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Sentirsi neve (parte due)

«Pandino, amore mio, dai, non fare così.»

La torta. Doveva concentrarsi unicamente sulla torta.

«Non mi toccare, non ti avvicinare, non mi respirare accanto.»

Il cacao, doveva concentrarsi unicamente sullo spargere il cacao in modo omogeneo.

«Oh, luce dei miei occhi, perché dici questo? Hai idea di quanto le tue parole mi spezzino il cuore? Hai idea di quanto abbia faticato per trovare il vestito giusto per celebrare le nostre nozze?»

Le luci della cucina non brillavano a sufficienza per uccidere la gigantesca ombra di Killian alle sue spalle, e nonostante Timothy stesse facendo di tutto pur di ignorarla, questa si ripresentava l'istante successivo, per investirlo assieme alla coltre di parole che il suo coinquilino non la smetteva di tirare fuori dalla sua stupida bocca. 

«Ci ho impiegato tantissimo!» proseguì Killian, e in quel momento Timmy avrebbe davvero voluto che, se lo avesse ucciso, lo Stato lo avrebbe assolto per legittima difesa. «Mesi e mesi alla ricerca dell'abito perfetto! E questo è il ringraziamento che mi riservi dopo tutte le mie fatiche? Porti a casa una vecchietta e mi screditi così di fronte a lei asserendo che non merito il cervello?»

«Chiamami di nuovo vecchietta e vedrai dove ti ficcherò la punta della sigaretta accesa, marito impavido.»

La voce di Edith chiocciò fuori dal nulla, da oltre il bancone che separava la cucina e il soggiorno, e fu quella la goccia che fece traboccare il vaso della vergogna di Timmy, ormai così rosso da pensare di esser diventato un corpo fatto solo di sangue. 

Afferrò la torta ormai pronta e la ripose in frigo, ignorando stoicamente il fatto che ora Killian lo inseguiva come un cucciolo d'anatra con la sua mamma, e ignorando anche la nudità di quest'ultimo, ancora palese e censurata soltanto da quella specie di fiocco gigante sulla zona bikini.

D'improvviso iniziava a pentirsi davvero di non esser tornato da Audrey per le vacanze natalizie, almeno lì avrebbe potuto esser certo di non essere vittima di un simile teatrino. Solo qualche smorfia qua e là, sorrisi costruiti e la solita e perenne inclinazione da parte di quasi tutti i membri della famiglia a fingere che lui fosse solo un fantasma.

«So cosa stai pensando, amore mio» proseguì Killian a quel punto, le braccia serrate attorno al petto, «mi spiace però deluderti, questo piano era previsto da tempo. Se anche fossi tornato a casa tua, io mi sarei comunque presentato lì con il mio stupendo abito da sposa.»

Ma certo, ovviamente.

«In effetti un po' me ne pento» Killian si grattò il mento con il rimpianto a lasciare una smorfia sulle sue labbra, «pensa a come Audrey la strega avrebbe reagito... ohhh, che goduria.»

«Tu devi farti ricoverare.»

Era la prima volta che Timmy si trovava così concorde con Edith su qualcosa, quasi gli salirono le lacrime di commozione a quel pensiero.

«Senti chi parla» ribatté il suo coinquilino, fulminando un'occhiata che lui stesso auto definiva più volte "sguardo da testosterone alfa", «a te dovrebbero richiedere un esorcismo per tutte le bestemmie che hai tirato fuori in meno di un minuto. Ma perché ti piace, TimTim? Perché preferisci lei a me? È praticamente una portatrice ambulante di batteri e di blasfemie! Come puoi prediligere la sua patata al mio meraviglioso baccalà?»

Edith, ancora seduta sul divano, guardò Killian con occhi da serpente: veleno nel grigio delle iridi, soffuso soltanto dalla coda di fumo che si arricciava dalla punta della sua sigaretta. Unico simbolo di calma in tutta quel marasma era Michelangelo, reduce dalla sua esplorazione dell'appartamento, che aveva approfittato della sedentarietà della padrona sul sofà per accollarsi sopra le sue gambe.

C'era da dire che, se uno sconosciuto avesse assistito a sua volta a quella scena, avrebbe potuto tranquillamente pensare che Edith fosse un membro di qualche gang mafiosa, tant'era il fumo assassino che le anneriva lo sguardo in quell'attimo.

«Tu stai davvero cercando di farmi incazzare oggi» tuonò a quel punto la donna. «E chiami il tuo baccalà meraviglioso? Per piacere, con quel fiocco sembri la copia mal riuscita di un puffo.»

«Almeno io mi puffetto TimTim, tu da quanto è che non lo fai, vecchia puzzona? Ah, dimenticavo! Tu non ti puffetti nessuno da un bel po', zitellaccia.»

