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Parigi mi sfila davanti agli occhi ed è una vista mozzafiato. Nemmeno il traffico infernale della città è capace di smorzare il mio stupore – Pierre ha imprecato almeno una ventina di volte da quando siamo partiti, suonando il clacson a destra e a manca, ma il fascino della ville lumière mi ha impedito di dargli peso.

In periferia sembrava un po' di essere a Milano, ma all'orizzonte si profilava già una città diversa, decisamente più grande e... caratteristica. Imboccati gli immensi boulevard, poi, mi sono sentita uscire da un film Hollywoodiano, o da Emily in Paris. Bellissima serie, tra l'altro. Chissà quand'è che Netflix rilascerà una nuova stagione?

Chissà se beccherò gli attori in giro per Parigi?

Dobbiamo aver raggiunto il centro della città, perché intorno a noi si susseguono palazzi antichi e alti, dai tetti spioventi. Dopo poco, sfociamo in uno stradone che percorre la Senna. Pianto il naso contro il finestrino e ammiro il panorama: Parigi è nuvolosa, questo pomeriggio, ma anche così è bellissima e grandiosa. La Senna corre veloce, grigia, e ponti immensi l'attraversano collegando un lato della città all'altro.

Pierre imbocca il più largo, costeggiato da statue gloriose e decadenti. Ci ritroviamo ben presto a sinistra della Senna e ci reimmergiamo tra gli edifici parigini, lasciandoci dietro il resto della città e il fiume.

Osservo ogni tanto il navigatore sull'app di Uber con la coda dell'occhio e vedo il disegnino della nostra macchinina raggiungere in fretta il quartiere di Cité Universitaire. Sorrido quando la figurina si avvicina a quella che so essere la nostra destinazione (ho studiato a menadito le mappe, ovviamente): non troppo distante da Parc Montsouris, in mezzo a tante altre residenze universitarie, c'è la Résidence Quatorzième. Offerta dal Crous parigino per gli studenti universitari, ospita la mia futura camera, e non vedo l'ora di prenderne possesso. Avvicino il naso all'ascella e do una sniffata – una doccetta è d'obbligo, prima di qualsiasi altra cosa. Pierre mi guarda male dallo specchietto retrovisore, ma faccio finta di nulla.

Il mio nuovo amico mi lascia davanti alla residenza e, mentre sgomma via, mi sento una versione povera ma non meno esaltata di Emily al suo arrivo a Parigi. Mi avvicino spulciando Google Maps perché voglio assicurarmi il numero civico sia giusto, poi mi guardo a destra e a sinistra, un po' spaesata.

Pierre mi ha lasciata su un boulevard poco trafficato. Alla mia destra vedo l'inizio di Parc Montsouris e gente che corre, le cuffiette nelle orecchie. Alla mia sinistra, il traffico della città. Di fronte, però, dove dovrebbe esserci una residenza quantomeno riconoscibile, mi ritrovo quello che ha tutta l'aria di essere un edificio industriale. Bianco e, in alcuni punti, totalmente vetrato. Alle finestre sono appese grosse tende rosse, di pessimo gusto se posso dire, e andando verso il parco c'è un cancello chiuso, senza alcun citofono a cui bussare, che dà su degli ascensori.

Una parte di me è titubante, ma la ignoro e mi spingo avanti fino a sfiorare il cancello. È bianco come le pareti dell'edificio – una tristezza, pensa una parte di me che zittisco immediatamente. Non pensare certe cose, Ludovica. Devi essere fiduciosa.

Almeno un minimo.

«Sono fiduciosa, cazzo» mormoro, mentre seguo la parete dell'edificio in cerca di un ingresso di qualche tipo. Giungo al numero civico successivo e incontro un uomo di mezza età, la schiena poggiata al muro, e una sigaretta tra le labbra. Quando mi vede, soffia via una nuvoletta di fumo e mi guarda senza parlare, un sopracciglio sollevato.

«Bonjour» inizio io, e qui mi fermo. So solo questo.

Lui spiccica una frase in un francese così rapido che mi gira la testa. Vorrei riempirlo di domande, ma il suo sguardo giudizioso mi frena.

«Je ne parle pas français» ripeto come mio solito, la cantilena della mia vita. Non capisco una mazza di francese, gentile signore. Poi aggiungo, in inglese: «È questa la Résidence Quatorzième?»

Lui getta la sigaretta a terra e la calpesta. «Putain» borbotta. «No, madame.» Alza un dito e indica l'edificio bianco senza citofono. «That, je pense.»

Almeno si è sforzato. 'Sto puten, però, l'aveva aggiunto pure Pierre nell'Uber. Inizio a pensare non sia un grande complimento.

