Tempesta
Capitolo otto
Tempesta
Il gattino non la smetteva di muoversi.
Si arrampicava sulle sue braccia come un'edera, pizzicandogli la pelle con le piccole punte delle sue unghiette. Aveva un volto contratto, dipinto di sofferenza, con quel pelo bianco e arruffato che era algido ed etereo: sembrava che qualcuno avesse rubato delle nuvole soffici dal cielo e le avesse ricamate sul corpo gracile di quella creatura, decorandole con due smeraldi azzurri bucati da spilli neri di pupille.
«Shh, ti prego, fa' silenzio» lo supplicò Timothy, mentre i piagnistei dell'animale riecheggiavano fra le pareti della casa. Il micio lo ignorò, parve non ascoltarlo neanche, non badava nemmeno alle braccia con cui Timmy cercava di calmarlo e di cullarlo; si aggrappava, invece, sul suo petto, sui gomiti, tentando di scavalcare la barriera degli arti per sporgersi verso ciò che aveva davanti: una donna giacente su un divano rovinato.
Era assurdo il modo viscerale con cui quel piccolo animale tentava di ricongiungersi alla donna che lo aveva finora solo disprezzato.
I suoi guaiti di dolore, quasi umani, sotto molti aspetti, rimbalzavano fra le pareti; erano il canto di un bambino che richiamava a sé la madre, i dolci conforti che potevano essergli dati solo da mani calde e delicate, da cui venir carezzati prima di addormentarsi.
Ma quella non era una favola e la vita dentro cui loro due si erano intrufolati non era normale. Non lo era la donna che viveva in quel luogo, non la spazzatura che gonfiava di putrido odore l'aria e nemmeno il dormire funereo di Miss Morrison.
Lei giaceva su quel divano, un corpo di ossa e di carne svuotato, con il capo abbandonato sul cuscino interno. Aveva i polsi congiunti, incrociati e legati fra di loro, quasi fossero stati bucati dallo stesso chiodo invisibile che li teneva incollati l'uno all'altro.
Miss Morrison era silenziosa nei suoi respiri, non emetteva rumori, e se qualcuno l'avesse scorta da lontano avrebbe potuto persino pensare di star guardando una sposa innamoratasi della morte.
Con le pupille dilatate, Timothy osservò il corpo che dormiva a pochi metri da lui, lo ridipinse nei suoi occhi, tratteggiandone i contorni con la matita dello sguardo; le punteggiò le lentiggini sul viso – piccoli spruzzi di fragole -, le ricamò le ciocche sgualcite su quel viso pallido e asciutto, analizzandone i filamenti ramati che si intrecciavano fra di loro fino a creare una ragnatela di capelli.
La pelle chiara, quasi trasparente, gli apparve come la più preziosa delle porcellane, sporcata e rovinata dalla noncuranza della sua proprietaria. Scorse la vibrazione spaventata delle palpebre chiuse e la loro decorazione di ciglia che, tremule, ondeggiarono come steli di grano arrossati dallo sguardo del sole.
Miss Morrison non era bella, non era seducente, conservava troppa trascuratezza e odio in quel corpo vissuto per poter apparire in qualche modo affascinante, ma in quelle labbra gonfie di carne incrostata e in quel naso all'insù tempestato da costellazioni di lentiggini risiedeva una stella avvizzita, macchiata dall'inchiostro della vita, che sarebbe potuta diventare splendente se solo qualcuno l'avesse ripulita.
Il gatto interruppe quello schizzo di sguardo, quell'intimità in cui lui era diventato pittore e Edith Morrison modella da ritrarre, con un altro grido; Timmy sussultò di nuovo, tentò di trattenerlo mentre questo, disperato, cercava di arrampicarsi sulle sue braccia per scappare dalla prigione.
«Ti prego» lo scongiurò di nuovo il ragazzo, «ti prego, se svegli Miss Morrison...»
