoca, ma io non la sento. Mi piazzo davanti ai due e afferro di nuovo il braccio di Emma, mentre con l'altra mano spingo la spalla del tizio. Lui sobbalza appena e apre gli occhi, poi stacca la bocca da quella di lei. Le sue mani sono ancora, letteralmente, sul suo sedere.
«Lasciala», gli ordino.
«Ma tu chi cazzo sei, oh?»
Sono pronto a prendermi un cazzotto, anche da Emma, se è per questo. Mi aspettavo che reagisse, ma da quando le ho preso il braccio, non ha detto nulla. La guardo e vedo che fa perfino fatica ad aprire gli occhi. Ha raggiunto il livello in cui l'alcool le impedisce di capire che cosa succede attorno a lei. Percepisco la rabbia salirmi dallo stomaco e mi impongo di non iniziare a prendere a pugni questo ragazzino che ho davanti. Non avrà nemmeno venticinque anni. In ogni caso, lui non ha intenzione di lasciar correre. Avvicina il viso al mio e per poco i nostri nasi non si sfiorano. Siamo alti pressocché uguali.
«Allora?» mi incalza, ma io non ho tempo per i giochetti.
«La festa è finita, ragazzino. Vattene a casa.»
'Sto coglione si mette a ridere. «Ma chi sei, il suo ragazzo?»
Reprimo di nuovo la voglia di picchiarlo e mi avvicino ancora di più al suo volto.
«Sono il proprietario del locale.»
Il sorriso scompare da quella faccia da schiaffi e stavolta non nascondo un ghigno.
«Levati dai piedi e guai a te se ti ritrovo qua dentro.»
La mia minaccia funziona e, con un'espressione omicida negli occhi, finalmente si toglie di torno. Respiro a fondo e cerco di ritrovare la calma. Emma ed Erica sono a qualche metro di distanza.
«Credo che sia meglio accompagnarla a casa», dice la rossa. «È parecchio sbronza.»
Annuisco, esausto, e le faccio segno di uscire. Emma barcolla, ma riesce a mettere un piede dopo l'altro e torniamo all'aria aperta. Una volta fuori, ci allontaniamo dalla folla che accalca l'entrata e ci spostiamo poco più avanti. Emma si libera dalla presa salda di Erica e va a sedersi sullo scalino di un ristorante giapponese che per fortuna ha già chiuso. Poggia la testa contro il vetro e chiude gli occhi. Devo portarla a casa, ma mi viene in mente solo adesso che sono in moto e non è in condizioni di affrontare un viaggio in moto. Sto per dire a Erica se può cercarmi un taxi, quando una voce familiare ci raggiunge.
«Ragazzi, che succede?»
È Martino. Ci ha visto uscire e si è reso conto che c'era qualcosa che non andava. Quando capisce la situazione, mi guarda.
«Io ho la macchina, se ti serve.»
Non penso di essere mai stato così grato a nessuno, in vita mia.
«Grazie, Marti. Lo apprezzo.»
Lui sventola la mano destra.
«Ma figurati, per così poco.»
«La riporto a casa e poi torno.»
«Non ti preoccupare, prendo il notturno o un taxi. Prenditi tutto il tempo che ti serve, me la ridai domani.»
Sorrido al direttore di sala. «Grazie», ripeto.
«Vado a prendere le chiavi, torno subito.»
«Ti accompagno», interviene Erica e si scambiano uno sguardo che non mi aspetto. Tornano entrambi dentro e non mi sfugge la luce negli occhi di Martino. Torno a dedicarmi a Emma. Mi piego sulle ginocchia e le sfioro i capelli.
«Em?» sussurro. Non è che si è addormentata?
«Uhm...» biascica. È sveglia, forse ancora per poco. Sento lo stomaco stringersi. La rabbia si è trasformata in tenerezza.
«Come va?»
«Male.»
«Ce la fai ad alzarti? Ti porto a cas...»
