Capitolo 2: E tu?
«Buongiorno.» Salutai entrando dalle porte automatiche della casa editrice.
Ormai era il quinto giorno che lavoravo in quella casa editrice ed ero stato sempre più avvilito e meno spronato ad andarci. Non tanto per il lavoro in sé, anche se non era quello che volevo fare nella vita, tutto sommato non mi dispiaceva, dovevo solo far pratica e prenderci la mano. Più che altro il posto a non piacermi. Quel palazzo grigio con sole finestre e la scritta enorme "Il Nettuno Edizioni" mi metteva a disagio. Per non parlare delle persone, mi erano sembrati tutti uguali, concentrati sul proprio lavoro e nient'altro a cui pensare e di cui discutere.
«Buongiorno, Gualtiero.» Mi salutò Mia con tono di voce indifferente nonostante il sorrisino che provò a fare lanciandomi un'occhiata veloce. Poi tornò a fissare lo schermo del computer.
Passai il badge e mi misi dietro al bancone dopo aver posato la mia borsa e il cappotto nella nostra saletta.
«Forza, che oggi è venerdì.»
«Già.»
«Avremo molto meno da fare e potremo rilassarci un pochino.»
«È tranquillo nel fine settimana?»
«Sì, molti fanno il weekend lungo e non vengono a lavorare, il che significa meno lavoro per noi.»
«Bene.»
«Già! Infatti mi porto sempre qualcosa da leggere perché ci sono davvero delle ore morte.»
«Immagino.»
«Sempre di poche parole, eh?»
«Scusa, è che è ancora mattina presto e...»
«Guarda che ti prendo in giro.» Mi sorrise gentilmente.
«Ah, io... Ok.» Distolsi lo sguardo.
Mia scosse il capo e ridacchiò.
Aveva ragione. Non c'era molta gente quel giorno; non si presentò nessuno per qualche appuntamento, non ci lasciarono posta e non fecero richieste particolari. Inoltre, quasi tutti i dipendenti avevano con sé il proprio badge, quindi dovemmo farne solo un paio.
«Però, è davvero tranquillo oggi.» Commentai guardandomi intorno notando la desolazione e il silenzio all'ingresso.
«Te l'avevo detto.» Sussurrò Mia mentre fissava le pagine del libro che si era portata dietro. Non sbirciai il titolo, non mi interessava per niente, soprattutto considerando la copertina tutta rosa e con dei fiori bianchi disegnati in rilievo.
«Caffè?» Proposi.
«Ci sta.»
«Ok, vado a prenderlo.»
«Vuoi la chiavetta?»
«No, no, l'ho presa l'altro giorno dal manutentore. Stavolta offro io.»
«Va bene.»
«Come lo vuoi?»
«Amaro come la vita.»
«Ah, ehm, ok.» Sussurrai confuso.
«Hahah, guarda che sto scherzando, eh.» Scollò gli occhi dalle pagine e mi guardò da sopra la copertina.
«Quindi non lo vuoi amaro?»
«Eh? Certo che lo voglio amaro, era solo per fare la battuta.»
«Ok. Un caffè amaro come la vita in arrivo.» Mi voltai sorridendo.
Lei scosse il capo stranita.
Qualche minuto dopo ero di ritorno.
«Ecco qui.» Dissi poggiando il caffè di Mia sul bancone.
«Grazie mille.»
Risposi solo con un cenno del capo.
«Certo che mescoli tanto, ma quanto zucchero metti?»
«Tutto.»
«Come, tutto?»
«Sì, zucchero al massimo.»
«Ma davvero? Come fai a berlo?»
«Potrei farti la stessa domanda.»
«No, sul serio.»
«Non dicevi che la vita è amara? Ed io il caffè me lo bevo così perché pure il caffè amaro no, eh.»
«Ma che ca... Sei strano.»
«Ah, ehm... s-scusa.» Forse mi ero preso troppa confidenza.
«No, no, ma che ti scusi!»
«Volevo fare una battutina pure io.»
«Sì, sei strano forte.»
Io abbassai lo sguardo con fare deluso e diedi un sorso.
«Guarda che è un complimento.»
Per poco non mi affogavo.
«Eh?» La guardai con aria interrogativa.
«Che ti devo dire? Mi sembrano tutti uguali, almeno qualcuno un po' diverso.» Disse abbassando lo sguardo come se stesse ricordando qualcosa di doloroso.
«I-immagino...» Risposi confuso.
