Sentirsi neve (parte tre)
Inaspettatamente, la cena andò bene, e ciò Timmy lo considerò una specie di miracolo.
Dopo la scarpa che Edith aveva lanciato in faccia a Killian, si era quasi aspettato di vedere quei due uccidersi in una sanguinolenta lotta, ma, grazie al cielo, il suo coinquilino aveva avuto la decenza di fermarsi e di ricordarsi che, da cretino qual era, il suo primo compito era quello di fingere di corteggiare Timmy, non di badare a una fumatrice incallita.
Certo non si poteva dire che Killian avesse rinunciato al nobile scopo di stuzzicare Edith. Per tutto il tempo in cui mangiarono, la provocò in ogni modo, e lei rispose alle sue battute con insulti e bestemmie che persino le orecchie peccaminose del pervertito trovarono di una volgarità indecente.
Per tutto quel tempo, Edith sembrò particolarmente... a disagio. Seduta sul tavolo con forchetta e coltello in mano, fissava la tavola imbandita di cibo con il timore di una bambina che non sa se Babbo Natale le lascerà dei regali quell'anno. Tesa, lei, il collo incavato fra le spalle, e le labbra aggrovigliate, quasi il solo star lì, circondata da altre persone, a condurre un'attività così comune come il consumare un pasto durante la vigilia di Natale, bastasse per ledere il suo orgoglio.
Timothy non sapeva davvero immaginare cosa implicasse per lei tutto quello. Al contrario di Edith, per tutta la sua vita lui non aveva fatto altro che sognare di esser circondato da altre persone. Così affamato di compagnia, Timothy, così assetato di parole; agghiacciato dalla freddezza che gli intorpidiva le membra quando ancora viveva con la sua famiglia, aveva trovato consolazione nel fantasticare di un giorno in cui avrebbe potuto provar caldo, e fuoco, e rumori, immerso nella bisboccia di persone che lo avrebbero guardato davvero, occhi negli occhi, corpo contro corpo, senza più plasmare la sua esistenza, attraversarla come fosse nebbia.
Timmy era sempre stato alla ricerca di amore, di mani e dita che gli toccassero il volto, la redenzione in due occhi che gli avrebbero sottratto gli strascichi del suo peccato.
Ma per Edith non era così, Edith funzionava al contrario; Edith rifiutava l'amore, lo ripudiava con la stessa testardaggine di un picchio che scalfisce la corteccia di un tronco, talmente contaminata da quella condanna che si era autoimposta da arrugginirsi di fronte a un semplice banchetto natalizio.
«Sembra che le abbiano ficcato un peperoncino su per il suo anziano orifizio» fu il delicato commento che Killian esibì, dopo cena, mentre puliva le stoviglie sporche al fianco di Timmy.
Per poco al ragazzo non cadde il bicchiere giù per il lavandino, ma suo malgrado non avrebbe potuto arrogarsi il diritto di incolpare la nuvola di sapone con cui lo stava lavando per quell'assassinio. Con un'occhiata veloce, rivolse lo sguardo alle sue spalle: Edith, ferma sulla finestra del soggiorno, ad osservare la neve assonnata che addormentava la città, era troppo lontana per sentire quel discorso, con somma fortuna di entrambi. Michelangelo, inoltre, si era buttato nella tanto pericolosa quanto impossibile impresa di aggrapparsi come un'edera alle gambe di lei per convincerla a prenderlo in braccio, perciò, almeno per qualche minuto, la donna sarebbe stata troppo distratta dall'evitarlo per interessarsi a loro.
«Edith è...» Tornò a guardare il bicchiere che stringeva fra le dita, la schiuma bianca esplodeva in un bocciolo di bolle piangenti. «Non è abituata a questo.»
«La difendi troppo» fu la risposta fulminea di Killian, che strappò lo strato di innocenza di Timmy con un'aggressività inaudita.
«Non è una cattiva persona, davvero.»
Killian sospirò, stava strofinando furiosamente sul bordo di un piatto la sua spugna, ma gli occhi erano incollati a Timmy, fusi sui suoi per tirar fuori le stringhe di colpevolezza che lo avevano sempre smosso finora. «Lo so benissimo che non è una cattiva persona, amore mio» disse, «ciò non vuol dire che non sia pericolosa per te.»
«Pericolosa? Andiamo, Kil-»
«Ho visto come la guardi.»