Non mi fa nemmeno finire di parlare, ché alza la testa e un conato la scuote. Se non avessi avuto dei riflessi ottimali, mi avrebbe vomitato sulle scarpe. La afferro per le spalle e le tiro indietro i capelli. Non ci vuole un esperto a capire che ha rimesso solo liquidi, per la precisione alcool. Non ha cenato e ha bevuto come se non ci fosse un domani. Domani mi sente, non appena si riprende le faccio una ramanzina che si ricorda finché campa. Poi però ripenso che in realtà noi nemmeno ci parliamo, quindi non ho alcun diritto di fargliela e che forse lei non ha più voglia di ascoltarle, le mie paternali. È più forte di me, non posso fare a meno di riprenderla, ogni volta. Mi sono sempre sentito in dovere di proteggerla, di indirizzarla a fare la cosa giusta, di essere una guida per lei, di farla stare bene. Negli ultimi tempi sento di aver sbagliato tutto, di aver commesso tanti, troppi errori nei suoi confronti. O forse, semplicemente, mi sono messo su un piedistallo e ho creduto di essere più importante di quello che sono. Dopotutto, io sono sempre stato l'amico più grande, il figlio del capo di sua madre, il grillo parlante che per tutta la vita le è stato intorno, cercando di starle vicino, di impedirle di fare errori. Quello geloso che non appena ha visto che un altro la stava baciando ha dato di matto.
Socchiudo gli occhi e scaccio questo pensiero. Non è il momento, adesso, né di pensare a quello che ho provato prima e nemmeno a quello tre giorni fa, o addirittura tanti anni fa. Non adesso, anzi, mai più, come mi sono imposto. Stavo andando così bene, non posso mollare proprio adesso.
«G...»
La sua voce mi riporta alla realtà. La aiuto a rimettersi dritta e cerco un fazzoletto nella sua borsa. È distrutta, ma è normale, ha vomitato anche l'anima. Le sorrido. Almeno è tornata a chiamarmi "G".
«Ehi...» mormoro, accarezzandole il viso. Anche in queste condizioni, una parte nascosta del mio cervello pensa che sia bellissima.
«Andiamo a casa?» mi chiede e proprio in quel momento arrivano Martino ed Erica.
«Dai, alziamoci, ti porto a casa.»
Non è semplice l'operazione di rimetterla in piedi e trascinarla alla macchina, che per fortuna non è troppo lontana. Riusciamo a metterla al posto del passeggero e, dopo aver ringraziato di nuovo Martino, mi infilo dentro anche io e parto. Il loft di Emma è vicinissimo, se non fosse stata così devastata saremmo potuti andare anche a piedi, ma non era il caso. Trovo parcheggio a pochi metri dal portone, un miracolo, di venerdì sera ai Navigli. Mi volto verso di lei. Si è addormentata.
«Em?» la chiamo piano. Allungo la mano e le sfioro i capelli. Poi scendo giù, sul volto, sulla pelle morbida delle guance, sulle labbra piene e rosse. Il suo respiro mi solletica i polpastrelli. Inghiotto a vuoto, mentre il sangue comincia a pulsare più velocemente. Ho la gola secca e il cuore che mi batte troppo forte. Sento vibrazioni in luoghi che dovrebbero starsene buoni. Dovrei spostare la mano, ma non ci riesco. Vorrei restare così, ad accarezzarla con dolcezza, a cullarla mentre dorme. È tutto così sbagliato.
Quando si muove, ruotando la testa verso di me, ne sono grato.
«Uhm?» sussurra, la voce bassa e impastata. Le sfioro per l'ultima volta la bocca, poi rimetto la mano sul cambio.
«Siamo arrivati. Andiamo?»
La vedo fare uno sforzo enorme, mentre prova ad aprire gli occhi e a raddrizzarsi sul sedile. Si stropiccia la faccia, poi si scrocchia il collo – facendo un rumore tale che mi viene quasi il dubbio che se lo sia rotto – e mette la mano sull'apertura.
«Aspetta, faccio io.»
Spegno l'auto e le apro la portiera. Emma riesce a mettersi in piedi, anche se con la velocità di un bradipo, e si aggrappa al mio braccio mentre ci dirigiamo verso il portone, la testa sul mio bicipite. Salire fin sopra al suo appartamento è un'esperienza mistica. Entriamo in ascensore e, dato che non riesce a stare dritta, poggia la testa contro il mio petto. Mi accorgo di trattenere il respiro, mentre il viaggio mi sembra tanto, troppo lungo.
«Emma, se mi molli il braccio, riesco ad aprire la porta.»