E quello strano ero io? Diverso? Ho combattuto per anni contro la sensazione di sentirmi un pesce fuor d'acqua e adesso lei sembrava apprezzare?
Scossi il capo e sorrisi finendo il caffè, gettando poi il bicchierino di plastica nel cestino sotto al bancone. Lei fece lo stesso.
«E tu?»
«E tu cosa?» La guardai stranito, non avevo capito la domanda.
«Ma sì, insomma, dimmi qualcosa di te»
La guardai sorpreso. Era la prima volta che mi faceva una domanda così personale. Durante la settimana eravamo stati completamente sommersi dal lavoro e, per quel che mi riguarda, a imparare tutto. Non c'era stato tempo per conoscerci meglio.
«Troppo complicato?» Rise guardandomi sorridente.
«Cosa? No, no, solo che non mi aspettavo una cosa del genere.»
«Oook.» Mi guardò stranita.
«Beh, qualcosa di me, tipo?»
«Non lo so, quanti anni hai?»
«Venticinque.»
«Serio?»
«È strano che io abbia venticinque anni?»
«No, ti facevo più piccolo.»
«Me la dicono tutti 'sta cosa.»
«Mica è un male apparire più giovani, quando avrai cinquant'anni vorrai sembrare un ventenne.»
«Sì, infatti. Tu, invece?»
«Trentotto.»
«Sì, novantasei!»
«Hahah, poco credibile?»
«Decisamente. Sembri una ragazzina.»
«Era un complimento?»
«Ah, ehm, io...»
«Quindi ti piacciono le ragazzine e non quelle un po' più mature? Che peccato.» Il suo tono era falsamente deluso e un po' malizioso.
Arrossii e distolsi lo sguardo, ma sentivo comunque che mi stava fissando come se volesse prendermi in giro.
«N-non mi hai risposto comunque.»
«Ventitré.»
«E allora!»
«Hahah, sì, sono una ragazzina, proprio come piacciono a te, quindi ci puoi provare.» Mi fece l'occhiolino.
«Ma che dici?» Distolsi di nuovo lo sguardo con fare imbarazzato.
«Ok, prenderti in giro è troppo divertente.» Ridacchiò soddisfatta.
«Dai, piantala, mi metti a disagio.»
«Perché? Perché ti piaccio?»
«...» Non risposi e continuai a fissare il pavimento in preda all'imbarazzo.
«Dovresti vedere la tua faccia in questo momento!»
«Dai, smettila...»
«Hahah, ok.»
«Ecco.»
«Piuttosto, da dov'è che vieni? Il signor Ferri mi ha detto che non sei di Bologna.»
«Sicilia.»
«Davvero? Non hai l'accento di qui, ma non avrei detto che sei del sud.»
«E di dove?»
«Non lo so, più verso l'Abbruzzo o giù di lì.»
La guardai confuso, vero è che stavo a Bologna da anni e non mi aspettavo di avere ancora un forte accento, ma addirittura sembrare del centro pareva strano.
«Ci può stare. Tu invece di dove sei?»
«Ich komme aus Berlin.» Rispose fiera poggiandosi una mano sul petto e annuendo.
«Ich, cioè I, io... Komme suona più o meno come in inglese. Aus sarà tipo from. E Berlin è Berlino. Vieni da Berlino? Sul serio?»
«La vera domanda qui è: davvero sei arrivato a tradurre dall'inglese?»
«Non conosco il tedesco, dovrò pur arrangiarmi in qualche modo, no?»
«Ribadisco il fatto che sei strano.»
«Vieni da Berlino quindi?»
«Non proprio. Mio padre è di lì e mia madre è di Firenze. Si sono conosciuti qui a Bologna nel periodo dell'università. Ma in Germania comunque ho vissuto solo qualche anno.»
«Wow.»
«Che c'è?»
«Nulla, è interessante.»
«Trovi?»
«Sì. Insomma, è per questo che conosci il tedesco.»
«Esatto, ogni tanto mi esercito a parlarlo con mio padre quando lo sento al telefono.»
«Non sta qui?»
«No, ma neanche mia madre. Lui è a Berlino per lavoro, torna una volta ogni tanto. Lei, invece, lavora a Firenze, infatti torno da lei nei fine settimana quando posso.»
«E come sei finita qui a Bologna?»
«Volevo un po' di indipendenza. Sai, vivere per i fatti miei, lavorare, gestirmi i soldi e cose così. I miei mi hanno dato una mano all'inizio, poi ho fatto tutto da sola.»