Agli occhi di chi non sa vedere, negli sguardi di coloro che sanno scorgere solo la superficie traslucida del viso, il richiamo del sorriso e della sconsideratezza inclinato sulle sue labbra, Killian sarebbe per sempre apparso come un semplice ragazzo, a tratti incredibilmente stupido, pervertito e birbante, teatrale in alcune occasioni e irritanti in altre.
Ma Timmy sapeva che c'era molto di più, Timmy conosceva Killian ben oltre la semplice strettura del suo sorriso, ed era ben consapevole che al mondo non esisteva una persona in grado di braccare la verità come faceva il suo amico.
Che Killian andava oltre la semplice amicizia, oltre il semplice vincolo, Killian le persone le osservava in un modo tutto suo: con occhi che erano coltelli per incavare le cortecce delle anime e le pupille attente spettatrici pronte a succhiare via il succo sgorgato da quel taglio. E non aveva pietà, lui, per nessuno, nemmeno per il suo migliore amico; la sua indagine era certa come lo era la morte; quando Killian ti guardava dentro, quando sbucciava la membrana dell'apparenza, non esistevano menzogne o scuse che potessero annebbiarlo. Killian ti guardava e ti deteriorava, i suoi occhi nella tua gola, violenti e spaventosi, sbattevano contro il corridoio di carne per costringerti a vomitare le stesse verità che mai esprimeresti a te stesso.
Non te ne saresti neanche accorto, all'inizio, se non fossi stato attento, se non avessi da subito capito che il suo comportarsi da ragazzino non era nient'altro che una delle sue migliaia di sfaccettature; chi non lo conosceva come Timmy non avrebbe mai potuto comprendere che per Killian le persone erano matrioske, nascondevano pezzi di sé in altri pezzi di sé più grandi, e che lui era bravo ad aprirle una ad una, a romperle come uova, anche a costo di ferirle, anche a costo di lasciarle per sempre così: metà vaganti che mai più si sarebbero ricongiunte fra loro.
Una volta, quando erano ragazzini, glielo aveva persino detto, senza rimorsi, senza nemmeno l'ombra di una cupola di vergogna ad eclissare i suoi occhi. Tredici anni addosso, ma sotto la pelle, sotto le giunture che legavano le dita alla mano, la mano al braccio, il braccio alla spalla, le vene al cuore e il cuore all'anima, scorreva viscoso il sangue che possiede solo chi è dovuto per forza di cose crescere troppo in fretta. E Dio solo sapeva quanto Killian era stato costretto a farlo, sebbene avesse seppellito la sua maturità sotto i petali del suo animo scherzoso.
«Io non ho più paura della verità, sai?» gli aveva detto quella sera, il solito sorriso birbante, ma sotto le ciglia Timmy aveva scorto i primi germogli di quello che sarebbe diventato più tardi con l'avanzare degli anni. «Penso che sia stupido esserne così spaventati. La verità è solo verità. Può far male e può far bene, ma se non la conosci non potrai mai saperlo. Quindi, d'ora in poi, ti prometto che sarò sempre io a rivelartela, anche quando tu non lo vorrai.»
E aveva sorriso. Un sorriso cortese, di quelli che sai sbocciano per amore e graffiano per affetto; un sorriso che Timmy aveva accettato a fatica, il terrore nel cuore al pensiero di quanti bozzoli putrefatti Killian avrebbe potuto raccogliere dal suo animo infertile.
Mai come allora Timmy avrebbe voluto tornare indietro nel tempo per tornare a quel giorno, scongiurarlo di non cedere così facilmente al desiderio di conoscenza e altruismo, adesso che ora Killian gli aveva di nuovo intagliato il respiro per rivelarne l'emozione che tutti i suoi battiti aveva nascosto.
Lo sentì che lo guardava - pupille vere a schiacciare tutte le sue menzogne - e i suoi muscoli tirarono e latrarono, un coro di urla che zampillò nei corridoi dei capillari, struggendosi per non esser visti, per non esser rivelati, per non esser guardati così, così come se l'amore già ce lo avesse in bocca, come se fosse il nome di Edith a baciargli ogni volta le labbra e poi il cuore e poi gli occhi e poi tutta l'anima - l'epidemia di una vita che aveva infettato tutto ciò che era di Timmy, e che ora era di lei, lei e solo lei. Lei che era nella verità che ora Killian gli mostrava negli occhi, lei che era persino nello stretto spazio fra una vertebra e l'altra, che aveva taciuto finora solo per accontentare la supplica di Timmy di non mostrarsi, ma che ora, davanti allo sguardo dell'amico, urlava e scerpava carne e interiora, rivelandosi ovunque dentro di lui, in ogni singola e dannata cellula di quello che era.