Annuisco in ogni caso e faccio marcia indietro. Torno al cancello senza citofono e scruto gli ascensori all'interno, ragionando sul da fare. Sono abbastanza sicura che il posto sia questo, purtroppo, e non ho modo di entrare. Il bello è che mi avevano dato appuntamento intorno a quest'ora, e non hanno manco pensato di lasciarmi aperto. Fantastico.

Faccio per cercare su Google un numero a cui chiamare, o qualcosa che possa essermi utile, ma prima di riuscire a caricare la pagina l'anta dell'ascensore si apre e ne viene fuori un ragazzo grassottello che, a vedermi, si affretta ad aprirmi il cancello con un sorriso goffo in viso.

«Bonjour» dice, e io annuisco un saluto. «Je peux faire quelque chose pour vous?»

La mia espressione spaesata deve comunicare più di quel che vorrei, perché subito dopo il ragazzo passa a un inglese stentato, ma quantomeno comprensibile. «Hai bisogno di qualcosa?»

«Dove trovo la segreteria?» domando, e sono grata quando lui mi risponde prontamente. «Secondo piano.»

Infilo l'ascensore, iniziando a sudare, e quando arrivo al secondo piano trovo in fretta la segreteria. È un buco nel muro, abbastanza nascosto tra l'altro. Sbircio dalla porta a vetri e intravedo un uomo sulla trentina che agita le mani, impegnato al telefono. Schiudo la porta e lui mi individua subito. Fa' cenno di aspettarlo fuori e poi grida: «Putain!»

Ok, puten non è decisamente un complimento.

Stringo le labbra e appoggio la schiena alla parete, in attesa che il tipo finisca di parlare. A quel punto, mi guardo intorno. C'è solo una persona oltre me sul piano, che mi dà le spalle di fronte a una bacheca. È incappucciata, ma capisco subito sia una ragazza. Sta appendendo qualcosa, ma da qui non riesco a vedere bene cosa.

Da dentro la segreteria si alzano nuove urla incazzate e la ragazza sbircia nella mia direzione. Incrocio i suoi occhi e anche sotto il cappuccio li vedo grandi e scettici. Mi percorrono da capo a piedi, poi studiano la porta a vetri. Dopo un attimo, torna a lavorare alla bacheca e fissa un foglio con delle puntine. Si abbassa il cappuccio e si stringe la coda castana...

La porta a vetri si spalanca e l'uomo sulla trentina mi fissa. È bassino, un po' in carne e ha un'aria sudaticcia. Sul labbro superiore intravedo gocce di sudore e trattengo una smorfia. Mi sta già studiando con aria piuttosto seccata e non voglio dargli altri motivi per trattarmi male.

Mi dice qualcosa in francese, così rapidamente che non ci capisco una mazza. Di nuovo. Lo guardo a bocca aperta, probabilmente sembro un pesce fuor d'acqua, e lui alza gli occhi al cielo prima di passare a un inglese a dir poco stentato.

«Che vuoi, tu?» sbotta, e io aggrotto le sopracciglia. Ma che domanda è? Una barbona con due valigie in una residenza universitaria – che posso volere secondo lui?

Indico i trolley. «Devo fare il check-in» spiego.

Lui sbuffa una mezza risata. Scuote la testa. «Mi dispiace, ma i check-in sono finiti tre ore fa. Torna domani.»

Cos... «No, scusi, ma dove dovrei andare?» ribatto, stringendo la maniglia dei trolley. «Voglio solo le chiavi, poi filo via e non la scoccio più.»

«Mon dieu. No, madame, non ha capito. Non ho le chiavi e non posso dargliele dopo mezzogiorno. Non è orario di lavoro. Torni domani mattina e ne parliamo.»

Non è orario di lavoro? Il primo pomeriggio!?

Senza aspettare una mia risposta, fa scattare la serratura della segreteria e mi supera senza nemmeno degnarmi di un'occhiata. Io lo seguo barcollando con le mie valigie. «Ehi! Ma siamo pazzi? Mi dia le chiavi!» Rischio di cadere e devo rallentare per non ruzzolare giù con i pesi massimi che mi porto dietro. «Chiamo il suo superiore!»

«Oui, oui. A domani, madame.» Entra nell'ascensore e, prima che io riesca ad affiancarlo, le porte scorrevoli mi si chiudono in faccia.

Ma... ma... «Ma che cazzo?» bofonchio in italiano.

E una voce dietro di me ridacchia. Quando parla, lo fa in un italiano dalla cadenza francese. «Se pensi che a Parigi aspettino te, principessa, è meglio che torni a casa ora.»



***

Note autrice: Oggi piove, quindi anticipo di un giorno la pubblicazione. Ah, e il mio arrivo a Parigi è stato davvero così... che trauma T_T

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