«Però, che brava.»
«Eh, hai visto? Puoi aggiungerlo alla lista delle cose che ti piacciono di me.» Disse mentre mi dava delle amichevoli gomitate sul braccio.
«Dai, piantala.»
«Hahah, ok!»
Scossi il capo.
«Tu, invece? Come ti sei ritrovato a Bologna?»
«Mi sono trasferito per studiare. Dopo la laurea ho capito che volevo restare qui e così ho cercato lavoro per potermi campare e non pesare sui miei.»
«Sei stato bravo anche tu.»
«Beh, ho fatto molta fatica in realtà; è stato tutto molto più complicato di quanto pensassi. Però grazie.»
«Fatica?»
«È una lunga storia.» Sussurrai.
«Ah, ma è già mezzogiorno.»
«Di già?» Domandai stupito guardando l'orologio che segnava le 12:03.
«Vado a pranzo.»
«Vai tranquilla.»
In quell'ora non successe nulla di particolare, a parte un dipendente che era già dentro allo stabile che mi chiese di fargli un badge sostitutivo perché non trovava il suo; per poi scoprire che in realtà l'aveva nel portafogli. Quindi con una certa trafila ho dovuto prima fargliene uno nuovo, annullargli il principale e poi annullargli il secondo e riabilitargli il primo.
Più che altro pensai continuamente alla conversazione con Mia. Era stata una chiacchierata amichevole tutto sommato e mi fece anche piacere che cercò di avvicinarsi in qualche modo. Il fatto che mi chiedesse della mia vita mi ha permesso di aprirmi un pochino nei suoi confronti, ma non c'era possibilità che potessimo diventare amici. Probabilmente mi aveva fatto tutte quelle domande per via della noia dato che non c'era molto da fare, e quel suo modo di scherzare poteva benissimo far parte del suo carattere. Quindi non dovevo pensare che avremmo stretto il nostro rapporto e che saremmo diventati amicissimi o che fosse realmente interessata. Amichevoli colleghi che chiacchieravano tranquillamente per far passare le ore di lavoro; io e Mia non eravamo nient'altro.
«Eccomi qua!» Esclamò contenta Mia una volta tornata dalla mensa.
«Hm.»
«È successo qualcosa mentre ero via?»
«No.»
«Oh, ma tutto a posto?»
«Sì. Vado a pranzo.»
«Ok.» Mi guardò stranita e un po' delusa, come se ci fosse rimasta male per qualcosa.
Ma non ci diedi troppa importanza. Così mi diressi verso la mensa.
Una volta arrivato fui sommerso da miscugli di mille odori e come sempre mi sentii trascinato in mezzo a un mare di persone che producevano suoni che si sovrastavano l'un l'altro. Per il quinto giorno consecutivo si ripeté la stessa scena del primo. La signora al bancone, senza degnarmi di uno sguardo, mise il cibo nei piatti con poca delicatezza e molta non curanza. Mentre la seconda, quella alla cassa, ancora non mi riconosceva e dovetti spiegarle di nuovo che ero della reception e quindi avrei dovuto pagare la metà. Si fece dare i soldi con le sue mani scheletriche e quasi sembrò cacciarmi via con un gesto della mano.
«Che postaccio.» Sussurrai dopo aver preso il mio vassoio ed essermi diretto verso i tavoli.
Per l'ennesima volta sentii la stessa sensazione di essere da solo anche se accerchiato da centinaia di persone. Però, conoscendomi, anche se qualcuno si fosse avvicinato anche solo per parlare, lo avrei allontanato in maniera sgarbata e con delle risposte secche, esattamente come avevo fatto prima con Mia. Scossi il capo e sospirai. Poi mi diressi verso un posto vuoto e mi misi a mangiare.
Un'ora dopo ero di ritorno. Avevo pensato tutto il tempo al fatto che magari Mia non avesse cattive intenzioni e che forse non era solo annoiata. Quindi decisi di essere un pochino più aperto, amichevole e di qualche parola in più.
«Tornato.» Provai a sorridere.
«Mangiato bene?»
«Meglio di quanto mi aspettassi.»
«Vero? Anche secondo me oggi era tutto più buono.»
«Già.»
«Ma senti, tutto a posto? Prima ti ho visto un po' strano.»
«Sì, ero solo sovrappensiero.»
«Meno male. Pensavo di averti infastidito con il mio modo di fare.»
«Cosa? No, ci mancherebbe, anzi.»
