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Capitolo 7: 𝘘𝘶𝘦𝘴𝘵𝘰 è 𝘪𝘭 𝘮𝘪𝘰 𝘮𝘦𝘵𝘰𝘥𝘰

L'arancio del cielo era sfumato da cumuli bianchi così belli che nemmeno la bellezza del quadro di San Giorgio Maggiore al crepuscolo di Claude Monet poteva rendergli giustizia. La lancetta più piccola dell'orologio della cucina scoccò sul numero otto e quel semplice ticchettio rimbombò per tutta la casa come se fosse un tamburo medievale. Come le aveva scritto in un biglietto, la madre del fiorellino bianco non riuscì a tornare a casa per cena, ma arrivò in tempo per prendere sua figlia e dirigersi verso l'abitazione della nuova psicologa. Si trovava in un piccolo edificio dello stesso colore del legno, poco dietro la torre del castello di Herbstenburg, e aveva solo un piano. Madre e figlia erano nervose: chissà come sarebbe stata la nuova psicologa.

Senza dubbio non sarebbe stata come Ida, l'anziana terapeuta con il nome di una guerriera, ma per quanto la madre del fiorellino bianco cercasse di essere propositiva, non ci riusciva.

Ognuna delle due donne moriva d'ansia a proprio modo e ciò si acuì nel momento in cui Diana spense il motore.

La donna suonò il campanello, sul quale Orchidea non vide il cognome inciso e nascosto dall'ombra, e dopo alcuni secondi di silenzio una donna alta venne ad aprire.

«Signora Fiore, Orchidea, benvenute», disse con voce metallica la sconosciuta. «Accomodatevi». Tutto sembrava surreale e distaccato.

Madre e figlia seguirono l'estranea fino a un piccolo studio alla sinistra della porta d'ingresso. In questo modo Orchidea non ebbe modo di curiosare in giro per casa, ma anziché demoralizzarsi iniziò a osservare la piccola stanza in cui erano entrate.

Le pareti, di un blu ospedale, erano piene di quadri contenenti certificati e diplomi di studio, mentre sul lato nord c'era una scrivania in legno d'acero su cui erano ordinate diverse penne e taccuini. Nell'angolo nord-est si trovava uno scaffale di metallo degno di una qualsiasi struttura medica e due poltrone scure che davano l'idea di essere molto scomode. Di questo, il fiorellino bianco ebbe la conferma non appena si sedette su una di esse.

«Avete trovato la casa facilmente?» chiese la donna, scostandosi dalle spalle i capelli color caffè.

«Sì, le indicazioni del sindaco sono state piuttosto chiare», affermò Diana, intimorita dallo sguardo fisso della donna, dello stesso colore del petrolio.

«Bene», mormorò la donna. «Mi chiamo Katrin e, Orchidea, sarò il tuo bastone lungo tutto il cammino, per tutto il tempo di cui avrai bisogno».

Una strana sensazione di fastidio fece rabbrividire il fiorellino bianco; ciononostante, rimase in silenzio ad ascoltare.

«Oggi tua madre assisterà alla seduta per la prima mezz'ora, dopodiché ci vedremo il venerdì sera, proprio come facevi con la tua vecchia terapeuta», affermò Katrin. «Va bene?»

«Mh», borbottò a testa china il fiorellino bianco.

Non faceva una seduta con la madre da anni e ciò la mise a disagio più di quanto già non fosse. Avrebbe dovuto modulare le parole con maggiore attenzione per non ferire quella docile donna dall'aspetto robusto che l'aveva messa al mondo.

«Allora... Iniziamo», disse a quest'ultima la nuova psicologa. «Orchidea è nata il 10 dicembre del 2003?»

«Sì», annuì Diana Fiore.

«È nata con qualche problema in particolare?»

«Ha ereditato dalla madre del padre un albinismo totale», ammise la donna.

«E con la crescita ha avvertito qualche sintomo?»

Le due donne parlavano come se il soggetto della loro conversazione non fosse presente e ciò irritò ancor di più il fiorellino bianco.

Perché fa tutte queste domande? pensò Orchidea a braccia conserte.

«Da piccola ha avuto qualche problema con la vista, che però si è risolto grazie al tempo e a delle gocce. Fin dalla nascita soffre di fotofobia e di canizie», spiegò con fermezza la donna.

