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Sorrisi arrugginiti (parte due)

«Signorino Barlow, avrebbe un minuto da concedermi per una chiacchierata?»

Quella domanda lo stupì.

Oggi era indubbiamente il giorno delle sorprese.

Il professor Sawyer era comparso all'improvviso al suo cospetto, mentre Timmy stava sistemando il suo zaino dopo quei tremendi cinquantacinque minuti passati a sudare sopra il foglio di un test ricco di domande dure e a tratti quasi incomprensibili. I secondi erano trascorsi lenti durante l'esame, a riempire il silenzio solo il rumore delle penne che sporcavano i fogli e i lamenti sommessi degli altri studenti.

Timothy si fermò, ancora seduto sul suo posto, l'astuccio in mano aperto per rimettervi dentro la penna usata; la grande stanza stava iniziando a sfollarsi solo in quel momento, i passi affrettati dei ragazzi continuavano a ticchettare fra le pareti imbiancate, le loro bocche ancora cucite dai lamenti per quell'esame solo grazie alla presenza del professore lì. Un uomo che nessuno avrebbe osato sfidare, non con la sua posa austera e decisa, non con i suoi occhi argentei che sembravano capaci di bucarti l'anima.

Non era certo una novità, che Mr Sawyer chiedesse agli studenti di fermarsi qualche minuto in più con lui. Era ben noto in quell'università che lui fosse uno dei pochi docenti seriamente interessati all'apprendimento dei suoi alunni. Capitava spesso che domandasse ad alcuni ragazzi se ci fossero stati punti poco chiari durante le sue lezioni, quando scorgeva i loro volti perplessi mentre spiegava loro o i quaderni d'appunti ancora vuoti.

Eppure, quella era la prima volta che richiamava Timmy, un evento piuttosto eccezionale, visto che il ragazzo era sempre stato il più diligente alle sue lezioni, nonostante il fallimento del suo primo esame. Persino durante quel test aveva prestato attenzione a mostrarsi il più limpido possibile, nonostante avesse notato Killian, due file più avanti, disperarsi per le risposte che non sapeva concedere al foglio e il suo istinto di aiutarlo fosse sgorgato con forza e veemenza.

Il suo coinquilino stesso, sul corridoio d'ingresso, ad attendere che l'amico finisse di sistemarsi per uscire dall'aula, parve sorpreso di scorgere la presenza del professore al fianco di Timothy. Quest'ultimo, per un istante, non seppe che dire. Debole, lui, estremamente debole, si sentiva perso di fronte a quello sguardo opprimente, alla severità calcata nelle rughe dell'uomo e alle sue labbra sottili, rigide e ferme in un'espressione del tutto vuota.

«Io... certo, professore.» Con un cenno del capo, Timothy domandò in silenzio a Killian di andarsene e raggiungere gli altri. Fu uno scambio di battute mentali che i due si lanciarono a vicenda, ma alla fine il suo coinquilino parve capire, e con un altro gesto della mano lo salutò prima di uscire dalla stanza. «Di cosa voleva parlarmi, Mr Sawyer?»

«Mi rendo conto di star ficcanasando in affari che non son miei, signorino Barlow, ma l'ultima volta che l'ho incontrata alla sala mensa, ho sentito che ha iniziato a lavorare come domestico. Questo, ovviamente, insieme alla scoperta che, stando a quanto asserisce il suo coinquilino, dispongo di una mimica facciale estremamente affine a quella di una donna indisposta.»

Timothy era troppo imbarazzato da quel ricordo per preoccuparsi delle parole che l'uomo gli stava rivolgendo.

Aveva il corpo in fremito, il ragazzo, la pelle scoppiettante per il desiderio di alzarsi lì e uscire dalla stanza, di correre verso occhi di nuvole e un corpo di pioggia. Da quando era entrato lì, era stato divorato da quel pensiero; nonostante non fosse mai stata una persona impulsiva, nonostante avesse sempre condotto la propria esistenza in un tunnel di serenità, eccolo ora, a venir divorato dalla vivace brama di rincontrare una donna dai capelli di fuoco.

«Signorino Barlow, volevo informarla che se per caso lei sta affrontando personali problemi economici, la nostra università fornisce agli studenti ottime borse di studio e delle agevolazioni monetarie. Le basterà chiedere informazioni alla segreteria.»

