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capitolo 12

Sembrava perfetto: ancora non stavano insieme, ma lei ne era felice, perché sentiva dentro di sé qualcosa che non aveva mai provato in vita sua. Si svegliava con il sorriso.

Era così nei primi giorni della relazione, forse un mese. Lei non se ne accorgeva, non le importava, perché per la prima volta qualcuno aveva espressamente detto di averla scelta tra miliardi di persone. Non qualcun altro, lei. Proprio lei, che amava le abitudini e stare per conto suo. Quella era la sua opportunità per diventare l'eroina della sua vita.

Erano passati pochi giorni da quando lui le aveva detto di amarla, pochi giorni da quel gesto romantico accompagnato da una canzone di Pezzali. Messaggiavano sempre. All'inizio Sandro rispondeva dopo due o tre minuti, poi ci metteva di più. Non che fosse occupato. Lo faceva per ripicca: Silvia lavorava e non riusciva a stare al telefono. A lui questa cosa iniziava a non andare a genio, ma lei non lo capiva.

Un mercoledì di settembre, lui le scrisse: "Adesso non mi senti per un po', devo fare un disegno a Veronica che sta venendo a casa". Lei vide il messaggio, ma non riuscì a rispondergli. Così, tra una spazzata e l'altra, iniziò a parlare con la sua amica Rebecca.

«Secondo te è normale che si scriva con tante ragazze?» «Chi, Sandro? Te lo avevo detto che era circondato da ragazze.» «Mi avevi detto che era un donnaiolo!» «Sì, è la stessa cosa. Perché questa domanda? Non sei sua amica?» ammiccò Rebecca con allusione. «Ha detto di amarmi, ma...» «Ma cosa? Sapevo che eravate destinati! Che belli che siete!»

L'amica parrucchiera era così entusiasta che Silvia non volle continuare il discorso con lei e riprese a parlare con Marica.

«Ho iniziato a pensare che, se si scrive con così tante ragazze, magari ora dice di amarmi, ma scrivendo in modo normale con altre, il sentimento potrebbe iniziare a svanire» raccontò Silvia al telefono, durante la sua breve pausa pranzo, mentre mangiava un panino. «E se venissi buttata via?» «Ma ti pare?» «Quand'è che cresco? Sembro una bambina di dodici anni, dai. Lo so, sono molto paranoica, ma al tempo stesso cerco di essere razionale. Penso che nessuno il cui sentimento stia svanendo mi chiamerebbe in piena notte, insistendo per sapere come sto, per sentirmi dormire e farmi sentire tranquilla. Nessuno porterebbe un toast alla Nutella dopo il lavoro perché sa che ho una pausa misera, no? Sbaglio?» «No, stai tranquilla. Sono tutte emozioni normali. Ti trovi nella stessa situazione in cui mi ero trovata io con Edo... Piano piano ho iniziato a pensare che, se fosse stato davvero come immaginavo, certe cose non le avrebbe mai fatte. La stessa cosa dovrebbe valere per te.» «Cosa dovrei fare?» «Prova a pensare a quelle cose che ha fatto e cerca, a mente fredda, di capire quali dimostrano il suo sentimento e quali no. Così facendo, vedrai che ti renderai conto che certe cose non le farebbe se non fosse davvero innamorato.» «Hai ragione. Come va con tuo cugino?» «Tutto bene. È forte come una roccia. Sono contenta di essere qui. Ho conosciuto tante nuove persone. Dovresti venire a trovarmi.» «Certo, appena posso vengo con Sandro.» «Va bene» rispose un po' confusa l'amica.

«Ora scusa, ma devo davvero andare. Ho finito la pausa.» «Sì, certo. Buon lavoro.»

Silvia tornò alla sua mansione, ma la sua mente non smetteva di rielaborare ogni dettaglio vissuto con Sandro Michelini. Non smetteva di pensare a quegli occhi color cielo, a come la scrutavano, la ammiravano e la spogliavano.

Non si era mai sentita in quel modo: le farfalle nello stomaco, i fuochi d'artificio nel petto e un calore inaspettato nel basso ventre.

Arrivò l'ora di timbrare il cartellino. Prese le sue cose nel retro, andò in bagno e, quando uscì, sentì una collega più grande, con cui non aveva particolare confidenza, dire: «È arrivato il fidanzato di Silvia».

Gli occhi della ragazza scrutarono fuori dal salone e lo videro. Solite mani in tasca e sguardo cupo. Lui era lì per lei, e questo mise fine, almeno per un po', alle sue paranoie.

«Ciao.»
«Ehi, come stai?»
«Bene, solo un po' stanca.»
«Vuoi andare a casa?» chiese lui, cercando di mascherare il fastidio.
«No, figurati. Oggi dobbiamo vederci al parco, no?»
«Se non te la senti, ti accompagno a casa.»

Gli occhi di Silvia indugiarono per un attimo su di lui. Lo conosceva abbastanza da capire che qualcosa lo infastidiva, anche se cercava di nasconderlo. Forse era davvero stanco di tutte le sue insicurezze, forse si aspettava che lei dicesse di sì, che volesse tornare a casa e chiudersi nella sua stanza come faceva spesso.

Ma no. Quel giorno Silvia voleva essere diversa.

«No, voglio andare al parco,» ribadì, cercando di sembrare più sicura di quanto si sentisse.

Lui annuì appena, infilandosi le mani in tasca. In silenzio, iniziarono a camminare.

Il tragitto fino al parco non era lungo, ma a Silvia sembrò infinito. Ogni passo era accompagnato da una domanda che le rimbombava nella testa: Ce l'ha con me? È stanco di me? Avrebbe voluto chiederglielo, ma temeva la risposta.

Si passò una mano tra i capelli e sospirò. «Sei sicuro che vada tutto bene?»

Lui si voltò appena, le lanciò un'occhiata veloce e si strinse nelle spalle. «Sì, perché?»

Silvia si morse il labbro. Perché ho sempre la sensazione che tu voglia essere altrove. Perché ho paura che, un giorno, te ne andrai davvero.

«Niente. Solo... sei un po' strano.»

Lui ridacchiò, ma senza convinzione. «Sono sempre strano.»

Silvia abbassò lo sguardo. Aveva ragione. Era sempre stato così: sfuggente, pieno di ombre che lei non riusciva a illuminare. Eppure, nonostante tutto, era lì. È questo che conta, no?

Arrivati al parco, si sedettero su una panchina. Lui giocherellava con il bordo della felpa, lei con il lembo della sua manica. Il silenzio tra loro non era imbarazzante, ma carico di qualcosa che Silvia non riusciva a definire.

Alla fine, fu lui a parlare. «A cosa stai pensando?»

Silvia sorrise appena. «A niente.»

Bugia. Ma certe verità erano troppo pesanti per essere dette.

Lui la fissò per un attimo, come se sapesse benissimo che stava mentendo. Poi distolse lo sguardo e si lasciò andare contro lo schienale della panchina, espirando piano.

Silvia abbassò gli occhi sulle mani intrecciate in grembo. Il vento le solleticava la pelle, facendole venire la pelle d'oca, ma non era solo il freddo. Era lui. Era il modo in cui sembrava sempre sul punto di dire qualcosa e poi taceva.

Non resistette più.

«Mi dici cosa c'è?» La sua voce uscì più incerta di quanto avrebbe voluto.

Lui si passò una mano tra i capelli. «E tu? Mi dici cosa c'è?»

Silvia spalancò gli occhi. Non se l'aspettava. Non così diretto.

«Io...» si morse l'interno della guancia, cercando il coraggio che sembrava sempre mancarle. Io ho paura che un giorno tu smetta di tornare. Ho paura che un giorno tu decida che non ne vale più la pena. Che io non ne valga la pena.

Ma non disse nulla di tutto questo.

«Niente.»

Lui rise piano, ma non era una risata vera. «Sei proprio sicura?»

Silvia annuì, anche se dentro di sé urlava il contrario.

Per un po', nessuno parlò. Il parco era tranquillo, solo qualche bambino che correva lontano, le foglie che si muovevano piano sotto il vento. E loro due, con tutto quello che non si stavano dicendo.

Poi lui parlò, a bassa voce, quasi come se stesse parlando a sé stesso.

«A volte ho l'impressione che tu abbia sempre paura che io me ne vada.»

Silvia si irrigidì. Il cuore le saltò un battito.

Lui non la guardava, continuava a osservare un punto indefinito davanti a sé, le mani intrecciate tra loro.

«Non lo so,» mormorò lei, la gola improvvisamente secca. «Forse perché ho visto tante persone farlo.»

Lui si girò verso di lei, gli occhi scuri che la scrutavano con un'intensità che la fece rabbrividire.

«Io non sono loro.»

Silvia inspirò piano.

Quella frase avrebbe dovuto rassicurarla. Ma non lo fece.

Perché, per quanto lui fosse lì in quel momento, per quanto le dicesse quelle parole, una parte di lei non riusciva a crederci davvero.

E questo la spaventava più di tutto.

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