«Quindi niente nistagmo?» Diana scosse la testa. «Eritemi?»

«Ah, sì! Sulle braccia, da qualche anno...» bofonchiò la donna dall'aspetto robusto e gli occhi color smeraldo. Eritemi scaturiti dal rapido calo di peso del fiorellino bianco...

«Perciò, a parte l'ipersensibilità alla luce, la decolorazione dei capelli e dei peli e gli eritemi, non ha alcun tipo di disturbo?» esortò Katrin, la nuova terapeuta dai capelli color caffè e gli occhi color petrolio.

«No», ribatté Diana.

«Prende qualche pastiglia per questa malattia? E per altre?»

«No. Solo quelle che le ha prescritto Ida qualche giorno fa».

«La data in cui ha tentato il suicidio?» sospirò la donna dietro la scrivania, con una cartelletta in mano.

Posta in modo così tranquillo, quasi impassibile, quella domanda prese in contropiede le due donne. Diana sgranò gli occhi e si tirò delle pellicine, mentre al suo fianco il fiorellino bianco si sentì ribollire di rabbia. «Perché sta chiedendo queste cose se ha già la mia cartella in mano?» sbottò Orchidea, ricevendo uno sguardo ammonitore dalla madre.

«Perché volevo vedere se saresti intervenuta tu. Ciao Orchidea, come stai?» ridacchiò Katrin con una strana scintilla bianca nel petrolio dei suoi occhi.

Si sentì presa in giro: con che coraggio ha osato dire quelle cose con tanta leggerezza...

«Visto che sono qui, come creda che io stia?» replicò concitata la ragazza con la carnagione estremamente chiara.

«Orchidea!» la riprese Diana, in imbarazzo. «Credo sia ora che io aspetti fuori...»

«No, aspetti... Il peso. Quand'è stata l'ultima volta che ti sei pesata?» domandò la terapeuta dai capelli color caffè.

«Due settimane fa», rispose la madre, poiché il fiorellino bianco era impegnato su due fronti: da una parte sentiva la mancanza di Ida, la sua vecchia psicologa con il nome di una guerriera, mentre dall'altra il suo cervello continuava a timbrare la parola odio sul visino ovale della nuova analista. In effetti, quell'incontro era solo l'inizio di un qualcosa che avrebbe cambiato la vita ai cittadini di Dobbiaco.

«Faremo così: continuerai a seguire la cura che hai iniziato qualche giorno fa e ti peserai qui in studio ogni due settimane, ma cambierò strategia nei colloqui. Va bene?» esortò Katrin firmando dei fogli.

«Adesso vado», mugugnò Diana uscendo dalla stanza con una velocità micidiale, mentre il fiorellino bianco, in preda all'ansia, affondò nella poltrona di pelle.

«Finalmente siamo sole», affermò la terapeuta dai capelli color caffè. «Orchidea, non ti piace parlare dei tuoi sentimenti, vero? Men che meno in presenza di tua madre... Non vuoi farla soffrire».

«Nessuno vorrebbe far soffrire la propria madre», borbottò la ragazza con un gioco di parole per nome.

«Mai dire mai», mormorò Katrin. «Vorrei che mi raccontassi un po' di te: che cosa ti piace fare, i tuoi vecchi amici...»

«Io non ho amici», ribatté Orchidea.

«E che cosa pensi dell'amicizia?» chiese pacatamente la donna seduta dietro la scrivania.

«Non può semplicemente osservarmi e dirmi il suo pensiero?» replicò impaziente la ragazza.

«Cosicché tu possa tornare a casa e ignorare il tutto? Rispondi alla mia domanda», rimandò Katrin.

«Non ci credo», brontolò il fiorellino bianco.

«Nessuno nasce senza la convinzione dell'amicizia. Molto probabilmente hai vissuto una vicenda traumatica che ti ha fatto smettere di crederci. Qual è questa vicenda?» la spronò la donna.

«Non c'è!» sbottò Orchidea, irrigidendosi sulla poltrona.

«E chi sarebbe Marco Tassoni?» La ragazza il cui nome era quello di un fiore cercò di non reagire urlandosi nella testa Non muoverti! Non rispondere! Rimani impassibile!, ma il suo corpo la tradì: i muscoli si irrigidirono, il respiro si fece corto, gli occhi si abbassarono di colpo e la bocca si storse. «Chi è Marco Tassoni?» ripeté la donna.