«Aaah, allora ti piace?» Domandò di nuovo con quel tono di voce provocatorio.
«Dai, smettila.»
«Hahah, sì, eri davvero solo un po' pensieroso. Tutto a posto.»
«Sì, tutto a posto.»
«Ma non è che pensi un po' troppo?»
La guardai sorpreso. Quella domanda mi fece tornare in mente parecchi ricordi, le persone che mi stavano vicine me lo dicevano sempre. Abbassai lo sguardo con una leggera malinconia.
«Sì, può essere. Me lo hanno già detto in tanti.»
«Ci credo, ma non ti ci fissare, è una cosa normale.»
«Ci proverò.»
Mia sorrise e poi tornò a leggere il suo libro.
Il resto del turno passò in silenzio. Per tutto il tempo sembrò come se Mia volesse prendere parola da un momento all'altro e che qualcosa la fermasse. Ogni volta che notavo un comportamento del genere le dicevo: «Dimmi tutto.» Ma lei rispondeva sempre con: «No, niente.» e ricominciava a leggere.
«Sono le sei!» Esclamò Mia contenta appena si accorse dell'orario.
«E già.»
«Il turno è finito, ho finito anche il mio libro, ora me ne torno a casa, mangio e me la dormo. Potrebbe andare meglio di così?»
«No, non credo.»
«Tu farai qualcosa stasera?»
«Lo stesso che farai tu, mangio e dormo.»
«Miglior programma di sempre per un venerdì sera dopo una giornata di lavoro, no?»
«Direi proprio di sì.»
«Comunque, se vuoi andare vai pure. Lascio io le chiavi agli inservienti.»
«D'accordo.» Risposi prendendo le mie cose e mettendomi il cappotto.
«Buona serata.»
«Anche a te, ci vediamo la prossima settimana.»
«A lunedì.»
Dopodiché uscii dalla casa editrice.
«Ci vediamo presto, postaccio.» Sussurrai una volta fuori.
Mi diressi verso la fermata dell'autobus, mettendo le mani dentro le tasche del cappotto.
Appena arrivato all'incrocio dove si trovava la fermata, notai che stava passando il bus e io dovevo ancora attraversare la strada. Agitai la mano per farmi notare dall'autista e fargli cenno di aspettarmi. Lui si voltò a guardarmi, mi sorrise e scosse la mano come per salutarmi. Poi ripartì senza di me. Doveva avermi scambiato per un collega o qualcosa del genere.
«Ma seriamente?!» Domandai ad alta voce restando a bocca aperta. Un paio di persone che passavano di lì mi guardarono incuriositi e scoppiarono a ridere dopo avermi superato. Scossi il capo rassegnato.
Mi avvicinai alla fermata e lessi gli orari, l'autobus successivo sarebbe arrivato dopo mezz'ora.
«No, va be', non è possibile.» Scossi il capo e mi misi seduto, aspettando il passaggio del mezzo.
Qualche minuto dopo mi guardai intorno in cerca dell'autobus, sperando che per qualche congiunzione astrale ne passasse un altro in tempi più brevi. Ma ciò che notai fu Mia camminare verso di me. La guardai stranito.
«Gualtiero? Ma che ci fai qui?» Mi chiese appena mi si parò davanti.
«Potrei farti la stessa domanda.»
«Ah, ho capito, mi hai stalkerata; sai che prendo l'autobus e ora vuoi pedinarmi per scoprire dove abito!» Esclamò indicandomi con l'indice e portandosi l'altra mano davanti alla bocca fingendosi sconvolta.
«Cosa? Ma sei impazzita?»
«Hahah, ti prendo in giro. No, ma davvero, che ci fai qui?»
«Aspettavo l'autobus, ma l'ho perso. Mi è passato letteralmente davanti. Ho fatto cenno all'autista, ma mi sa che pensava lo stessi salutando perché ha ricambiato ed è ripartito. Il prossimo passa fra mezz'ora.»
«Hahahaha, che sfigato di merda!» Rise di gusto indicandomi di nuovo.
«Pure!»
«Dai, sto scherzando. In realtà mi dispiace che tu abbia perso il bus.»
«Eh, pure a me.»
«Però, dai, ti faccio compagnia, tanto anche il mio passa fra un po'.»
«Ah, ok.»
«Che? Problemi?»
«Cosa? Ma no, figurati.»
«Ecco, bravo.» Si sedette accanto a me con prepotenza.
Non capivo davvero quando scherzasse e quando fosse seria, ma speravo che ci avrei fatto presto l'abitudine.
