Capitolo 5
Quella mattina era diversa dalle altre.
La casa si svegliò con il pianto dei gemelli. Marica abbracciò forte Silvia e, salutando con un sorriso Elena, si diresse verso l'uscita. Erano da poco passate le nove e già regnava il caos: giocattoli sparsi ovunque, la madre esausta ai fornelli e Silvia alle prese con la sua emotività.
Era un tumulto, come sempre, e chiunque avesse incrociato il suo sguardo l'avrebbe notato. Chissà cosa avrebbe pensato la psicologa di Silvia, Sandra Daddari. Era stata nominata dal tribunale, ma svolgeva il suo lavoro con dedizione. Manteneva in equilibrio quel fragile alberello che era Silvia.
Dopo essersi vestita, aver mangiato un pezzetto di pane tostato e salutato i fratellini, Silvia uscì di casa con il suo solito zaino in spalla. Non lo lasciava mai.
Prese la solita corriera e percorse la solita strada verso lo studio. Amava la routine. Era innamorata della parola "solito/a" perché le dava sicurezza: significava sapere cosa sarebbe successo nell'immediato futuro.
Il sole era sorto da poco e l'asfalto ancora bagnato rifletteva la sua luce. Faceva freschino, ma il calore del grande pallone giallo scaldava l'aria quel tanto che bastava per rendere piacevole la passeggiata. Arrivò poco dopo allo studio della dottoressa Daddari. Salì le scale e si accomodò in sala d'attesa.
L'ambiente era di buon gusto, forse troppo moderno per Silvia, ma gradevole. Due poltroncine in velluto color arancio, un tavolino in vetro con una base laminata dalla forma simile a un triangolo scaleno e un enorme tappeto in stile arabo. Le luci soffuse creavano un'atmosfera accogliente, mentre la carta da parati, di un blu intenso con decorazioni fiorentine, conferiva un tocco sofisticato. Troppo sofisticato per Silvia. Lei era abituata a un divano vecchio di vent'anni, un tavolino in legno costruito a mano da un parente con cui non si parlava più e un fornello elettrico che si accendeva con l'accendino.
La psicologa aprì la porta che divideva il suo ufficio dalla piccola sala d'attesa.
«Silvia?»
La ragazza si alzò ed entrò in un altro ambiente altrettanto moderno. Due sedie dello stesso colore di quelle della sala d'attesa e scaffali ricolmi di libri e fascicoli. Probabilmente erano le cartelle dei ragazzi seguiti su disposizione del tribunale, accanto a testi di psicologia e psicoterapia.
Silvia si sedette, appoggiò lo zaino a terra vicino a sé e fece un grosso respiro. Quegli incontri le erano stati imposti dal tribunale dei minori: una volta al mese doveva vedere la psicologa designata.
«Come stai?» le chiese la dottoressa, accavallando le gambe.
Era una donna giovane, con gambe lunghe e fianchi stretti. I capelli, tagliati a caschetto, avevano una sfumatura simile all'albicocca. Indossava occhiali rettangolari solo quando necessario e, come sempre, aveva con sé carta e penna per annotare tutto ciò che avrebbe poi riferito al procuratore.
«Bene, credo. Non esiste una vera definizione o risposta a questa domanda.»
«Prima mi dici bene, poi aggiungi questa frase... Cos'è successo dall'ultima volta che ci siamo viste?»
«Ho finito definitivamente la scuola e mi sono lasciata con Nicolas» dichiarò Silvia di getto.
«Un momento. Parla con calma, va bene? Cominciamo da Nicolas. Cos'è successo con lui?»
«Si è presentato il pomeriggio dell'ultimo giorno di scuola. L'avevo invitato a entrare perché... insomma, era quello che facevamo sempre, no?» Immersa nei ricordi, Silvia iniziò a piangere. «Si è fermato sulla soglia e mi ha detto che non mi voleva più nella sua vita. Ha detto che gli faccio schifo...»
«Ha usato queste parole?»
«No, ma...»
«Ma cosa?» la incalzò la dottoressa.
«Me l'ha fatto intendere! Mi ha lasciata, ma... guarda...» L'erbetta tirò fuori il telefono, aprì Instagram e andò sul profilo di lui. «Ha ancora tutte le mie foto e... e... No. Aspetta. Ha pubblicato uno stato in cui dice di essere single. Come può? L'ha postato alle tre di notte! Non ci credo!»
«Silvia, calmati. Prima di tutto, non state più insieme e quindi ha diritto di esprimere il suo stato sentimentale. Se l'ha fatto alle tre di notte, non è più un problema tuo.»
«Invece lo è!» ribatté la ragazza, irritata. «Mi sembra una mancanza di rispetto! Quando stava con me andava a dormire presto, mi dava la buonanotte e si faceva sentire al mattino. Io...»
Lì si rese conto di stare esagerando. Se la stava prendendo con la persona sbagliata. O almeno, così pensava. E infatti cominciò ad attaccare se stessa.
«Mi odio. Mi odio. Mi odio. Che stupida che sono!»
«Non sei stupida, Silvia. Come abbiamo già visto, fai fatica a staccarti dal passato» dichiarò la psicologa. «Dobbiamo creare una distanza tra te e lui. Comincia a toglierlo dai social.»
«Lo farò a casa.» Non lo avrebbe mai fatto, lo sapeva bene.
«Non ci credo per niente. Ti conosco da quattro anni, Silvia. Fallo ora. Toglilo da Instagram, Facebook, Snapchat, TikTok e persino Pinterest.»
Sbuffando, Silvia eseguì e promise solennemente di non stalkerarlo più.
«È che... sono ancora così confusa. Mi sembra un sogno... Non posso far finta di niente, come se nulla fosse. Come se da un giorno all'altro non fossi più con una persona con cui ho passato quattro anni della mia vita. Una persona a cui ho raccontato tutto. Tutto.»
Aveva davvero raccontato tutto. Anche quello che era successo nel dicembre del 2017.
Aveva solo quattordici anni. Un'adolescente che aveva dovuto vedere e subire cose orribili, finché un giorno la rabbia esplose e reagì.
Silvia non aveva mai avuto un'infanzia normale. Grazie al primo anno di psicoterapia, era riuscita a capirlo.
Era nata per errore. Così le avevano sempre detto.
L'avevano chiamata Silvia, registrandola all'anagrafe con quel nome. Ma per suo padre era sempre stata solo un errore.
Un uomo indegno di essere chiamato padre. Aveva messo incinta una ragazza di venticinque anni, di buona famiglia, rovinandole la vita.
Ma la storia era molto più complicata di così. Si conobbero nel...
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