Sbuffa e allenta la presa, senza abbandonare davvero il braccio. Mi barcameno tra gli almeno dieci inutili portachiavi che circondano l'unica chiave che serve – sbaglio, o questo è quello che le comprai dieci anni fa allo Sherlock Holmes Museum di Baker Street? – e riesco ad aprire. Emma si fionda dentro e si toglie gli stivali che getta in un angolo insieme alla borsa.
«Vado in bagno», biascica e non mi dà tempo di rispondere che già si è chiusa dentro.
«Chiama se hai bisogno di qualcosa, ok?»
«Ok.»
Sento il rumore del lavandino, poi dello sciacquone. Tiro fuori l'aria dai polmoni, un po' meno in tensione, e provo l'immensa voglia di fumarmi una sigaretta. Vado a farlo fuori in balcone, con l'orecchio teso a catturare qualsiasi rumore strano proveniente dal bagno. Percepisco solo acqua e i passi da ubriaca di Emma. Butto molto incivilmente la sigaretta di sotto e rientro dentro. Apro il frigorifero alla ricerca di una bottiglia d'acqua e mi accorgo che è vuoto, fatta eccezione per due uova, uno yogurt, qualche gambo di sedano e una carota avvizzita. Faccio la stessa cosa con la dispensa e anche lì non c'è quasi niente. Sospiro. Da quand'è che non mangia come si deve? Mi tornano in mente gli anni della sua adolescenza, quando mangiava poco e niente e mi impegnavo a prepararle ogni giorno un pasto decente. Domani vado a farle la spesa, ché se aspetto lei stiamo freschi.
La porta del bagno si apre dopo parecchi minuti. Mi volto a guardarla. Ha il viso rosso come lo avesse lavato, ma gli occhi cerchiati di nero dimostrano che non si è impegnata più di tanto. Individua la bottiglia sul tavolo. Ne beve un sorso generoso, anzi, più di uno. Mia madre commenterebbe con un serafico "arsura da alcool". La posa sul tavolo e mi guarda.
«Mi aiuti?»
Inarco un sopracciglio, perplesso, poi si volta.
«La chiusura.»
Ah, certo, la chiusura della gonna. Mi avvicino a lei e metto le mani sulla zip. È esattamente nella parte centrale, subito sotto la schiena e, beh, subito sopra il suo sedere. Ho di nuovo la gola secca, anche se ho appena bevuto. La testa bionda di Emma a pochi millimetri dalla mia bocca.
«Oh, me la abbassi?» mi chiede scocciata e io torno in me.
«Sì, scusa.»
Abbasso in fretta questa maledetta zip e mi allontano dal suo corpo, ma poi lei fa qualcosa che non mi aspetto. Si tira giù la gonna e resta in mutande, anzi, in perizoma.
«Cazzo!»
Distolgo lo sguardo in fretta, ma lei sembra non accorgersene. Si toglie anche la canotta e la butta per terra insieme alla gonna e si dirige mezza nuda verso la sua stanza. Decido saggiamente di non seguirla. Mi passo una mano sulla faccia e mi accorgo di avere caldo e non perché siamo a luglio inoltrato.
«G!» urla Emma dalla sua stanza. Cristo santo. La raggiungo, anche se vorrei restare piantato in cucina. La trovo seduta sul letto disfatto e per fortuna si è messa la camicia da notte. Nera, che le lascia scoperte quasi del tutto le gambe, ma almeno è meglio di prima. Posso permettermi di avvicinarmi. Mi siedo accanto a lei.
«Che c'è?»
Emma mi rivolge uno sguardo pieno di melodramma.
«Non ho fatto la skincare!» piagnucola. Le mie sopracciglia si alzano, di nuovo.
«La che?»
«La skincare!»
Non ci sto capendo niente. «Cioè?»
«Ma come!» ribatte, piena di frustrazione. Credo che stia per mettersi a piangere. «Il detergente, il tonico, il serio, la crema per il viso...»
Ah, intende la roba per la faccia. Non ridere, Giorgio, non ridere. Stringo le labbra.
«E va be', dai, per una volta non muore nessuno.»
Mi guarda con i suoi occhi grandi, lucidi, che gridano "sbronza" da ogni angolo.
«Dici?»
«Dico. Mica sei meno bella se non ti fai la skincosa.»