«È una persona», ribatté Orchidea, ricevendo solo un insistente sguardo di disappunto che la spinse ad aggiungere con ira nella voce: «Era il mio vicino di casa e...» Non riusciva a respirare. Alzava e abbassava le spalle con foga e i suoi polmoni seguivano i movimenti del corpo. Katrin, la psicologa, attese la fine dell'iperventilazione e per tutto il tempo osservò la ragazza con grande attenzione – Orchidea era piuttosto brava a gestirsi, vista la grande esperienza che aveva – finché il fiorellino bianco non decise di sputare il rospo, raccontando a quella sconosciuta quella storia che si era trasformata in un ricordo tuttavia riaffiorato negli ultimi giorni. Con quelle parole piene di sofferenza pronunciate dalla voce flebile del fiorellino bianco, tutto tornò a galla.

Marco Tassoni era il classico vicino di casa. Si era appena trasferito da Milano e Orchidea Fiore fu la prima persona con cui parlò. Era il 2012 e lui era un anno più grande di lei, ma ciò non impedì la nascita di un'amicizia tra i due durante il periodo estivo.

Aveva folti capelli bruni e occhi verdi come l'erba. Era leggermente più alto della media, ma a lui non sembrava importare.

Marco Tassoni passava tutti i pomeriggi con la ragazza dal viso pallido e per tutto il mese di agosto si dimostrarono più uniti che mai. Per la giovane Orchidea, che già all'epoca non se la passava bene, quel semplice rapporto di amicizia divenne un'ancora. Agli occhi altrui poteva sembrare una cosa insignificante, ma fu un modo per non cadere nel baratro degli insulti che riceveva già in quarta elementare.

Tuttavia, ciò che sembrava essere la cosa più bella della sua vita si trasformò in poco più di un anno, quando a lui toccò andare alle medie, in qualcosa che gliela peggiorò. Fu in quel momento che Orchidea Fiore smise di credere nell'amicizia.

Era l'8 giugno. Un giorno importante, perché era la fine della scuola e il compleanno del suo amico più caro. Fortunatamente quel giorno la classe del fiorellino bianco usciva a mezzogiorno, così, saltellando con impazienza per l'intero tragitto, accompagnata dalla madre, decise di fargli una sorpresa davanti a scuola. Si mise proprio di fronte al cancello e attese quella campanella che, anziché sancire la conclusione delle lezioni, preannunciava la fine delle illusioni di una bambina di dieci anni.

Lui arrivò, sgranò gli occhi con incredulità per qualche secondo e accennò un sorriso, fin quando un bambino gli diede una pacca sulla spalla e disse: «Ehi, grullo. Adesso anche le bambine ti fanno la corte?»

Marco Tassoni storse la bocca e in un battito di ciglia quei suoi grandi occhi verdi come l'erba divennero freddi come il ghiaccio. «Nah. È una bambina a cui faccio da babysitter. Ha un'ossessione per me».

«Ossessione? Ti perseguita! Guardala, sembra un fantasma», sghignazzò il suo amico e Marco Tassoni fece lo stesso.

Quello era troppo per chiunque, figuriamoci per una bambina di dieci anni...

«Ma non è questo il movente del tentato suicidio... E invece qui sulla tua cartella continua a esserci scritto "Marco Tassoni" nella categoria del tentato suicidio», dichiarò con voce metallica Katrin.

«Puoi smetterla di dire suicidio?» mugugnò irritata la diciassettenne.

«Perché? Ti dà fastidio che io dica suicidio?» la stuzzicò la psicologa.

«Sì», inspirò il fiorellino bianco.

«Perché. Hai. Provato. A. Suicidarti?» sibilò con voce grave la donna dietro alla scrivania.

«Perché mi stai riempiendo di domande se è tutto scritto nella mia cartella?» chiese Orchidea, sentendosi la gola secca.

Avrebbe pianto, se lo sentiva.

«Perché?» ribadì seria Katrin, fissando il corpo minuto della ragazza con quei suoi grandi occhi color petrolio.

«Perché avevo rivisto Marco» confessò il fiorellino bianco.

«Dove?»

«Era il mio primo giorno di scuola. Le superiori. Pensavo fossero il mio punto di svolta. Non sarei più stata la piccola bambina che veniva presa in giro. In fondo le persone sarebbero state più mature. Era questo che pensavo». Tirò su con il naso. «Ero davvero entusiasta: arrivai in classe e le lezioni erano bellissime. Due ragazze mi avevano persino invitato fuori con loro durante l'intervallo». Fece una pausa in cui cerco di prendere aria, dopodiché sempre con voce flebile, continuò: «Era un piano ben escogitato. Al mio ritorno in classe, notai davvero tanta gente davanti alla porta e non appena ne varcai l'entrata... vidi... vidi... vidi... il mio banco pieno di terra e fiori. Sentivo addirittura l'odore del concime...»

«Chi era stato?» domandò interessata l'analista.

«I miei compagni e quelli del secondo anno. Non ricordo bene le loro facce, ma ancora oggi ne riconosco una...» Si interruppe con il cuore in gola.

«Quella di Marco Tassoni», disse Katrin. «Che cosa ricordi di quel giorno? Come ti sentivi?»

«Come se nessuno mi volesse bene... Come se la mia nascita avesse fatto del male a qualcuno e...» singhiozzò Orchidea, passandosi le mani sulle spesse calze nere.

«Che cosa ricordi? Qualcosa di concreto... che è accaduto quel giorno», esortò la psicologa dai capelli color caffè.

«Ricordo l'odore della terra e... il modo in cui ridevano di me», ammise a testa bassa il fiorellino bianco.

«Tu credi davvero che nessuno ti voglia bene?» chiese la terapeuta.

Quella domanda spiazzò totalmente la docile ragazza seduta su una delle poltrone scure dell'ufficio di Katrin.

«Che ne dici di tua madre? Neanche lei ti vuole bene?» insisté la donna.

«Non voglio parlare di lei», mormorò il fiorellino bianco.

«Perché?»

«Perché non faccio altro che deluderla e ferirla», rispose con voce gutturale Orchidea.

«Perché sei qui, Orchidea?» domandò la terapeuta. «Qui a Dobbiaco, intendo».

«Per mia mamma», confessò tristemente Orchidea.

«E non credi che tua mamma l'abbia fatto per te, invece?»

Sì, disse nella mente. Era consapevole del fatto che Diana Fiore avesse abbandonato il lavoro, gli amici, la sua casa e i suoi ricordi per permettere alla figlia di guarire.

«Per oggi credo che possa bastare», annunciò Katrin chiudendo la cartella piena di fogli.

Il fiorellino bianco annuì. Si alzò e, poco prima di uscire dallo studio, disse voltando il capo: «Farà sempre così male?»

La psicologa dalla folta chioma color caffè e gli occhi neri come il petrolio alzò la testa e ribatté con voce pacata: «Questo è il mio metodo».

Spazio autrice

Ciao ragazzi e ragazze!

Come state oggi?

Ecco a voi un nuovo capitolo. Questa volta non l'ho diviso, perché ho reputato che fosse meglio leggerlo tutto d'un fiato.

Con la scrittura sono arrivata a finire il capitolo 9, ma sono ancora in modalità work in progress.

Come lo avete trovato questo capitolo? Vi anticipo che il prossimo sarà molto intenso per voi, soprattutto per chi ha provato quel dolore sulla pelle, ma aggiungo anche il mio consiglio e commento: non siete soli e non lo sarete mai, perché se avete bisogno, potete contattarmi su Instagram molto volentieri.

Riempitemi di commenti! Voglio sapere le vostre opinioni, purché siano espresse in modo educato.

Grazie per aver letto questo capitolo e se ti piace, non dimenticarti di mettere una ⭐.

Sono sempre ben gradite.

Off. Topics. Non so quanto possa interessarvi, ma ve lo comunico lo stesso. La mia vita (grazie al 2020 o al coronavirus) è cambiata e una parte stabile che era presente da circa quattro anni nella mia vita è andata via per sempre. Questa si occupava anche di leggere le mie storie e i miei capitoli in anteprima, correggendoli. Non mi dilungo molto, perché è una ferita aperta che comprendo. Perciò concludo questo piccolo pezzo di autocommiserazione con un invito a tutti di segnalarmi errori o incongruenze all'interno della storia da qui in poi. Vi ringrazio tutti per la collaborazione. Love you.

Un bacio 🌸

Checca B🌻

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