Timmy inghiottì grattacieli di paure, li rispedì nelle profondità dello stomaco, dove vagava la città di tutte le sue umiliazioni, e tornò a guardare il bicchiere: la spuma ora sembrava bruciare la pelle delle sue dita, sbuffare qua e là per grattarne la scorza.
«Non...» Aveva l'impressione di avere sabbia al posto del cuore, perché ad ogni battito sentiva di perder granelli di vita qua e là, dispersi fra i ventricoli e le aorte. «Non... non mi farò strane idee, non... non mi farò false speranze, te lo assicuro, lo so benissimo che... è impossibile.» I granelli adesso erano braci, le braci bucavano tutti i suoi organi, abbandonavano scie di fumo tossico che lui espirò dalla bocca con il suo sospiro di colpevolezza. «Lo so che... non c'è alcuna possibilità per me.»
Per qualche secondo Killian tacque, fu il rumore dell'acqua che colava dal rubinetto a riempire il vuoto nella loro conversazione, almeno fino a quando non disse: «Sai come ho capito che quella vecchiaccia è una brava persona, Pandino?»
Timothy non rispose, preso com'era a vergognarsi e umiliarsi per esser stato così stolto e ingrato da cedere a quel sentimento, ma poi un brivido, il sorriso cheto del suo amico, e quando lo guardò di nuovo negli occhi scoprì che in essi Killian vi aveva abbandonato sdruccioli di un'altra verità, più pacata e gentile, dalla natura di speranza.
«Una persona che è in grado di apprezzarti, una persona che è capace di amare quello che sei, di riconoscere quanto vali, non potrà mai essere cattiva.»
E d'improvviso tutta la sabbia nel cuore parve diventare feconda, terreno fertile in cui Timmy si sentì germogliare in un'oasi di fiori.
«Se devo essere sincero, ciò che mi preoccupa non è questo, per quanto sia ingiusto che tu non preferisca la mia Excalibur alle mongolfiere sgonfie che quella tipa ha al posto delle tette» aggiunse poi dopo, e Timmy lo fulminò con un'occhiataccia. «Quando ho detto che è pericolosa per te non mi riferivo alla possibilità che lei ti avrebbe spezzato il cuore. Oltre ad essere una cosa altamente improbabile, per quanto mi costi ammetterlo, non sei nemmeno il tipo che si crogiola nel dolore di un amore non corrisposto. Non si tratta di questo.»
«E allora cos-»
«Timmy, l'hai mai guardata davvero?»
Una domanda a cui non seppe rispondere, non ora che Killian lo mordeva con quei suoi occhi che sapevano svelare segreti negli anfratti più oscuri.
«Io... direi di sì.»
«No, invece» Killian scosse la testa. «Se lo avessi fatto, avresti già capito. Devi guardarla negli occhi, Timmy» ripeté, abbandonando scie di brividi sotto la pelle di Timmy, correnti che tormentarono la carne con più ferocia quando Killian tornò a guardarlo. «Quella tipa fa schifo a nascondere le cose. È tutto scritto sulla sua faccia. Devi guardarla negli occhi, e se lo farai, capirai anche il perché della mia preoccupazione.»
«Ehi, Pandino.»
Sussultarono quando la voce di Edith tornò a investirli, ed entrambi si voltarono, ma lei era ancora lì, sulla finestra, una sigaretta spenta fra le labbra e l'aria di chi sembrava sul punto di uccidere qualcuno; solo quando Timmy chinò lo sguardo per terra comprese che quell'esasperazione era dovuta per lo più all'insistenza di Michelangelo, che ancora adesso non aveva rinunciato al suo fiero scopo di arrampicarsi sul corpo della padroncina per ottenerne un abbraccio.
«Devo andare» la sentì dire alla fine. «È quasi mezzanotte e domani mi devo svegliare presto, perciò sì, me ne vado.»
Lo disse con tono incolore, ma sembrava più che altro preoccupata, aveva paragrafi di rughe irritate trascritti sulla fronte e un punto e virgola al posto del naso e la bocca.
«Di già?» Timmy si schiarì la gola. «Ma... fuori è freddo e-»
«Ho già prenotato un taxi» lo interruppe Edith, «ma ho bisogno di te per ficcare la bestia nel trasportino, ho come l'impressione che se adesso la prendessi in braccio nemmeno un'ascia la farebbe scollare da me.»
«Ohoh» mormorò Killian, «quindi te ne vai, eh, vecchietta? Lasci me e Pandino da soli, eh? Hai capito che non hai chance di vittoria, eh?» Con il solito sorrisetto beffardo di sempre, ora tornato a solcare il suo viso, strizzò l'occhio a Timmy. «Stanotte ti farò mio, Pandino.»
Timothy lo ignorò, e si mosse per eseguire quanto richiesto da Edith, ma mentre tentava di allontanare Michelangelo da quest'ultimo e di non venire graffiato per questo gesto villano dal gattino, la diatriba fra la donna e Killian si fece ancora più accesa.
«Hai ragione, non ho alcuna possibilità di vincere. Non posso partecipare a una gara in cui l'unico requisito è non possedere un cervello.»
Mentre tentava di infilare il micio nel trasportino, Killian non ebbe alcun remore a gettare altra benzina nel fuoco:
«Io non avrò un cervello, ma almeno sono giovane e aitante! Posso far godere il mio amato tutta la notte! Tu invece che hai dalla tua parte? Ah, giusto: la vecchiaia e una seconda schiena al posto delle tette.»
«L'unica cosa che farai mai godere è il portafoglio dello psichiatra da cui dovrai andare per la tua perversione.»
«Così come tu sai solo far godere quello delle industrie di tabacco e delle creme anti rughe.»
«Okay, finitela» Timmy si frappose fra loro l'istante dopo, una volta esser riuscito a far calmare Michelangelo nel trasportino, e con sguardo disperato si rivolse ad Edith: «Ti accompagno fuori, è pericoloso rimanere da sola a quest'ora.»
Lei sembrò titubare di fronte a quella possibilità, gli occhi ghiacciati che si frammentavano ovunque tranne che su di lui, poi, infine, con una scrollata di spalle che parve soccomberla, si ritrovò ad annuire.
***
Non si era sbagliato, Timmy, fuori si crepava di freddo.
Il Natale di quell'anno aveva deciso di regalare a tutta la cittadina un gelido pungente, di quelli che scuoiano la pelle anche quand'è seppellita sotto strati di tessuto pesante, e mentre aspettava lungo il marciapiede dell'edificio l'arrivo del taxi, Timmy si ritrovò a cercare invano calore nella lana della sua giacca.
«Non c'è bisogno che aspetti con me» sentì Edith dire al suo fianco, mentre si accendeva una sigaretta e guardava con cerchi vuoti i fiumi di neve che avevano fatto della città il proprio letto. «Se senti così tanto freddo, tornatene dentro casa tua e cerca calore fra le braccia del tuo amato maritino.»
«Non ti lascio qua da sola al buio, è tardi.»
«Sei uno stupido.»
Abituato com'era a sentirselo dire, quasi arrivò ad accogliere quell'insulto come l'esatto contrario. Per Edith, in fondo, erano stupide un sacco di cose: volerle bene, prendersi cura di lei, cercare di aiutarla quand'anche lei non lo voleva.
Respirò a fondo, l'aria ghiacciata rotolò come una cascata di frammenti lungo la sua gola e scalfì i polmoni con le sue punte aguzze, impossibili da digerire. Il silenzio cadeva leggero su di loro assieme ai fiocchi di neve, si poggiava sulle loro teste in una delicatezza irripetibile, in punta di piedi, interrotto soltanto dagli espiri di fumo che spumeggiavano dalle labbra di Edith, di tanto in tanto.
Ci fu un'eco improvviso, a un certo punto, il rintocco lontano di una campana sperduta fra le vesti della città, proveniente da chissà quale chiesa. Fu un rumore gentile e cristallino, che tumultò negli atomi dell'aria per contrarla ed espanderla a piacimento, e quando Timmy lo udì, senti le proprie labbra rompere il rossetto di brina che le aveva ricoperte con un sorriso. «Deve essere scattata la mezzanotte» disse, infilando le mani nude nelle tasche della giacca. «Buon Natale, Edith.»
Buon Natale. Quante volte quell'augurio aveva abbandonato le sue labbra, senza che fosse impacchettato dalla sincerità? In quante occasioni si era costretto a sviscerarlo fuori, ad occhi che ricamavano su di lui solo rabbia e disgusto?
Eppure adesso gli venne naturale, di una gentilezza che quasi lo sorprese, di una felicità che quasi lo spaventò.
Era ormai a lui evidente l'innocenza da cui era stato ingolfato per tutti quegli anni, prosperata da una vita in cui di affetto ne aveva ricevuto e provato poco; Buon Natale ad Edith e già si sentiva sazio, Buon Natale a una donna di fuoco e già sentiva caldo in mezzo a tutta quella neve.
Sì, forse era davvero uno stupido.
Ma altrettanto non lo era lei, i cui occhi rimasero temprati dall'inverno e l'inferno, allacciati insieme a legarle le ciglia, mentre fissava la desertica desolazione di un mondo bianco e deperito.
«Natale, eh?» chiocciò alla fine, la voce così sottile da frantumare i fiocchi che avevano grattato sulle ciocche dei suoi capelli. «Natale.»
«Non ti piace il Natale, vero?»
Edith fece l'ultimo tiro dalla sigaretta, prima di affidare l'incarico di spegnerla al ghiaccio che si era accumulato lungo il bordo del marciapiede. Dopodiché si strinse nelle spalle, il corpo abbottonato ai suoi stessi arti, mentre la mano che stringeva il trasportino si tingeva sempre più di rosso.
«Lo odio, ma non dovresti essere poi così sorpreso, io odio tutto e tutti.»
Soprattutto te stessa, ma non fu necessario dirlo, era una verità che nemmeno la neve di quella notte avrebbe potuto ghiacciare. Invece, alla fine, si ritrovò a chiederle: «Perché devi svegliarti presto? Di solito... non ti preoccupi di queste cose.»
Neve e neve e ancora neve, unica risposta che ottenne per gran parte del tempo. Neve su di lei e dentro di lei, neve nei suoi occhi, neve sulle sue guance, come lacrime di brina. Alla fine Edith sospirò, incastrò lo sguardo nello stretto spazio lasciato fra la punta dei suoi piedi. «Devo andare al cimitero» gli rispose, «e devo andarci presto, se non voglio incontrare Amelia o, ancor peggio, Leonard.»
Una confessione che lo lasciò ammutolito, e che lei, invece, si ritrovò a smorzare con una risatina da bambola impazzita. «Non fare quella faccia, Pandino» fu il suo commento, «lo sai che sono una vera portatrice ambulante di disgrazie, che cosa ti aspettavi?»
Si aspettava di vederla felice, almeno per un secondo, almeno al suo fianco. Niente di più, nulla di meno. Desiderava soltanto che per una volta, una sola volta, lei si liberasse di tutti quei rovi, di tutte quelle spine, che gli concedesse di vedere il fiore che aveva seppellito in fondo, il bocciolo che si rifiutava di nutrire ancora.
«Perché proprio... a Natale? Perché non un altro-»
«A discapito di quel che stai pensando, non odio il Natale perché è per l'appunto il Natale. Non me ne può fregar di meno di quella festa.» Si grattò la punta del naso con la mano libera, ma dalla violenza che applicò per scartavetrare il fastidio Timmy arrivò credere che avrebbe voluto applicare un simile trattamento alla propria anima.
«Allora perché?»
«Trent'anni fa, in questo stesso giorno...» Chiuse gli occhi per un istante, lei, li chiuse come a voler chiudere l'intero mondo e far bruciare tutti i suoni, tutti i rumori che il bianco celava sotto la sua veste incantata. «Io sono nata e mia madre è morta.»
Ora aveva neve anche nel cuore.
Ghiaccio, chicchi, il cuore come un iceberg sciolto; Timmy la guardò e non seppe che dire, la guardò e lei sorrise; quel sorriso che di sorriso non aveva nulla, che piangeva rancori e amarezze tremende, soppiantate nelle labbra solo per rendere tutto meno doloroso, per farla morire con più delicatezza possibile.
«Perché continui a guardarmi con quella faccia da chihuahua bastonato?» lo rimproverò ancora, sopracciglia contratte e un graffio sanguinante al posto della bocca. «Non sono triste perché mia madre è morta, cosa credi. Non l'ho manco conosciuta, quella donna. A stento so che faccia abbia. Non ne sento la mancanza. Non mi fa soffrire il fatto che Natale è il giorno in cui lei ha tirato le cuoia, ciò che odio è il fatto che Natale è il giorno in cui io sono nata.»
«Non dovresti...»
«Non dovrei dirlo?» Arcuò un sopracciglio, lo sguardo provocatorio e divertito. «Non ti rattristare così tanto per me, Pandino, dico sul serio. Non ne valgo la pena. E ad ogni modo, c'è un giorno che odio ancor più del Natale, quindi non ti preoccupare, il rammarico per esser venuta al mondo non è ancora la mia massima priorità.»
Lo spaventava in maniera indicibile la tranquillità con cui parlava di ciò, quella resilienza con cui aveva fortificato la sua stessa indole suicida, al pari di quella della neve, che pian piano, di fiocco in fiocco, è in grado di soffocare un'intera città, di affogarla nel suo ventre di ghiaccio e rubare ogni suo focolaio per nutrire il proprio grembo gelato.
E quanto... oh, quanto avrebbe voluto poterle regalare la primavera, come dono di compleanno, in quel momento. Quanto avrebbe voluto intarsiare il suo animo stinto con fiori che l'avrebbero fatta sentire un'aurora, se non fosse stato che l'artista della sua vita non avesse previsto nemmeno per lui colori, ma solo la fragilità dell'autunno, il marrone dei tronchi piangenti che mai nessuno avrebbe voluto sentirsi addosso.
Perciò alla fine, fece l'unica cosa con cui sperava di risvegliarla, anche solo per poter sdrucire il sorriso con cui lei si stava flagellando, e confessò. «Io... non ho dimenticato il cellulare.»
Edith sollevò il capo, il mento appuntito tremante quando sgranò gli occhi su di lui. «Come?»
Il rossore ronzò nelle sue guance e masticò la pelle, scalfito ancor più dal freddo che ora lui vedeva nel suo sguardo. «Io... l'ho fatto apposta» ammise infine, «il cellulare... l'ho lasciato apposta a casa tua... perché...» Nelle sacche delle tasche le mani gli si stavano ritorcendo contro, le dita a impiastricciarsi fra loro, a legarsi fino a bruciare i tendini. «Volevo... insomma... non volevo che tu rimanessi da sola a Natale, ma sapevo che se te lo avessi chiesto... non avresti accettato di passarlo con qualcuno... quindi... ho dimenticato il cellulare apposta. Anche se... non avevo previsto la chiamata di Audrey.»
Si sarebbe aspettato di tutto - la rabbia, il dolore, il disprezzo - ma non quello che accadde poco dopo.
Edith rise.
Una risata di porcellana, da registrare nel cellulare come prova consistente e tangibile che era esistita veramente nel mondo, che aveva sul serio appiattito la neve e saccheggiato il freddo, rubato tutta l'aria che Timmy aveva nei polmoni per buttarla fuori dai suoi, cacciargliela fuori con un sorriso quasi da ebbra, il naso all'insù e una tempesta di lentiggini a pioverle addosso mentre la pelle si restringeva per farsi abbracciar meglio dalle sue labbra.
«Tu? Lo hai fatto apposta?» E rise, e rise, e rise, e Timmy si sentì divorare, e sedurre, e marcire e rinascere da quella risata che era troppa, troppa per il suo cuore che di risate per lui e non su di lui non ne aveva da contare quasi nessuna, troppa per la sua mente che ora di quella risata ne avrebbe fatto la propria sveglia al mattino e la ninnananna alla sera. «Oh, cielo» sghignazzò ancora. «Quindi anche tu sei in grado di fare cose del genere, eh, Pandino? E pensare che io mi ero ormai convinta di ritrovarti nel calendario dei santi fra pochi anni.»
Si sentì arrossire di nuovo, ma di un rossore diverso, stavolta, vivo e ardente. «Non... non sono così gentile come credi.»
«Oh, no, tu sei gentile peggio di quanto io creda, ma sono contenta di scoprire che cedi alla tentazione come noi comuni mortale. Non fosse stato così, ti avrei davvero fatto un quadro con un'aureola sopra la tua testa.»
«No, dico davvero, non sono...»
«Però» lo interruppe lei d'improvviso, e altrettanto improvviso fu il perire della sua risata, che si sciolse a terra appena tornò a guardarlo, «non farlo più. Non per me. Dico davvero, Pandino. Quella gentilezza che ti ritrovi... dalla a qualcun altro che se la meriti, non a una ormai vecchia trentenne.»
«Non sei vecchia.»
«Ho dieci anni più di te, santo cielo.»
«Nove» la corresse Timmy. «Nove, ho ventun anni, io.»
«Nove, dieci, che differenza fa? È tardi» pronunciò quell'ultima parola con un corpo di lana, sfilacciandosi tutta quando la voce le bagnò le labbra, «è troppo tardi, ormai. Sei arrivato troppo tardi, Pandino, sei in ritardo di tre anni. Non c'è più niente che io o te possiamo fare. È tardi, sarà sempre troppo tardi.»
Era certo che lei ne fosse consapevole a sua volta.
Nelle conchiglie dei suoi occhi si schiudevano perle lucidate dal grigiore della malinconia, e fra le labbra naufragavano spume di sospiri cheti, avvitati nell'aria in trecce di fumo infinite.
Edith di certo sapeva che lei era proprio come quella neve.
Che era pallida, bianca, così fragile da esser rovinata persino dalla delicatezza di un dito che ne baciava la superficie con la sua punta. Sarebbe bastata una goccia di sangue per macchiare lo splendore del suo cuore lattiginoso, un peccato che ora colava viscoso dalla sua testa: ciocche scarlatte ingioiellate da una corona di ghiaccio, a mutare la taciturnità dell'inverno nel grido muto di un suicidio.
E fu bella, lei, in quel momento, bella come un frutto proibito, bella anche se, come asseriva, era tardi, o forse bella proprio perché era tardi. Ma questo forse non lo realizzava, questo forse le era ancora ignoto.
Edith sapeva essere neve, ma mai aveva imparato ad accettare che tutta la neve del mondo si sarebbe comunque sciolta un giorno, che tutti i ghiacciai sanguinavano acqua da qualche parte e che tutti i dolori bruciavano sollievo in qualche ferita. Edith sapeva essere neve, sì, ma mai era riuscita a comprendere che davanti a quel pallido lindore sarebbe per forza fiorito l'imbroglio dello sporco. Boccioli di paure qua e là, disseminati nella sua coscienza pallida per rammendare l'innocenza della brina, e germogli che nemmeno l'inverno avrebbe potuto appassire - ma che sarebbero potuti fiorire, un giorno, sbocciare se solo lei avesse concesso alla primavera di scivolarle nell'animo.
E quando la guardò negli occhi, nel loro riflesso si sentì un po' neve anche lui; una delicatezza acerba le puliva lo sguardo, rastrellava e ingabbiava, turbinio d'emozioni che prosciugavano il mercurio tossico nelle sue iridi.
Fu così che glielo chiese.
Glielo chiese perché forse certe domande si potevano fare solo quando si smetteva di avere carne, pelle e sangue, la peccaminosità dell'umano; e di umano non ebbe nulla quando pose quel quesito, fu solo desiderio e bisogno, impulsi che gli dilatarono gli occhi per la brama di poter scandagliare l'abisso dei suoi.
«Edith, cos'è successo... Cosa ti è successo tre anni fa?»
Ora Timothy fu autunno, quando le si avvicinò.
Sbocciò in quel mondo per ridonarle il suono che aveva sepolto sotto la neve.
E i suoi respiri... i suoi respiri come foglie imbrunite, i passi la ferita con cui le fece scricchiolare. Il rintocco di quel lamento echeggiò negli occhi di lei, un riverbero secco che trapuntò le palpebre l'una all'altra, fino a quando non venne investita dall'ombra di Timmy.
Ma non si arrabbiò, Edith, né si disperò.
Rimase immobile, statua di sale, mentre gli occhi le tremavano e si intestardivano, si dilaniavano da soli per la fatalità di non possedere lacrime pur bramandole ardentemente. Se solo avesse saputo, però... se solo avesse saputo che lei nel cuore di Timmy piangeva ogni giorno, ruscelli di lacrime e gridi inumani che lo dilaniavano dentro e che eppure lui non riusciva a lasciare andare, aggrappato com'era al bisogno di averla e sentirsela addosso, che fosse col suo sorriso o col suo dolore, che fosse con qualunque cosa di lei, purché fosse lei.
«Se te lo dicessi...» gli disse, e neanche lo guardò, neanche lo vide - solo lei e la taciturnità della neve, solo lei e la sua condanna ad essere ombra di sé stessa, «tu me lo porteresti via.»
Lui non capì, non ne fu in grado, percepì solo la necessità di vederla, vedere davvero il suo volto, quelle mascelle contratte e le sopracciglia distrutte, ma l'unica cosa che Edith gli concesse fu la cascata piangente dei suoi capelli, riversi sul viso in refoli di sangue.
«Non voglio... se tu me ne parlassi io...»
«Tu me lo porteresti via» e stavolta lo gridò a gran voce, un tuono che vomitò fobie dalle radici d'incubi, attecchite negli occhi moribondi con cui trovò il coraggio di guardarlo alla fine - ma in essi vi fu solo un'eco ancestrale di morte, di morte, di morte. Grondava dalle ciglia, le scivolava sul viso, anneriva la pelle, rubava le lentiggini, sporcava persino la neve - e fu così che Timmy capì che era proprio quello il peccato più grande che Edith serbava in sé, un peccato così denso da poter mutare l'universo bianco dell'inverno in un lago d'inchiostro.
«Edith...»
«Tu... non capisci...» Edith indietreggiò di un passo, nel momento esatto in cui i fari di un taxi raggiunsero il marciapiede. «Questo dolore... questo... dolore... è l'unica cosa che ho...» La macchina si fermò proprio al loro fianco, ed Edith sollevò il capo.
Lo guardò fra i garbugli dei capelli, gli occhi celati nella ragnatele di rubino, ma quando Timothy li scovò si sentì squarciare, perdere pezzi e granelli, sospiri di sé.
«È tutto ciò che mi rimane di lui e io... io... tu non me lo porterai via, nessuno me lo porterà via un'altra volta.»
Aveva sempre creduto che inferno e paradiso fossero due entità inscindibili, che il primo fosse creato dal Dio che ama e regala sollievo e il secondo dal diavolo che condanna e tortura.
Aveva sbagliato.
Aveva sbagliato e l'impersonificazione del suo sbaglio ora era di fronte a lui: occhi da Dio colmi d'amore e capelli da diavolo che tormentano l'innocenza.
Edith era molto più di una semplice donna distrutta.
Molto più di solitudine, rancore, odio per la pioggia.
Edith era il Dio e il diavolo di sé stessa.
E per trovare il paradiso aveva dovuto creare l'inferno.
Nota autrice:
Due elementi chiave sono stati inseriti in questo capitolo infinito.
Il primo, ovviamente, Killian. Al di là di quanto io lo adori per la sua scemenza, Killian sarà fondamentale, coprirà un ruolo essenziale all'interno della storia, sia per Timmy che per Edith. Per quanto scemo lui sia (e lo è, come ben sappiamo), Killian cela in sé una maturità diversa da quella dei suoi coetanei, persino più... severa di quella di Pandino. Badate bene, al di là di quello che possa sembrare e la gelosia per vedere il suo amato venir portato via dalle mani di una vecchietta, Killian in realtà non odia Edith. Ma... Lui, a differenza di Timothy, ha già capito molte, tantissime cose. Guardala negli occhi, è un avvertimento che Pandino dovrà seguire, se non vuole finire nei guai 😈
Infine, fate attenzione anche a quest'ultima parte, alle parole che Edith ha rivelato a Timmy. Certo, si sapeva già che lei col suo dolore era 'npo' 'na cozza, na bigbaboll 'nsomma, ma be'... La realtà è ben peggiore. Edith si condanna a star male non per semplice vittimismo (altra sua propensione patologica), ma perché a volte... a volte alcuni dolori sono anche l'unico modo che abbiamo per ricordare certe emozioni, i brividi che abbiamo posseduto.
A volte soffrire non è che un altro modo per amare; tenete bene a mente questo concetto per i prossimi capitoli.
Perché dico questo? Oh be'...
Diciamo così.
I prossimi capitoli potrebbero essere tutti riassunti con dei begli ashtag.
#emòsocazzi
O ancora
...
#pandinocorriinmessico
A presto ❤️
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