«Che autobus prendi?»
«Il novantacinque.» Risposi.
«Ma dai, che coincidenza!»
«Anche tu?»
«No, io prendo l'ottantuno.»
«Ma che... Mi stavi prendendo in giro?»
«Eeesatto!»
«Mi ci abituerò prima o poi?»
«Spero di no.»
Risi scuotendo il capo.
«Come mai prendi l'autobus? Non hai la macchina?» Domandò.
«Ho la patente, ma non ho la macchina. Prendo il bus perché mantenere un auto è un po' costoso. Tu, invece?»
«Stesso motivo.»
«Però con i mezzi si arriva quasi dovunque.»
«Sì, infatti, alla fine è comodo anche così.»
Non passò molto prima che arrivasse l'autobus di Mia.
«Bene, questo è quello che devo prendere.»
«Ok.»
«Ti rifaccio i miei saluti: buona serata e a lunedì.»
«Anche a te, a lunedì.»
Poi salì sul mezzo e dal vetro della porta scorrevole mi fece cenno con la mano e mi sorrise. Io ricambiai.
Che ragazza... strana.
Un po' di tempo dopo varcai la porta di casa richiudendola alle mie spalle. Mi tolsi il cappotto e la divisa e mi diressi verso il bagno. Misi della musica dal cellulare prima di infilarmi sotto la doccia, non amavo il silenzio quando facevo qualcosa.
Mi diressi verso la camera da letto con addosso la tuta per stare in casa. Mi appoggiai sul letto e chiamai mia madre.
«Pronto?»
«Gualtiero, tesoro mio.»
«Come stai, mamma?»
«Come sempre, come stai tu, piuttosto?»
«Stanco.»
«Anche oggi giornata dura?»
«No, in realtà non tanto, anzi.»
«E allora perché sei stanco?»
«Boh, mentalmente forse.»
«Normale, non sei ancora entrato nell'ottica del lavoro, ci farai l'abitudine, vedrai.»
«Speriamo.» Mi sdraiai di peso sul letto poggiandomi il cuscino sotto la testa.
«Hai mangiato?»
«Ancora no.»
«E che aspetti?»
«Che mi venga fame.»
«Ma hai da mangiare?»
«Dovrei avere ancora qualcosa.»
«Dovresti o ce l'hai?»
«Ce l'ho.»
«E allora!»
«Mal che vada mi ordino una pizza.»
«Hai abbastanza soldi?»
«Sì, tranquilla, se mi serve qualcosa te lo dico.»
«Non fare tutto da solo, io e papà cercheremo sempre di aiutarti.»
«Lo so, ma quando arriverà il primo stipendio vedrò di non chiedervi aiuto.»
«No, no, il primo stipendio te lo devi godere tutto! Si fa così, non lo sai?»
«E l'affitto e tutto il resto?»
«Mese in più, mese in meno, che differenza vuoi che faccia? Ci penseremo io e papà.»
«Anche se così fosse non c'è nulla in particolare che voglio comprare, quindi non saprei nemmeno come spenderlo.»
«Qualcosa troverai. Ricordati che i soldi vanno e vengono, Gualtiero, indipendentemente dalla cifra non basteranno mai.»
«Sarà...»
«Te ne accorgerai, parola di mamma.»
«Va bene, come dici tu.» Risi.
«Ah, senti, ti volevo chiedere una cosa.»
«Dimmi tutto.»
«Ma Ciccio e Chiara? Li hai più sentiti? Sanno del tuo nuovo lavoro?»
Ah, già.
Non avevo loro notizie da un mese ormai. Il mio migliore amico... Potevamo ancora definirci così? Non ci sentivamo più molto spesso, non vivevamo più nella stessa casa, non andavamo più nella stessa scuola, non ci raccontavamo più nulla, non sapeva nemmeno del mio lavoro, né dove abitavo adesso, non sapeva niente, né me lo aveva chiesto. Che persona era per me? Quanto affetto provavo per lui? Io non lo sapevo più.
E Chiara? Non pensavo potesse finire da un momento all'altro con lei, ero convinto saremmo stati insieme per molto più tempo, specie considerando quanto diceva di amarmi e quanto lo aveva dimostrato, tutto quello che avevamo passato insieme e quello che mi aveva aiutato a superare, come mi aveva spronato ad andare avanti e come fossi contento di starle accanto. La notizia della sua partenza per gli Stati Uniti mi aveva davvero turbato, «Non si sa mai» aveva detto, intendendo che magari un giorno saremmo tornati insieme, ma erano le circostanze che non lo volevano, e io non volevo che perdesse un'occasione come quella, era troppo brava in tutto ciò che faceva per restare lì e aspettare qualcosa di meglio solo perché io ero rimasto. In più, l'idea di trasferirmi non mi era passata neanche per l'anticamera del cervello dato che dovevo finire gli studi, e poi, cosa sarei mai andato a fare? Lei era dispiaciuta da morire. Mi ricordo tutte le lacrime che ha versato dopo aver accettato di andare via e ogni notte passata insieme come se fosse l'ultima. Erano trascorsi sei mesi ormai. Aveva detto che non si sarebbe persa la mia laurea per niente al mondo, e invece se l'era persa, esattamente come tutti gli altri. Si trasferì proprio due settimane prima della discussione della tesi. C'erano solo i miei genitori alla proclamazione e non festeggiai. Le uniche persone che avrei voluto ci fossero non c'erano. Ma Chiara era giustificata, no? E anche gli altri, giusto? Cos'era Chiara per me? Avevo voglia di sentirla? Volevo sapere come stava? Provavo ancora qualcosa per lei? Avrei dovuto vederla per capirlo? All'inizio ci sentivamo e chiamavamo ogni maledettissimo giorno, ci mandavamo messaggi ogni momento libero e quando combaciavano gli orari scappava anche una videochiamata. Ma da un giorno all'altro cominciammo a sentirci sempre meno e ogni scusa era buona per non farlo. Fu in quel preciso momento che capii che la distanza causa lontananza, non mancanza. Infatti eravamo lontani ormai, in tutti i sensi.
«Gualtiero? Mi hai sentita?»
«Eh? Ah, sì, sì, ti ho sentita.»
«Quindi? Vi siete sentiti o no?»
«Non di recente.»
«Ho capito.»
«Come mai me lo chiedi?»
«Così, era da un po' che non li nominavi e ci pensavo, tutto qui.»
«Capisco.»
«Hai provato a mandare un messaggio? Sono sicura ne sarebbero felici.»
«Magari ci provo più tardi, o domani.»
«Però fallo, ti conosco, che dici che lo fai e poi aspetti settimane.»
«Non ti preoccupare.
«Dico sul serio. Tu pensi troppo. Mandalo e basta, senza stare a rimuginarci per ore.»
Ci si metteva pure mia madre.
«Va bene, va bene.»
«Ecco, bravo.»
«Come sempre.»
«Sì, proprio.»
Accennai una risata in risposta.
«Lavori domani?»
«No, sabato e domenica a casa, tranne in casi straordinari.»
«Ah, buono.»
«Già.»
«Allora ti lascio riposare.»
«Va bene.»
«Buona notte, tesoro mio, un bacio.»
«Buona notte, mamma.»
Dopodiché sentii il classico suono di chiamata interrotta. Allontanai il telefono dall'orecchio e guardai lo schermo. Come sfondo c'era ancora la foto che avevo fatto con tutti i miei amici, ammesso che lo fossero ancora. Misi in stand-by il cellulare sbuffando e scuotendo il capo, che ormai era diventata la mia occupazione preferita, soprattutto pensando così tanto; ed era proprio in quei momenti che la voce di Chiara mi riecheggiava in testa, «Tu pensi troppo» mi diceva di tanto in tanto, e io le sorridevo e le dicevo che aveva ragione.
«Se non lo faccio ora non lo faccio più...» Sussurrai fra me e me.
Sbloccai il cellulare, andai sull'applicazione di messaggistica e sulla chat di Chiara scrissi:
"Ehi! Quanto tempo! Come stai?"
Lo rilessi sette volte.
Scossi il capo e lo cancellai.
"We! Che si dice?"
Ancora peggio.
Ero un tipo da messaggi molto lunghi se avevo qualcosa da dire, ma sapevo benissimo che quello non era il caso e che era meglio prima riuscire ad avviarla una conversazione piuttosto che partire subito con una marea di informazioni.
Pensai al messaggio per tutta la sera senza riuscire a trovare niente di decente. Per cui decisi di non mandarlo affatto. Sentirsi con loro sarebbe dovuto essere naturale. Le persone che si vogliono bene non dovrebbero provare disagio nell'avere contatti e se dovevo pensarci così tanto forse non era il momento adatto.
«Gualtiero, tu pensi davvero troppo.»
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