La voce di lui era rude e schietta, ma il suo sguardo... Timmy non seppe interpretarlo. Non gli capitava spesso di indurre gli altri a preoccuparsi nei suoi confronti, men che meno sconosciuti come quel professore. Eppure, negli occhi grigi dell'uomo scoppiettava un fuoco vivace, allegro, sotto molti aspetti, rovinato solo dall'ombra cupa della sua espressione austera e severa.

«Io...» balbettò alla fine il ragazzo, guardando il suo astuccio con imbarazzo. «In realtà, non sto avendo problemi economici» ammise alla fine. «Ho bisogno di soldi per... motivi personali, professore. Non penso che l'università possa aiutarmi in questo.»

«Si è messo nei guai, signorino Barlow? La cosa mi sorprenderebbe, è sempre stato uno studente molto pacato e diligente.»

Quello era uno dei motivi per cui nessuno studente, in quell'università, riusciva veramente ad odiare il professor Sawyer. Era indubbiamente uno degli insegnanti più crudeli e sanguinolenti a livello didattico, prediligeva la perfezione negli studi e in campo accademico, ma era anche l'unico a porre sempre una mano in avanti, in caso di necessità. L'unico i cui occhi guardassero volti e non numeri da affibbiare in un foglio di carta e su un curriculum.

Era gentile, il professore, delicato nella sua rigidezza. Nelle rughe che solcavano il suo viso asciutto e stanco si scorgeva ancora una fanciullezza mai scomparsa, un sordido richiamo a un animo puro e afflitto. Con quell'abito elegante, dalla giacca nera perfettamente stirata e la cravatta che ricadeva con dedizione sulla camicia bianca, chiunque avrebbe potuto confondere il suo sguardo naturalmente imbronciato per un carattere meschino e rovinoso, ma non Timmy. Lui intravide invece una tacita preoccupazione che gli carezzò gli occhi grigi e si diramò nelle piaghe della pelle, agli angoli degli occhi, su quei solchi arricciati che gli incipriavano le gote asciutte.

«No, signore, nulla di tutto ciò. Ho solo... bisogno di soldi.» Timmy si sollevò piano dal suo posto, lo zaino già sulle spalle e il solito sorriso pacato cucito sulle sue labbra.

«Non si dimentichi, signorino Barlow, che la nostra università può agevolare alcuni studenti nel campo studio-lavoro, fornendo stage per coloro che possiedono un'elevata media. Lei rientrerebbe perfettamente in questa categoria.»

Era vero, ma nessun lavoro offerto in quell'università gli garantiva mille dollari al mese, come faceva invece Edith. Timothy si domandò se potesse rivelargli un simile dettaglio, nonostante non lo conoscesse per niente. Riservato com'era, trovava difficoltà a confidarsi con qualcuno che non fosse Killian, soprattutto di fronte a un uomo che di lì a pochi giorni avrebbe dovuto valutare il suo test scritto sulla letteratura contemporanea e da lì determinare il suo voto.

«Non è un problema» asserì alla fine il ragazzo. «La ringrazio per la preoccupazione, professor Sawyer, ma il lavoro che ho trovato per conto mio è eccellente.» A discapito di chi glielo aveva fornito, una donna troppo misteriosa per esser spiegata in poche parole.

Il professor Sawyer annuì in silenzio. Il burbero broncio sulle sue labbra tornò a scavargli le guance, quando indietreggiò per permettere a Timmy di uscire dal suo banco. L'aula era ormai quasi svuotata e nell'aria si poteva tornare a respirare un po' di tranquillità, quella calma perduta a causa dell'agitazione per un esame a cui nessuno si sarebbe mai sentito sufficientemente pronto.

Si sorprese, quando si accorse che l'uomo aveva iniziato a seguirlo verso l'uscita dell'università, un gesto silenzioso che lo confondeva. Timmy ascoltò il battito tremulo delle sue scarpe sul pavimento in mattonelle, accompagnato dal passo deciso e sicuro del professore. Fu proprio nel momento in cui aprì la porta in legno che udì di nuovo l'uomo parlare, e stavolta la voce di lui fu sommersa da un rombo di preoccupazione molto più alterato dei precedenti. «Si trova bene col suo nuovo impiego, signorino Barlow? Il suo datore di lavoro è affidabile?»

Con la mano ancora sulla maniglia, Timmy restò per un attimo in silenzio, gli occhi incollati a quelli del professore. Una nube grigia si riempiva in quelle iride di solito così cristalline, fu un'ombra incerta che per un breve istante trasformò la maschera burbera del suo viso in un volto più umano, più decadente, privo di austerità e dovere, riempito invece dal guizzo di emozioni ignote.

«La signorina Morrison è... una donna molto particolare» sussurrò alla fine Timmy, sorprendendosi lui stesso della naturalezza con cui si ritrovò a sorridergli, la gentilezza che gli addolcì la voce, quando giunse a parlare di Edith. «Ma non è una cattiva persona e mi sta aiutando molto.»

Non aveva mentito.

Non aveva mentito, lo capì nello stesso momento in cui mormorò quelle parole.

Così strano, così assurdo, per Timothy, da confessare. Era stato travolto dal ricordo di Edith e in esso aveva ritrovato una sincerità schiacciante, nettamente in contrasto con la prima impressione che invece aveva avuto di lei.

Non c'era nulla da fare, ormai, lo sapeva. Non poteva cambiare più niente. La consapevolezza di tutto ciò gli bucò il cuore. Fu in quel semplice istante che lui comprese quanto lei gli fosse caduta dentro, in un sussurro di parole che per lui erano contate molto più dei loro battibecchi, dei loro litigi e dei loro scherzi nascosti, condivisi con l'assaggio di un piatto di broccoli.

La mano sulla maniglia tremolò leggermente, non appena la realizzazione di tutto ciò gli si depositò sul petto, leggiadra e felice. La pelle che pizzicava per il fermento di quella confessione.

Perché sì, Edith lo aveva indubbiamente aiutato.

E non erano stati gli sguardi guizzanti, le voraci parole con cui cercava di allontanarlo da sé, e nemmeno il sorriso di cui lei si riempiva quando usciva dalla camera proibita e scompariva dal mondo.

Era stata la delicatezza del suo sguardo ogni volta che tornava a sentirsi bambino e stupido, il tocco leggiadro delle sue dita il giorno in cui per la prima volta si erano incontrate e il modo in cui era stata in grado di capirlo, di comprendere il suo terrore per gli occhi, per gli sguardi giudicanti di battiti e respiri.

«Ne sono contento, signorino Barlow, più contento di quanto lei possa immaginare.»

Un sussurro gracile e un volto... delicato, quello del professore.

Timothy non ricordava di averlo mai visto sorridere in quel modo.

Con occhi che sembravano gemme di metallo perdute in un tappeto di fiori, labbra incantate da una curva morbida e gonfia, capace di ringiovanire quel volto calcato da più di cinquant'anni di vita. La delicatezza che gli trasmise fu calda e incostante, un piccolo guizzo di fuoco che a Timothy sembrava stranamente... familiare, nostalgico, sotto certi aspetti.

Era un sorriso pallido, estremamente arrugginito; era evidente che quelle labbra non lo realizzassero da tempo, invecchiate da una maschera di severità che le aveva paralizzate in quel broncio ormai divenuto naturale.

Eppure... eppure il professore non sembrò più solo un professore, ora. Sembrò qualcun altro, qualcos'altro, un uomo pieno d'affetto, riempito da un sollievo sconosciuto a Timothy.

Il ragazzo, faticosamente, annuì, confuso più che mai alla vista di quel sorriso. Di quel volto caldo e delicato, gentile come pochi. Lo salutò con un cenno del capo, prima di spalancare la porta e scappare via, più per timore di non comprendere che per paura di cosa si nascondesse dietro quel sorriso. Passò avanti a tutti, scivolando fra gli altri studenti, in quella stanza che era stata la testimone della sua disperazione e dell'arrivo quasi provvisorio di una donna forse più altruista di quanto si pensasse.

E la trovò lì, Timmy, proprio dove l'aveva lasciata.

La schiena posata cautamente sulla finestra, le braccia fiacche, stanche, cadute lungo i fianchi, e i capelli rossi colpiti dai raggi solari che filtravano dalla finestra alle sue spalle.

Edith se ne stava immobile, lì, come l'infisso di una parete. Da sola in quella stanza gremita da persone, e Timmy si accorse subito del modo in cui gli sguardi altrui caddero su di lei, dell'attenzione che la sua semplice presenza creava; perché lei era un fiocco di fuoco depositato in una tormenta di neve, e chiunque avrebbe voluto possederlo e studiarlo, per vedere se sarebbe sopravvissuto persino all'inverno che gli altri si portavano dentro.

Era a lei che i sospiri e i bisbigli andavano, a lei che gli sguardi inciampavano quasi per sbaglio, a quella donna che sembrava appartenere a un mondo suo, intrappolata in una bolla di solitudine che in pochi avrebbero avuto il coraggio di far scoppiare.

Timmy, quel coraggio, lo trovò.

Si domandò lui stesso dove lo avesse scovato, quale fonte del suo animo avesse derubato per andare avanti, di passo in passo, e lasciarsi bruciare dal fuoco che lei sembrava portarsi dentro. Come un ladro che anelava per il gioiello più prezioso, sapendo bene di rischiare sbarre e catene di ferro; come un'ape che voleva tastare il gusto della pelle, pur consapevole che ciò avrebbe designato la sua morte, Timmy avanzò, ancora e ancora, fino a raggiungere la donna dagli occhi di ferro e il broncio spento.

«L'esame... l'esame è andato bene» mormorò alla fine, quando i loro sguardi s'incontrarono. «Non penso che i tuoi sforzi saranno stati vani.»

In lontananza, udì Killian chiamarlo. Probabilmente lui e i loro amici erano proprio lì, in mezzo agli altri studenti, ma Timothy non riuscì a preoccuparsi di loro. Incantato e ammaliato, poté solo restar fermo a guardare Edith e lasciarsi paralizzare dal suo sguardo, da quelle labbra rovinate che calcavano il filtro di una sigaretta spenta.

«Bene, perché se no ti avrei preso a calci in culo fino a farti vedere il paradiso» dichiarò la donna. «Sappi, Pandino, che io non sono una persona altruista, sono una disgustosa donna che detesta il mondo e sé stessa, perciò, se oserai di nuovo cercare di farmi tirare fuori la piccola crocerossina che è ancora in me, non te la caverai facilmente come stavolta.»

Forse qualcuno si sarebbe preoccupato di quelle parole, avrebbe pensato che la sua fosse una dichiarazione fatta per strappare complimenti, ma Timothy aveva ormai compreso che, in realtà, qualunque parola quella donna sputasse, era sempre veritiera, non importaca quanto fosse ingombrante. «Non è così terribile ammettere di saper esser gentili, sai?» le fece notare, con gli angoli delle labbra che tremavano nel tentativo di non sollevarsi.

«Io non sono gentile» sibilò lei, incrociando le braccia al petto. «Te l'ho detto, è stata colpa di Michelangelo, continuava a guardarmi come se fossi stata l'assassina della sua mamma.»

«Non penso che Michelangelo sia in grado di pensar ciò di te, ti vuole troppo bene.»

«È un gatto, i gatti amano solo sé stessi.»

«Ripetimelo quando tenti di sfuggirgli ogni volta che ti cerca per le coccole.»

«È ruffiano, gli piacciono le coccole e basta.»

«Le uniche che vuole però sono le tue.»

Lei schioccò la lingua, malevola, e afferrò la sigaretta fra le dita. «Sappi che di battuta in battuta le tue possibilità di sopravvivenza stanno drasticamente calando» lo informò. «Ho dovuto aspettarti qui per quasi un'ora e sai qual è la cosa peggiore?»

«Non hai avuto nessuno da insultare?»

Edith lo fulminò con un'altra occhiataccia. «Qua dentro non si può fumare.»

«Oh, che tragedia» fu la risposta incolore di lui.

«Quando non fumo per più di venti minuti, divento una donna particolarmente aggressiva.»

Il sopracciglio di Timmy si sollevò da solo con perplessità, di risposta Edith gli mostrò il medio. «Muoviti, voglio andare a casa il prima possibile, questo posto è un inferno per me, e sì, guiderai tu.»

Si staccò fiaccamente dal muro, le palpebre gonfie di occhiaie e il volto stanco per un sentimento a Timothy sconosciuto. E fu allora che un dubbio s'instillò nella testa di lui, una domanda che esplose fra i pensieri e dalla sua bocca, improvvisa e scattante: «Edith, sei già stata qui, per caso?»

Lei si fermò nel momento stesso in cui tentò di camminare. Il parquet del pavimento squittì ferito dal colpo con cui le scarpe di Edith lo ferirono, un passo fermo e rigido, un doloroso e viscido battito di rabbia.

E Timothy vide la risposta nei suoi occhi, proprio lì, sotto le ciglia incurvate, celato dalla copertura delle lentiggini: un sorriso amaro, acerbo come un frutto appena nato da un albero secco. Fu un taglio di labbra, una cicatrice che si fossilizzò sulla bocca rovinata di lei e la trasformò in una foglia calpestata.

Forse stava per parlare, forse stava per sussurrargli quel segreto, o forse fra le sue labbra sarebbero scoppiati altri insulti, ma non importò. Qualunque parola stesse per rivolgergli, svanì all'istante, nel momento esatto in cui gli occhi annuvolati si depositarono su qualcosa che giaceva oltre le spalle di lui, il proprietario di una voce che pochi minuti prima aveva confuso Timothy.

«Qua dentro è vietato fumare.»

Qualcosa s'incastro, nelle orecchie di Timmy.

Un ruvido pensiero, un segreto inestimabile, oscuro a tutti. Eppure cadde in lui, s'intrappolò fra le sue ciglia non appena scorse il viso di Edith tramutare, e da acerbo perire e ammuffire, trasformarsi in un frutto disgustoso, goduto solo da larve e vermi. Gli occhi di lei non c'erano più, lei non c'era più, scomparsa proprio come le sue parole, annullata da un terrore che le si annidò fra le ciglia, incollandogliele con dedizione.

E quando il professor Sawyer avanzò verso di loro, quando i suoi passi attutiti silenziarono gli altri studenti e il cuore di Timmy, fu allora che lui capì doveva aveva già visto quel sorriso, il motivo per cui gli era così familiare.

Lo aveva visto nelle labbra di Patricia, la donna che lo aveva cresciuto da madre e da padre.

Nelle labbra di Amelia, una donna che aveva stretto la mano di Edith fino alla sua maturità, sostituendo le figure che lei aveva perso chissà come.

Lo aveva visto in rare occasioni nel suo stesso padre, quando guardava Timmy con orgoglio e affetto, nei rari momenti in cui Audrey non giungeva per spezzare quel legame.

Eppure... eppure lui non voleva ancora crederci. Era impossibile, per Timmy, del tutto impossibile. Non voleva credere al sussurro maligno dei suoi pensieri, alla tacita e vorace possibilità che il sorriso vigliacco che lambì di nuovo le labbra della donna fosse per lo più un grido di sofferenza, piuttosto che il suo abituale coltello con cui ferire gli altri.

«Noto con dispiacere che hai ereditato da Henry il vizio del fumo, Edith.» La voce del professor Sawyer aveva lo stesso sapore del whisky invecchiato, rompeva il silenzio e squarciava il sorriso di Edith fino a renderlo disumano, crudele, vendicativo. «Per questo motivo gli avevo sempre detto di smettere.»

«Oh, davvero?»

A parlare non fu Edith.

Fu la sua collera, la sua rabbia, il suo dolore. Timothy vide quelle emozioni soprassedere l'animo della giovane, aggrapparsi al suo cuore e ricamarle la follia negli occhi, far tremare la sigaretta fra le sue dita con la furia di una belva.

«Oh, be', forse hai ragione, chissà.»

Era assurdo, fuorviante. Timothy non riusciva più a comprendere cosa stesse accadendo, nel petto percepiva solo l'acuto dolore di vedere Edith spogliarsi della sua umanità, rivestirsi di un veleno che non le apparteneva e che lasciava sgorgare dalla sua gola risate che eran di vetro e lacrime invisibile che bruciavano i suoi occhi.

«Poteva andarmi peggio, no? Alla fine, il vizio del fumo non è così malaccio rispetto ad altri. Pensa se avessi ereditato il tuo, papà



Nota autrice

BOOM.

Sorpresa!

Non ve lo aspettavate? 😏

State pronti, perché da qui ci sarà una bella scossa.
Per Timmy e per Edith 😏

Questo capitolo è interamente dedicato a MariaZaccaro un utente e vivian_nyneve

In nome del sacro salmone❤️

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