Nota per il futuro per Timmy: mai, mai più permettere a Killian ed Edith di coesistere nella stessa stanza.

«Finitela, tutti e due» gracchiò alla fine il ragazzo, le tempie pulsanti a causa del mal di testa che il loro scontro gli stava provocando. «è la vigilia di Natale, almeno per oggi comportatevi come due persone normali.»

«Io odio Dio» dichiarò solenne Edith.

«Il mio unico Dio è la patata» asserì l'attimo dopo Killian. 

Avrebbe davvero dovuto tornare a casa da Audrey, sul serio.

«Non m'interessa» mormorò dopo qualche secondo passato a compiangere quella scelta, «la cena è quasi pronta, quindi, per favore, cercate di non uccidervi a vicenda. E Killian, ti prego, mettiti addosso qualcosa.» Con uno sguardo imbarazzato, Timmy osservò ancora una volta il corpo praticamente nudo di Killian, i muscoli pompati e il fiocco rosso che spuntava come un bouquet sulla sua vita. 

«No!» tuonò Killian, sfoderando il suo lato vittimista e infantile, la voce improvvisamente bambinesca mentre gonfiava i suoi occhi con una coltre di lacrime. «Avevo programmato tutto alla perfezione, mio amato! Gli abiti nuziali! Il mio anello di matrimonio! Tu avresti dovuto scioglierti di fronte alla perfezione dei miei muscoli sudati e avresti più tardi vestito la mia pelle nuda con della panna spray sui miei capezzo-»

«Killian

Killian, capriccioso com'era, rispose alla supplica di Timmy con una smorfia degna di un undicenne, le lacrime che colavano copiosamente sul suo viso e ne bagnavano la pelle dorata, e infine, dopo aver inscenato uno svenimento teatrale, iniziò a sculettare via verso il corridoio delle loro stanze con fare indignato: «Tanto lo so che mi vorrai, prima o poi, Pandino!» lo udì gridare. «Guarda che culo marmoreo possiedo! Molto meglio di quei bottoncini che la vecchiaccia ha al posto delle tette!»

Il rumore della porta della sua camera che si chiudeva non fu sufficientemente alto per nascondere quello della rabbia di Edith, sicuramente un presagio dei suoni che le ossa del suo amico avrebbero prodotto in futuro quando la stessa donna che aveva appena insultato le avrebbe rotte una ad una.

«Ricordami il motivo per cui non mi è lecito ucciderlo, ora e subito» fu l'ordine di Edith, i cui occhi erano ancora aggrappati all'ingresso del corridoio, quasi nella speranza di poter dar fuoco alla stanza in cui Killian si era rifugiato, col semplice pensiero.

«Lui... ehm...» Timmy avrebbe davvero voluto darle una ragione valida, ma in un simile momento persino la sua mente sembrava tifare per quel possibile assassinio. «Perché finiresti... in prigione?»

«E questo dovrebbe frenarmi? Ti ricordo che sono un'antipatica asociale che odia il mondo intero e spera ancora nell'armageddon.»

«In prigione non potresti fumare ogni volta che vuoi.»

Sembrò riflettere su quella constatazione, con una serietà che raramente si poteva rintracciare nei suoi quando la si spronava a prendersi cura di sé stessa. Ma era ovvio che così andasse, perché se c'era una cosa che Timmy aveva imparato in tutti quei mesi passati a lavorare per lei, era che Edith aveva una classifica molto rigorosa delle sue priorità, e le sigarette ricoprivano il secondo posto di quella scala gerarica, battute soltanto dal suo dolore.

«Maledetti bastardi» la sentì mormorare, prima di sbocconcellare un altro refolo di fumo che si liberò nell'aria come nastri di cartapesta.

«Edith...»

Le parole aggrumate dietro la cintura delle labbra si sciolsero in schiuma, non appena lei lo guardò; sempre così, Edith, che sapeva insinuarsi nei suoi occhi fino a dilatargli le pupille, per avere una spazio più grande in cui avrebbe potuto affondargli.

In verità Timmy aveva davvero troppe cose da dirle, in quel momento. Avrebbe dovuto scusarsi per averla costretta a raggiungerlo lì, per avere un coinquilino così stupido, per averla disturbata di nuovo in quel modo. Avrebbe dovuto farle delle domande in merito alla chiamata di Audrey, capire quanto altro a fondo avrebbe dovuto sprofondare nell'agonia di non riuscire a farsi amare dalla propria madre.

Avrebbe dovuto, avrebbe voluto...

Ma lui poteva soltanto guardarla, perché lì, immersa in tutte quelle decorazioni natalizie, Edith spiccava e bruciava più di qualsiasi altra luce. I suoi occhi ardevano su Timmy, gli indolenzivano la lingua e cadevano oltre la patina delle parole che avrebbe dovuto rivolgerle; Edith aveva uno sguardo d'aquila, predatore di segreti, e il ragazzo se li sentì arpionare tutti d'un colpo dai suoi artigli d'argento. Era un'esplorazione che lo induceva quasi a vergognarsi, quasi a scongiurarla di non guardarlo così nel profondo, dove erano stati seppelliti tutti gli sdruccioli inconvenienti, i pensieri proibiti, la frugalità della propria vita.

Le labbra di sangue di lei lucidate dal fumo, parole di nebbia ad affumicargli i pensieri... «Timothy-»

Lo squillo improvviso del telefono interruppe quel momento, s'incastrò fra una cellula e l'altra della pelle di Timmy, per smuoverle tutte in un'onda di sorpresa, ed Edith chinò gli occhi, d'improvviso cheta, con un sollievo che pareva ferire il suo sorriso.

«Io... ecco... rispondo un attimo.»

Si allontanò in fretta e in furia, pomelli roventi al posto delle guance, per rientrare in cucina e trovare conforto nell'effluvio incantevole del cibo appena sfornato - seppur la mente fosse ancora squarciata da quegli occhi, il loro mercurio che scorreva viscoso lungo gli assoni e i dendriti, per intossicarli e renderli pregni solo del pensiero di lei, l'eco del suo nome a ripercorrere tutte le sinapsi.

Ma bastò guardare lo schermo del telefono, il nome che era stampato su quella chiamata, che tutto appassì in Timmy, e quando se lo portò all'orecchio, si ritrovò a deglutire i cadaveri di quelle fantasie.

«Pronto?»

«Tim! TimTim! Hai risposto! Hai risposto!»

Il respiro finalmente tornò a placare il tremore delle sue dita, non appena l'allegra voce di Vanessa gli esplose in testa. Così fragile, sua sorella, così dolce; una delicatezza che le era stata timbrata alla nascita, e che ora ammutoliva il tumulto creatosi nel ventre di Timmy, non appena si era accorto che la chiamata proveniva da casa.

«Ehi, ciao, principessa.»

«TimTim! TimTim!» Vanessa sembrava fuori di sé dalla gioia, un'allegria così spensierata che lui quasi gliela invidiava. «Buon Natale, TimTim!»

Sentì le proprie labbra venir masticate da un fragile sorriso. «Non è ancora Natale, principessa, è la vigilia.»

«Lo so, lo so» dall'altra parte, sua sorella sembrava quasi affranta nel dover ammettere di aver sbagliato, ma fu un abbattimento che durò solo qualche secondo, sostituito in gran fretta dalla meraviglia che solo un bambino può possedere davanti al Natale. «Perché non sei qui, TimTim? Volevo stare con te a Natale.»

«Mi dispiace» senza neppure accorgersene, il suo sorriso si fece più grande, stavolta, però, fabbricato dalle mani della sconfitta, la stessa arrendevolezza a cui si aggrappava per soffrire un po' meno a fondo, «non... è un po' complicato.»

«È perché la mamma non ti vuole, TimTim? Perché la mamma è sempre cattiva con te?»

Silenzio in lui e fuori di lui, la tensione che gli pizzicava i tendini. 

Vanessa era forse l'unico membro della famiglia a non conoscere ancora la verità, l'unica che possedeva ancora il privilegio di esser totalmente all'oscuro delle origini di Timmy. Piccola e gracile com'era, nessuno aveva mai trovato la forza di confessarle la verità, troppo ingenua e delicata per esser spezzata così in fretta dai graffi dell'odio.

Ma ciò che in pochi capivano, ciò che in pochi faticavano a comprendere, e che Timmy aveva invece imparato a sue spese sulla propria pelle, era che i bambini, pur nella loro scapestrataggine e innocenza, hanno occhi di neve, e in tutto il loro bianco saranno i primi a scorgere le chiazze di sporco, i rumori di troppo, gli errori che grattano sulla superficie brinata.

Vanessa non era un'eccezione; otto anni solo di fatto, ma una coscienza immortale dentro, talmente pallida da poter individuare immediatamente gli aloni abbozzati dalle stelle, l'opacità con cui Audrey raffinava la propria ira, la rendeva più pungente.

«È... complicato, principessa» Timmy inghiottì una cascata di lacrime in cui avrebbe voluto soltanto sprofondare, prima di violentare con più forza il proprio sorriso, trascinarlo ai confini del viso per suturare fra i denti tutte quelle parole che gli si impilavano in gola.

«TimTim... la mamma ti ha trattato di nuovo male oggi?»

Quella domanda improvvisa lo stupì, Timmy aggrottò la fronte. «Oggi?»