Il gatto non lo ascoltò, segno evidente che aveva già fatto suo l'atteggiamento di Miss Morrison di fregarsene altamente di ciò che diceva Timmy. Con l'unghia, invece, gli bucò il polso, lo colpì e ferì improvvisamente sulla pelle scoperta; il dolore fu simile a quello di un sottile ago che incontrava la carne, ma il suo arrivo inaspettato portò Timmy a far cedere le braccia. A quel punto, purtroppo per lui, giunse la fine.
Il micetto balzò a terra, aggraziato, cadde su una pila di vestiti con l'atterraggio di una piuma sospinta dal vento; si muoveva come unico punto di luce nelle tenebre di quella dimora. Camminava quasi librandosi in aria, scavalcando le montagne di spazzatura; era agile, pur essendo così piccolino, i muscoli sotto il pelo si contraevano intricati e fascinosi grazie ai meccanismi con cui balzava da una parte all'altra senza far rumore, per poi giungere, finalmente, al bracciolo del divano.
«Ehi, piccolino» sussurrò alla fine, mentre il sudore dilagava sulla sua fronte. Il micio roteò lentamente lo sguardo e lo osservò mentre Timmy tentava di avvicinarsi a lui, a passo felpato. «Perché non vieni qui? Vuoi qualcosa da mangiare?»
Gli rispose con un unico, semplice sbuffo, che paralizzò il ragazzo sul pavimento. In quegli occhi così chiari e animaleschi c'era una luce viva, ardente, un calore che scioglieva la durezza degli zaffiri per trasformarla in purezza dell'acqua più limpida.
Timothy non parlò, non riuscì a farlo, qualcosa gli impedì di richiamare ancora la creatura.
C'era incanto e meraviglia in quel piccolo corpicino avvolto dalle nuvole, e amore, tanto amore; così profondo, intenso e puro che il ragazzo non trovò più il coraggio per fermarlo. Non ne fu in grado: il fragile bambino stava ricercando la sua fragile mamma, il calore che solo lei poteva donargli. Nessuno, nemmeno Timmy, avrebbe mai potuto avere la forza di interrompere quell'attimo di magia.
Il gattino si mosse con delicatezza, si librava sul divano con passo silenzioso, affondando le zampette nella morbidezza della pelle nera. Lento, guardingo, andò avanti, un passo muto alla volta. Sgusciò come serpente lungo il corpo assopito della donna, per poi arricciarsi e rinchiudersi in palla di luce sopra il petto di lei, un luogo in cui avrebbe potuto ascoltare il suo battito e respiro, così da addormentarsi tranquillo.
Quando leccò il viso di Miss Morrison, con quella piccola lingua che tentava di pulire le macchie di sporco incollate alle guance, Timothy percepì una dolorosa puntura al petto; avrebbe voluto fotografare quel momento, immortalarlo in un attimo che il tempo non avrebbe annebbiato, incastrarlo nei contorni di un foglio e lasciarlo lì, intrappolato nella pagina. Così, dopo, avrebbe potuto mostrarlo a Miss Morrison, sostituire la pazzia nei suoi occhi con l'amore che aveva ricevuto, mentre dormiva, da una creatura che era spezzata come lei.
Forse, allora, avrebbe potuto vederla sorridere.
Si vergognava di quei pensieri, erano motivo di imbarazzo per lui; detestava da sempre la preoccupazione che riservava agli altri, perché sapeva, dentro di sé, che sarebbe stata comunque inutile. Eppure nei suoi occhi non poteva far altro che immaginare quelle labbra venir calcate da un sorriso, scolpite da quella curva sollevata che ricordava lo spicchio di un'arancia.
Miss Morrison era un raggio di sole che si stava spegnendo e lui avrebbe voluto scoprire la bellezza che nascondeva in sé, se solo si fosse concessa un po' di amore.
Era ormai evidente ai suoi occhi che quella donna aveva qualcosa che non andava. Lo aveva capito sin da subito, dal loro primo incontro, e avere a che fare con la sua casa non aveva fatto altro che confermare i suoi dubbi. Miss Morrison non stava bene, stava marcendo proprio come la sua dimora, divorata da un dolore che Timothy non conocesceva e che la masticava, riempendole il corpo come tumore maligno.
Quei pensieri nefasti, così stupidi e ingiusti nei suoi stessi confronti, portarono Timothy a rabbrividire. Era difficile assistere allo spegnersi di una fiaccola traballante con la consapevolezza di non poter far nulla per poterla riaccendere; ma lui, che era solo uno sconosciuto, cosa avrebbe potuto fare? Non poteva neanche chiamarla per nome, lei non voleva nemmeno pronunciare il suo, perciò perché avrebbe dovuto sacrificarsi?
Non si può salvare chi non vuol esser salvato.
Alla fine, cedette. Diede un ultimo sguardo al quadro magnifico che aveva davanti, osservò il gatto che dormiva, sorridente, sul petto della donna che più amava. Miss Morrison non avrebbe apprezzato, probabilmente, e forse lo avrebbe licenziato per aver permesso al micio di avvicinarsi così tanto a lei, ma Timothy aveva ormai capito che mai avrebbe trovato il coraggio di separarli: erano uniti dentro, intrecciati insieme, nessuna mano sarebbe mai stata in grado di tirare il filo che li aveva cuciti.
Iniziò a lavorare, come gli era stato ordinato, più per non pensare a ciò che aveva di fronte a sé che per i soldi che tanto desiderava. L'aria era consumata, quasi fumogena, e a ogni boccata lui si trovava a respirare acredine mista a dolore. Proprio lì, in quella dimora abbandonata, si poteva percepire il fantasma di una vita che si era spenta, consumata dalla fiamma dell'agonia. Le pareti trasudavano ira e abbandono, nei giacigli di spazzatura dormivano, assopiti per sempre, gli scarti di un'esistenza.
La modernità dei fornelli in acciaio era stata seppellita dal mare di mondezzaio e divorata dal tumore della ruggine, che ne aveva sbranato la lucentezza argentata della superficie. L'isola della cucina era ricolma di barattoli di birra e cartoni vuoti di pizza.
Guardarsi là intorno senza sentire il macigno di quell'esistenza rovinata sopra le proprie spalle gli venne faticoso, ma lui non voleva – né poteva – permettergli di demoralizzarlo. I soldi, in quel momento, erano il suo unico pensiero. Li desiderava con vigore, con una violenza che gli masticava le viscere; non era abituato a quel fuoco di trepidazione, visto il suo animo gentile e pacato, eppure, in quel momento, fu grato di possederlo: gli sarebbe servito a non venir trascinato giù negli abissi dell'oceano che portava il nome di Edith Morrison.
Trovò gli utensili per pulire accatastati dentro uno sgabuzzino, la cui porta in legno consumato si aprì scricchiolando.
Cominciò con il lavandino, lo svuotò da tutti i piatti incrostati di cibo e dai mozziconi spenti delle sigarette. Riempì tre sacchi di spazzatura in meno di venti minuti, non sembrava mai esserci fine a quella discarica: più scavava a fondo, più lerciume trovava.
In un simile momento, avrebbe voluto avere la figura di Killian accanto. Il suo amico era un idiota e questo era indubbio, ma era anche l'unico in grado di risollevare l'animo in un contesto del genere. Timmy avrebbe persino pagato, adesso, per averlo lì, accanto a lui, e sentire i suoi folli discorsi sulla meraviglia delle donne che non indossavano il reggiseno sotto la maglietta o gli stupidi ragionamenti alla "secondo te come fanno le ragazze a non palpeggiarsi continuamente le tette? Io se avessi la patata non farei altro".
Il pensiero di quegli assurdi commenti gli strappò un sorriso, alleggerendo la fiacchezza che si era contratta fra i suoi nervi.
Dopo quasi tre ore passate a sistemare ciò che poteva esser sistemato, Timothy si accorse di un dettaglio che prima aveva trascurato: non c'erano rifiuti organici. I pochi presenti in quella casa erano incrostati nelle padelle o nei piatti, ma niente di così grande o pericoloso da poter attirare la fame vorace degli insetti e degli scarafaggi. Qualcuno, là dentro, si era preoccupato di buttar fuori l'organica, lo aveva fatto con diligenza e attenzione, al punto che pure il frigo era stato svuotato.
Non poteva esser stata Miss Morrison, ormai questo era evidente. Lei non era il tipo, non si preoccupava neanche del cibo che non possedeva, figurarsi della decomposizione dei rifiuti organici. Quindi, chi altro si era preoccupato di buttarli via? Il suo fidanzato? I suoi genitori? Non ne aveva idea, gli sembrava già di per sé strano che un altro essere umano fosse a conoscenza della sua esistenza, visto l'atteggiamento della donna a voler escludersi dal mondo fino a venir seppellita in una tomba di immondizia.
Non aveva neanche del cibo per mangiare, né nella credenza né nel frigo, solo lattine di birra. E fu proprio mentre guardava quest'ultime, all'interno del refrigeratore, che Timothy poté scorgere un post-it giallo, attaccato su una delle piccole bottiglie in alluminio.
La curiosità lo divorò prima che potesse fermarsi, inducendo la mano ad aprirsi e chiudersi all'angolo del foglio, per afferrarlo. Richiuse il frigo con lentezza, con il bastone della scopa appoggiato sulla sua spalla, mentre i suoi occhi voraci andavano a soffiare sulla polvere dietro cui si nascondeva la figura misteriosa di Miss Morrison.
Bambina,
Sono venuta qui mentre dormivi in camera, sapendo che non mi avresti scoperta. So che tutto ciò ti farà adirare, ma è l'unico modo che conosco per poterti stare un po' accanto. Voglio esserti vicina, aiutarti dove posso, perché vederti crollare in questo modo è troppo per il mio cuore invecchiato. Hai bisogno di aiuto, piccola mia, non puoi continuare così. Seppellirti nel letamaio della tua vita non riporterà nessuno indietro. Ti prego, non arrenderti, non crollare, piccola mia. Non sei maledetta, non è colpa tua. Nulla di quello che è accaduto è mai stata colpa tua.
Non lasciare che le loro morti ti trascinino nella tomba. Non mi buttare fuori dalla tua vita, non scacciarmi via, io sono qui con te, a combattere insieme. Non ti lascerò svanire, non permetterò che tu ti distrugga. Io sono e sarò per sempre la tua compagna di battaglia, e per salvarti, per guarirti, sono disposta a tutto, anche a farmi odiare da te.
Ti voglio bene, pulcino,
Firmato,
Amelia
«Cosa stai facendo?»
Timothy sussultò sconvolto, beccato con le mani nel sacco, il volto si tramutò di colpo in una maschera di colpevolezza e vergogna. Sollevò lo sguardo, incupito dalla drammaticità delle parole che aveva appena letto, per rivolgerlo alla donna che, a pochi metri da lui, era appena entrata in cucina con una nuvola di capelli intrecciati in testa e due profonde mezzelune annerite sotto gli occhi. Sui suoi piedi nudi, proprio lì, vicino alla punta dei piedi, il gattino trotterellava, facendo il girotondo delle sue gambe, quasi felice di poterla riavere lì con sé, sveglia e aggressiva.
«Io... Io...» balbettò alla fine Timothy, non sapendo che dire. Si sentiva uno spione, un guardone che aveva scrutato attraverso lo spioncino il passato di una sconosciuta.
Miss Morrison inclinò la testa, quasi fosse troppo pesante perché lei riuscisse a tenerla ferma.
Non sembrava minimamente riposata.
Le tremava il mento, aveva la testa ciondolante, il collo pareva faticare nel sostenerla, quasi fosse un macigno di pietra pronto a crollare e schiantarsi per terra. L'espressione con cui lo guardava era accartocciata dalla confusione e il nervosismo, mentre solchi di pelle andavano a crearsi nella sua fronte spianata.
«Che diavolo è quel fogliettino?»
«Io... Ecco, l'ho trovato sul frigo.»
Parve sbigottita, le folti sopracciglia andarono a nascondersi sotto la frangia dei suoi capelli e le dita callose della mano tremolarono. Si mosse lenta, faticando persino a camminare, sbatteva i piedi per terra quasi fossero fatti di cemento. Timothy si sorprese che il pavimento sotto di essi non si fratturasse di fronte tutta quella rabbia, per poi sussultare di nuovo quando lei lo raggiunse e gli strappò il fogliettino dalle mani.
Non sembrò sorpresa nello scorgere quella grafia che finora Timmy non aveva mai visto, così come non sembrò sorpresa delle parole che vi lesse, incise sopra la carta gialla del post-it. Le guardò e basta, senza cambiare espressione, le nuvole grigie dei suoi occhi furono attraversate da un fulmine di emozioni intraducibili.
«Quella vecchia bastarda è stata qui» mormorò alla fine, sputando quelle parole dal solco dei denti contratti. Timothy non seppe che dire, era piuttosto sicuro che Miss Morrison si stesse rivolgendo più a se stessa che a lui. «Stronza, megera, strega! Le avevo detto di non farsi più vedere. Ha pulito? Ehi, ha pulito?»
«Cosa?»
«Ti sto chiedendo se pensi che qualcuno sia già stato qui, prima, per tentare di pulire.»
Di fronte alla rabbia che lei gli buttò addosso Timothy fu incapace di mentire: «Qualcuno ha buttato la spazzatura organica.»
Le imprecazioni che uscirono dalla bocca di Miss Morrison avrebbero fatto arrossire le orecchie persino a un marinaio: la donna sbraitò, inviperita, accartocciò il post-it dentro i palmi delle sue mani. La violenza di quel gesto era inaudita, spaventosa e tremenda. Lei inceneriva quel foglio con lo sguardo, lo umiliava piantandogli parole che erano proiettili d'ira, lo gettava a terra, lo riafferrava, lo ributtava di nuovo: gesti meccanici pieni di rovina che esplosero quando, col piede, iniziò a calpestare il povero post-it. Il gattino per terra, a quel punto, si spaventò, iniziò a guaire, a miagolare piangente, ma Miss Morrison non lo ascoltava, non sentiva più niente.
«Come diavolo ha fatto ad ottenere le chiavi della nuova serratura?» gridava, stringendosi la testa fra le mani. «Quando cazzo è entrata in casa? Quando stavo dormendo? O quando lavoravo? Maledetta, incredibile, grandissima figlia di-»
«Miss Morrison?»
Lei si bloccò all'istante, il fiato intrappolato nel petto ancora gonfio di rabbia, le dita serrate sulle ciocche distrutte dei suoi capelli. Si voltò e lo guardò, scorgendo in lui il timore che era andato a pervaderlo dal momento in cui era impazzita in quel modo.
Non parve imbarazzata, parve disperata. Quell'agonia che Timothy aveva scorto in lei il giorno del loro primo incontro si ripresentò e divorò la figura esile della donna; si cibava di lei, si nutriva del suo respiro fino a farle deturpare il volto in un'unica, angosciante e terrificante espressione di puro dolore.
«Mi dispiace.»
Timothy non seppe spiegarsi perché avesse sussurrato quelle parole, gli era venuto naturale, di fronte a quella visione. Voleva alleggerire il peso a cui quella donna stava soccombendo, donarle un po' di sollievo.
Miss Morrison deglutì così rumorosamente che il suono della saliva mentre scivolava lungo la gola si ripercosse fra le pareti della sua casa. Si passò una mano sui capelli, sollevando le ciocche della frangia e liberando la fronte da quella tenda che la ricopriva. Non lo guardò, sembrò non averne il coraggio: gli occhi di lei erano impazziti, vagavano ovunque, dappertutto, disperati e vergognosi, coperti da una montagna ghiacciata di lacrime che mai si sarebbe sciolta.
«No» dichiarò alla fine, serrando le palpebre. Riempì il suo gracile petto di aria. «Non è colpa tua, non ti scusare, ragazzino. Quella vipera è...» si fermò, la voce bloccata dentro la bocca. Sospirò di nuovo. «Non so più come liberarmi di lei.»
«La perseguita? Le dà fastidio? Perché non prova a chiamare la...»
La risatina amara con cui gli rispose fece raggelare il cuore di Timmy. «No, no, no, no! Niente di tutto questo! È una brava donna, davvero» gli spiegò lei, con una vibrazione della voce che avrebbe potuto spaccare i sassi. «Ma non ha ancora capito che con me si deve arrendere.»
Lui non seppe spiegarsi il significato di quelle parole. A cosa si riferiva, esattamente? Alla trascuratezza? Al menefreghismo? All'aggressività? A tutte queste cose? O anche ad altro? Più la guardava, meno la capiva; meno la capiva, più desiderava egoisticamente aiutarla. Perché Timothy era fatto così, non sopportava il dolore, che fosse suo o di altri, non lo tollerava proprio.
«Sei stato bravo» commentò alla fine Miss Morrison, strappandolo dalla nuvola dei pensieri. «La cucina, intendo, sembra quasi normale, ora. Non male, ragazzino, non male.» Si accese sbrigativamente una sigaretta - presa dalla tasca dei pantaloni - concentrando la sua attenzione sullo figura del gattino che si era appostato al suo fianco, per guardarla pieno di speranze. «Quando mi sono svegliata era sopra di me» mormorò lei, e Timmy si contrasse spaventato di fronte al fulmine che la donna gli saettò contro. «Sbaglio o ti avevo detto di tenermelo lontano dai piedi?»
Avrebbe voluto capire, comprendere quale fosse la malattia che l'affliggeva, in che modo aiutarla a guarire da tutto quel dolore che le scarniva la carne e i respiri, ma non ne fu in grado. Lei era dentro una bolla di sapone, tremula e galleggiante, navigava in essa, abbandonata, senza poter in alcun modo esser toccata da qualcuno. Era terrorizzato dall'idea di avvicinarsi troppo e far scoppiare quella sfera lucida e splendente, perché, dentro di sé, sapeva che ciò avrebbe comportato conseguenze devastanti.
Alla fine, prese fiato, lentamente. Osservò la donna, la sua mascella spigolosa, contratta mentre osservava il micio che le carezzava con la zampetta la caviglia nuda. Le sopracciglia di lei si accartocciarono di nuovo, stavolta per un dolore diverso: negli occhi nebbiosi Timmy intravide qualcosa, una malinconica scelta di non poter amare e non poter essere amata. E fu proprio per quella fuliggine che le riempiva le iridi se, alla fine, si ritrovò a sussurrare: «Non ne sono stato in grado.»
«In che senso?»
«Non voleva staccarsi da lei, Miss Morrison» le spiegò. «Continuava a piangere e a disperarsi, si è calmato solo una volta che l'ha raggiunta.»
Lei inclinò lo sguardo, la punta della sigaretta brillava ad ogni inspiro come una stella arrossata, bruciante di morte. Osservò il gatto che la fissava con curiosità, indietreggiò piano, per allontanarsi da lui, e lui la seguì ancora, appostandosi ai suoi piedi. Provò ad allontanarlo con la gamba, facendolo scivolare sul pavimento pulito, e questo si aggrappò ai pantaloni della tuta, fino a rimanerne attaccato con le unghie. «Vattene» gli mormorò alla fine. «Non ti voglio qui.»
«Ecco... È per questo motivo...» Timmy si bloccò di nuovo, non sapendo come esprimersi. Non era mai stato bravo a parlare, ad esprimere i suoi pensieri attraverso la voce, era bravo a imprimerli nella carta, in quel luogo dove sapeva nessuno li avrebbe giudicati. «Sembra... È adorabile, vero? È molto carino. Credo che... Penso che lui si consideri suo figlio, Miss Morrison. Mentre piangeva per averla accanto, sembrava un bambino che ricercava la stretta della sua mamma.»
Il tempo si bloccò, così come si bloccò la donna. L'aria putrefatta dalla spazzatura venne congelata dalle spalle di lei, che si contrassero con la violenza di un uragano. La cenere della sigaretta cadde a terra, vicino al gattino, e quando Miss Morrison sollevò il capo per guardarlo, Timothy capì - lo capì subito - di aver commesso un errore.
Lei diventò tempesta di mare e lui gli scogli contro cui si abbattevano le imperiose onde di rabbia, gli occhi si trasformarono cielo grigio divorato da un tornado e le parole che gli sputò contro furono vento graffiante che indusse il suo respiro a tremare.
«Non osare dirlo mai più.»
Timothy sussultò, il fiato incastrato fra il cuore e la gola, un macigno rovente che gli bruciò la pelle. Non ebbe la forza di rispondere, né di scusarsi, lei era fuori di sé, il suo volto, così magro, così sporco, ora era solo una maschera di ira; luce folle accecava quegli occhi spenti, brillando come soli pronti ad esplodere. Era tempesta, mulinelli di vento, la pelle tesa dalle ossa diventò lava, lui riuscì a scorgere il fumo che si alzava da essa, la condensa nera che sgusciava dalla bocca aperta, squarciata dalle grida che gli sputò addosso.
«Tu!» Non c'era più umanità in quella voce, era perduta come si era perduta lei. Stava annegando in un oceano di follia e lo stava trascinando negli abissi, con le sue mani predatrici che volevano rubargli il respiro dalla gola, strapparglielo nella violenza della rabbia. «Non osare! Non osare dirlo mai più! Chi ti credi di essere, eh? Chi diavolo pensi di essere per entrare così nella mia vita e dire simili stronzate?»
Ogni parola era uno schiaffo sul suo viso, Timothy ne sentì il bruciore sulla guancia, l'impatto del colpo. Tremò, terrorizzato, tremò di fronte a quella donna che ormai era solo fuoco nato dalla rabbia; si ritrovò a balbettare, a cercare di giustificarsi, in preda al panico più atroce. Gli faceva male il petto, tanto era l'ira con cui lei lo disprezzava, la percepiva affondare i suoi artigli nel cuore e bucarne la carne.
«Ascoltami bene! Tu devi solo pulire, è chiaro? Non voglio sentirti parlare, non voglio ascoltare i tuoi stupidi commenti! Sei solo un bamboccio che a cui piace prestare stupidi ombrelli da panda! Perciò non osare, non permetterti mai più, di fare affermazioni così schifose, sono stata chiara?»
L'ira lo divorò, non appena la sentì pronunciare quelle ultime parole. Si mosse, pronto a rispondere, a sputarle contro i sassi roventi che aveva accumulato nello stomaco, da quando si erano incontrati. Odiò la furia che gli sbranò il viso, al pensiero di sua sorella, Vanessa, del suo sorriso mentre gli porgeva l'ombrello, un sorriso che era stato appena umiliato dalla più tremenda delle tempesta.
Prima che potesse iniziare quella battaglia, tuttavia, Miss Morrison esplose di nuove. Afferrò qualcosa dalla sua tasca, un rotolo di carte verdi, rettangolari, e lo sbatté per terra: lo scagliò con furia, rabbia e violenza. Questo cadde, rotolò fino ai piedi di Timothy: le sue banconote, i suoi cinquecento dollari.
L'istante dopo, quando sollevò lo sguardo, di Miss Morrison e del gattino non c'era più traccia.
Riuscì solo a scorgere l'ombra di lei che sgusciava nelle tenebre del salone, per poi spalancare una delle porte sulla parete al fianco delle scale.
Il boato con cui si rinchiuse in quella stanza sconosciuta gli squarciò il cuore.
Nota Autrice:
Lo so che adesso odiate Edith alla follia, lo so.
Non vi posso biasimare per questo.
TUTTAVIA
Penso sia ormai evidente che Edith è una donna che non sta bene, sia fisicamente che mentalmente. Le condizioni della sua casa sono un chiaro esempio di quale sia il suo stato psicologico. Inoltre, la sua crisi d'ira è un indizio sia per voi che per Timothy per capire ciò che la tormenta, ciò che le è successo in passato.
Fatemi sapere che ne pensate, so che questo capitolo è più lungo degli altri e mi scuso sinceramente per questo motivo, ma questo è un pezzo molto importante della storia e necessitava del giusto spazio.
Vi ricordo che per aggiornamenti sulle mie storie, piccoli spoiler o una semplice chiacchierata potete trovarmi sul profilo --> sasha_nye_wattpad
A presto!
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