Sorride appena, poi barcolla verso il cuscino e si distende. Mi alzo in modo che possa allungare anche le gambe. Si sistema con le braccia sotto il cuscino e io faccio di tutto per non guardarle la pelle nuda. Che diavolo mi prende? Spero si addormenti in fretta, così posso andarmene a casa, che è meglio per tutti.
«G?»
Appunto. Mi abbasso sulle ginocchia e la guardo.
«Sì?»
«Sei arrabbiato con me?»
Le mie labbra si curvano verso l'altro e per l'ennesima volta le sfioro i capelli. «No, non sono arrabbiato con te.»
«Perché io sì.»
Ah, ottimo.
«E perché sei arrabbiata con me?»
«Perché...» Fa una pausa, e per un attimo penso si sia addormentata, ma poi parla ancora. «Giada.»
E ci risiamo. «Che c'entra Giada?»
Non lo dice, forse non vuole dirmelo. Ha gli occhi socchiusi, ma lo vedo che è ancora sveglia.
«Em, forse è meglio che dormi un po', ok?»
E poi dice una cosa che non mi aspetto.
«Dormi qui con me?»
Stringo le labbra. Tiro fuori l'aria dal naso con calma, cercando le parole giuste.
«È meglio di no.»
«Lo sapevo», mormora lei, in un sussurro. «Sei ancora arrabbiato con me.»
Sospiro. «No, Em, te l'ho detto, non sono arrabbiato con te.»
«Siete tutti arrabbiati con me, non ne combino mai una giusta. Mi hai perdonato?»
«Sì che ti ho perdonato. Ora però mettiti a dormire, dai.»
«Se mi hai perdonato, allora mi dai un bacio?»
Dannazione. Quanto ha bevuto per aver completamente perso ogni inibizione? Mi ha davvero chiesto un bacio?
«Emma, dormi, dai...» Cerco di tamponare la situazione, ma è tutto inutile.
«Perché, non ti piaccio?» continua, imperterrita. Di male in peggio.
«Em...»
Non posso risponderti, Emma. Per favore, non farmi rispondere. Ci pensa lei a lasciarmi senza fiato.
«Tanto poi puoi fare finta di niente come sempre, no?»
Resto immobile. Fermo sulle ginocchia, i quadricipiti in fiamme per la posizione innaturale, gli occhi fermi su quelli mezzi chiusi di Emma.
«In che senso?» balbetto, sentendomi un perfetto idiota. Non riesco a scoprirlo, perché crolla a dormire, di botto, ma forse dentro di me lo so. Mi ricordo benissimo. Sospiro e le accarezzo di nuovo i capelli scompigliati davanti al volto, ma stavolta senza aver paura di farlo. Dai capelli scendo giù sul viso, sulle guance, sulle labbra. Deglutisco, mentre permetto al cuore di battere forte.
«Emma...», sussurro, anche se lei non può sentirmi. «Io sono sempre stato una persona razionale, ma quando si tratta di te la mia razionalità va a puttane. È sempre andata a puttane.»
Con uno sforzo che non vorrei fare, torno in piedi. Il suo petto si solleva e si abbassa ritmicamente e credo di non averla mai trovata così bella. Mi costringo a non guardarla più e me ne torno in soggiorno. Potrei tornarmene a casa, ma non me la sento di lasciarla da sola. Scrivo un messaggio a Martino dicendogli che gli riporterò domani la macchina e lui mi risponde che non c'è problema. È davvero un bravo ragazzo, Martino. Un bravo amico.
Mi do una sciacquata in bagno, mi tolgo le scarpe e mi sistemo sul divano. Sono le tre del mattino, non so nemmeno come si sia fatta quest'ora. Sono distrutto, ma non so se riuscirò a dormire. Non so se riuscirò a togliermi dalla testa le parole di Emma, il suo odore, il suo corpo. I ricordi che mi tormentano il cervello. Gli errori che ho commesso. E che continuo a commettere.
Note di Greta ❤️
Allora, non lo so come mi è uscito questo capitolo, so solo che l'ho scritto in pochi giorni, nonostante l'esaurimento da vita e da lavoro, però ci tenevo troppo a scrivere dal POV di Giorgio. Dai, non è così cattivo come sembra ;)
VVB ❤️
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro