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Capitolo 7

«È che... sono ancora così confusa su quello che è successo, come se fosse solo un sogno... È che... non posso far finta di niente, come se nulla fosse... come se da un giorno all'altro non fossi più insieme con una persona con cui ho passato quattro anni della mia vita, con una persona a cui ho raccontato tutto, ma veramente tutto.»
«È normale sentirsi in questo modo, Silvia.»
«Non è normale avere costantemente paura di quello che potrebbe succedere. Non è normale avere paura di alzarsi dal letto.» disse ad alta voce l'erbetta.
«Da quanto non fai un sonno completo?» chiese la dottoressa.
«Un po'» rispose vaga la ragazza.
«Dobbiamo tornare a dormire, Silvia.»
«Lo so, è solo che...»
«C'è qualcosa che ti turba oltre alla fine della scuola e alla situazione con Nicolas?» domandò la donna.
«L'unica amica a cui tenevo di più... si trasferisce per andare dal cugino malato e quindi non ci vedremo più. Questa sensazione mi fa sentire molto egoista.»
«Non è egoistico essere triste perché non puoi rivedere una tua amica. È normale.»
Silvia annuì, ma non si convinse. Per lei non era normale nulla di quello che stava succedendo e di quello che provava.
L'incontro finì con le solite raccomandazioni e l'appuntamento per il prossimo incontro. Silvia salutò la dottoressa e, mentre era sulla corriera per tornare a casa, ricevette un messaggio da parte di Marica.

Messaggio di Marica
«Buongiorno, tesoro.
Come stai?»
«Bene, tesoro. E tu?»
«Bene bene. Sto preparando le valigie. Com'è andata con la psicologa?»
«Come fai a saperlo?»
«Tua mamma.»
«Come al solito. Bene, solo che mi fa molto strano tornare ad uscire da sola. Di solito mi accompagnava lui. Penso che mi sia tornata l'ansia sociale. Ahahaha. Ma non voglio disturbarti con i miei monologhi.»
«Allora. Adesso mi arrabbio e non sto scherzando. Smettila di pensare di essere un peso o di disturbare. Mi urta sentirti dire ogni volta questo. Pensi che tu mi disturbi? Pensi che tu sia un peso per me? No, perché allora non hai capito come sono fatta! Se tu per me fossi un peso, credimi, con te non sarei mai uscita e men che meno sarei uscita adesso. Mi dà fastidio che tu pensi di essere un peso con me. Non lo sei. Mi dà fastidio quando dici questo, e mi fa arrabbiare. Sei mia amica, l'unica amica importante che non mi disturba mai. Anzi, mi disturbi solo quando dici queste cose. Però mi disturbi il sistema nervoso, perché se ti avessi davanti ti picchierei fino a farti capire che non sei nulla di tutto questo. Ti voglio bene, smettila di pensare così. Mi fa piacere sentirti e mi fa piacere che tu ti apra con me, quindi smettila. Sono stata cattiva e diretta, ma ti ho detto quello che penso. Una persona a cui si vuole bene non potrà mai disturbare.»
«Grazie e scusa, davvero. Scusa se ti riempio di negatività.
La supererai. Supererai anche questa.»

Silvia sorrise al messaggio e, fissando fuori dal finestrino, notò il sole accecante e il cielo limpido. Non si vedeva nemmeno una nuvola per chilometri. Non voleva tornare a casa. A fare cosa? A guardare il soffitto? Quel giorno sua madre sarebbe stata a casa e avrebbe gestito lei la casa e i gemellini. Quindi, perché tornarci? Aveva bisogno di staccare, ma lei faceva sempre le pazzie con Nicolas... Non ce l'avrebbe mai fatta da sola.
Quando la corriera arrivò alla fermata vicino casa, Silvia decise di rimanere a bordo fino al capolinea. Scese per ultima dal mezzo e, con lo zaino in spalla come sempre, si diresse verso la biglietteria della stazione dei treni. Scelse una destinazione marittima e, dopo aver superato i controlli, chiamò sua madre.
«Ciao mamma!»
«Ciao, Silvi. Ho sentito la corriera passare, ma... come mai non sei a casa?» rispose Elena.

«Senti, mamma. Non devi preoccuparti di quello che sto per dirti, ma ho preso un biglietto del treno».

«Silvia, cosa hai intenzione di fare? Mi vuoi lasciare anche tu?»

«Mamma, no, no, no. Per favore, calmati. Torno a casa domani mattina. Ho solo bisogno di pensare un po' davanti al tramonto... Mi sento così confusa, ti prego. Ho bisogno che tu capisca».

A quelle parole, Elena sentì un altro pezzettino del suo cuore rompersi, ma non poteva fare niente. Doveva solo dare del tempo a sua figlia e regalarle tutto l'amore che aveva, insieme ai suoi gemellini, nati da un atto violento.

«Starai attenta?»

«Sempre, mamma». Silvia fu quasi sollevata nel sentire l'approvazione della madre. «Tu chiamami se hai bisogno. Stai attenta anche tu con i gemelli».

«Ce lo promettiamo?»

«Certo, mamma».

La chiamata si concluse e il treno di Silvia arrivò. Il viaggio durò cinque ore, durante le quali Silvia fissò costantemente il finestrino. Non appena arrivò, si diresse immediatamente verso la spiaggia. Si tolse le scarpe e i calzini e si incamminò verso la riva. La sabbia era morbida al tatto e di un colore così caldo che, solo guardandola, Silvia sentì l'animo più calmo. Si legò il maglioncino in vita per non sporcare i pantaloni più costosi che aveva deciso di indossare stranamente quella mattina e si sedette poco prima che la sabbia si bagnasse.

Aveva così tanto per la testa che faceva fatica a concentrarsi: da dove avrebbe dovuto cominciare? Ogni cosa che ha un inizio ha anche una fine, e di questo Silvia aveva paura, perché non sapeva cosa sarebbe successo dopo. Prese il telefono in mano: era tentata di visitare il profilo Instagram di Nicolas, ma si trattenne. Scorreva la home e si godeva le foto che Marica postava per la partenza. Silvia sorrise e passò oltre. Doveva essere contenta per lei. Era un'opportunità per cambiare, per vedere nuovi posti. Marica sarebbe stata bene. Ma Silvia non si sentiva allo stesso modo: come avrebbe fatto amicizia senza di lei? Non era capace. Ogni volta che incontrava qualcuno, Silvia abbassava lo sguardo e stava sulle sue. Era un modo di difesa, o almeno così pensava, perché si conosceva. Non appena avrebbe iniziato a parlare di se stessa anche solo un po', avrebbe finito per raccontare tutto. Era stato sempre così: le sue compagne non le facevano bullismo solo perché c'era Marica a proteggerla. Si limitavano a parlare male di lei, ma finché non ascoltava, Silvia stava bene.

E adesso? Cosa avrebbe fatto? Sarebbe diventata la "zitella" degli adolescenti? Non lo voleva per nulla al mondo.

Aveva sempre desiderato essere un altro tipo di persona: quella che stringeva amicizie con un sorriso, quella simpatica e popolare del gruppo.

Aveva sempre pensato che sarebbe stato perfetto, ma soprattutto giusto, avere un gruppo di amici, magari fumatori, che si incontrano sempre negli stessi posti e fanno sciocchezze, come salire su una statua. Tutti quelli che avevano questo sembravano felici e appagati. Silvia voleva sentirsi così e non sola, con un'amica che si sarebbe trasferita all'altra parte dell'Italia e una madre distrutta come unico supporto morale.

Odiava il fatto di essere sola. Odiava il fatto che ogni volta che parlava con qualcuno, finiva per raccontare tutta la sua vita, ma non perché lo volesse, semplicemente perché le parole le uscivano dalla bocca così velocemente che nemmeno lei se ne rendeva conto, finché non le aveva già pronunciate.

E poi c'era Nicolas. Quel ragazzo più grande di lei con cui aveva trascorso quattro anni della sua vita e che l'aveva lasciata l'ultimo giorno di scuola. Silvia iniziò a pensare a tutti i suoi modi che le sarebbero mancati, perché sì, tutto quel tempo non si dimentica facilmente. Bisognava solo accettare il fatto di essere tornata sola, e questo a Silvia dispiaceva più di quanto immaginasse. Si dispiaceva di essere sola, ma soprattutto di essere una persona egoista che non riusciva a vedere i problemi degli altri, perché metteva sempre se stessa al primo posto. Ma il bello è che questo era il problema: Silvia pensava di essere egoista perché pensava a se stessa, ma in realtà era solo rispetto ciò che provava nei suoi confronti. Lo aveva imparato quel dicembre. Aveva capito che doveva reagire per non sentire più le urla rimbombare nella sua testa, per non sentire i pianti di sua madre e per non raccogliere più i pezzi di vetro da terra, quando suo padre aveva rotto qualche piatto.

In quel momento, un ricordo le invase la mente. Erano passate poco più di due settimane da quell'evento traumatico e le vittime erano ancora in ospedale, quando un medico entrò nella stanza e disse che avevano analizzato le urine di Elena. Lo dovevano fare in seguito a uno stupro per circa tre settimane, ma in questo caso i risultati arrivarono prima.

«Buongiorno, signora. Come si sente oggi?»

Elena annuì con uno sguardo cupo. Non aveva ancora detto una parola. Silvia, nel letto accanto, provava ogni tanto a farla parlare, ma non ci riusciva.

«Infermiera, può portare a fare un giro la ragazza?»

«Sì, certo, dottore» rispose una donna con un camice bianco, entrando nella stanza.

«Non ho intenzione di muovermi da questo letto» protestò Silvia.

I medici tentarono di allontanarla per dare delle notizie a Elena, ma Silvia non demordeva, così furono costretti a parlare davanti a lei.

«Signora, dalle analisi delle urine abbiamo riscontrato che è rimasta incinta. Capisco che questa situazione sia difficile, ma possiamo aiutarla. Siamo all'inizio, è passato solo una settimana, quindi possiamo considerare delle pillole che potrebbero...»

«No». Fu la sua prima parola in due settimane.

«Signora, questo...»

«Mamma, prova a pensarci, è...»

«No» ripeté la donna. «Ho quasi cinquanta anni e non voglio sprecare i miei ovuli per un uomo che mi ha...»

«Mamma, non devi dirlo per forza. Sei stata fortissima!»

Per i primi tre mesi della gravidanza, quando era ancora possibile ripensare alla sua scelta, Elena partecipò a incontri giornalieri con un team di psicologi e psichiatri per affrontare la situazione nel modo migliore possibile. Elena era a pezzi per tutto ciò che era accaduto e veniva considerata lucida solo perché riusciva ancora a vivere. Parlava poco e si muoveva ancor meno. Silvia la trovava spesso immobile sul letto, e questo costrinse la piccola Silvia a crescere più in fretta del dovuto. Un altro momento difficile fu quando nacquero i gemelli. Tutti temevano che Elena avrebbe perso il controllo, magari scaraventando i bambini a terra e ubriacandosi, ma grazie al sostegno del tribunale e alla forza di quella donna, tutto andò per il meglio. Elena, col tempo, mostrava ancora segni di trauma, ma riuscirono a cavarsela.

Silvia, guardando la risacca del mare sabbioso, si mise a piangere. Si rese conto che ne aveva passate di peggiori. Non poteva stare male per un ragazzo, come lo avrebbe chiamato Marica, e per la scuola. Perché, poi, odiava la scuola e Nicolas non lo amava più. Lo sapeva. Non stava male per queste cose fisiche, ma più per ciò che rappresentavano nella sua vita.

Silvia aveva ancora molti problemi a definirsi: chi era? Se lo chiedeva spesso e trovò la risposta davanti a sé. Silvia era il mare. Sì, proprio il mare. Era imprevedibile, cambiava facilmente e, quando si arrabbiava, causava disastri. Ma la cosa bella del mare è che, non importa cosa succeda, ti accoglie sempre. Silvia era sempre stata così, solo che il mondo la obbligava a diventare un sasso: duro, freddo e manipolabile. Lei non voleva diventare così. Voleva ancora credere nelle persone.

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