«Sì, la mamma ti ha chiamato poco fa, vero? L'ho sentita che parlava con te al telefono. E poi, quando è uscita dalla sua stanza, era arrabbiatissima» ci furono altri rumori dall'altra parte della cornetta, e stavolta, quando Vanessa riprese a parlare, lo fece quasi sussurrando, probabilmente per non esser sentita da nessuno. «Che cosa le hai detto, TimTim? Non ho mai visto la mamma così arrabbiata! Sta trattando tutti male, adesso, persino Vincent! E lei Vincent lo adora! Invece, da quando ha chiuso la sua telefonata con te, non ha fatto altro che sgridarlo tutto il tempo! Tratta male pure papà!»

Audrey?

Audrey... arrabbiata con lui?

Talmente arrabbiata da prendersela persino con suo fratello, il figlio per cui lei andava tanto fiera?

Per qualche secondo Timothy non riuscì a comprendere.

Ma poi... un lampo, una consapevolezza che gli smosse le membra e gli schiaffeggiò il viso, e in un gesto istantaneo Timmy voltò gli occhi verso Edith, ancora seduta sul divano, la sigaretta fra le labbra e il viso dedito ad osservare quasi con timore Michelangelo che le leccava la mano.

Ho risposto a una chiamata, il mittente era la tua cara mammina.

No...

Non era possibile.

«TimTim?»

«Vanessa...» Timmy si schiarì la gola, e in quell'esatto momento gli occhi di Edith trovarono i suoi. La donna inarcò perplessa un sopracciglio, non appena si accorse dello stupore che ricamava le ciglia di lui. «Ti... ti richiamo più tardi, ok? Divertiti assieme a tutti quanti. Buon natale, principessa.»

«Oh, ok, TimTim!» La voce squillante della sua sorellina non fu sufficiente per ridestare l'anestesia che aveva prosciugato tutte le preoccupazioni del ragazzo. «Salutami Killian! Oh, e mi piacerebbe un peluche da panda come regalo di Natale! A dopo, TimTim!»

La chiamata si chiuse l'istante dopo, Timmy abbandonò il telefono sul bancone della cucina, e s'incamminò verso Edith con passi da formica. Nello stomaco lo stupore e la meraviglia si intrecciavano in un viluppo di incertezze, legavano i denti di Timmy fra loro fino a fargli stridere le mascelle contratte.

«Edith...»

Lei rimase immobile, ferma, troppo occupata ad evitare i baci che Michelangelo voleva abbozzarle sul mento per far caso al tremore nella sua voce. «Cosa c'è?»

«Che cosa hai detto ad Audrey quando hai risposto alla chiamata?»

Edith si paralizzò, con la mano stesa davanti a sé per bloccare la testa del suo gattino ed impedirle di raggiungere il suo volto.

«Mia sorella Vanessa...» Timmy si schiarí la voce, prima di riprendere a parlare. Gli sembrava ridicolo anche solo pensare una cosa del genere, credere così ardentemente a qualcosa che sapeva non avrebbe potuto succedere. Eppure... Eppure... «Ha detto che Audrey è furibonda da quando ha chiuso la chiamata. Da quando... ha parlato con te.» Alla fine trovò il coraggio di tornare a guardarla negli occhi, e in essi vi scorse un'ombra che fece traballare la polvere nelle iridi, un battito, un solo battito. «Che cosa hai detto ad Audrey, Edith?»

Le labbra di lei non si mossero subito, insabbiate da quell'ombra che ora le colava dalle ciglia, le picchiava le guance, infossava tutta la sua sicurezza per macchiarla di un imbarazzo inavvertito.

«Parole» gli rispose alla fine, con una fragilità che scomodò la rigidezza dell'argento per avvilupparsi negli occhi. «Le ho detto delle parole.»

Vedere Edith arrossire era sempre un'occasione particolarmente rara.

Quella donna non aveva vergogna di nulla, avvezza a qualsivoglia forma di rispetto verso sé stessa; ma bastava sfilare il filo della gentilezza dalle trame del suo rancore, e d'improvviso lei sembrava smarrirsi tra rovi d'umiliazione e i cocci smembrati del suo carapace.

Come se fosse un obbligo, per lei, quello di impeciarsi, scartavetrare ogni strato di altruismo e lasciarli cadere a terra, per mostrare solo il lerciume intinto nella sua carne.

Come se fosse quello il suo ruolo, quello della donna egoista, fabbricato dall'inchiostro di un libro di fiabe in cui era proprio lei a dover recitare la parte del cattivo. Per poi percepirsi criminale e peccatrice quando, fra le pagine sfogliate dai miracoli, si scopriva protagonista ed eroina - anima di carta che si strappava in milioni di coriandoli piangenti, una volta aver compreso che l'epilogo di quella favola aveva da sempre previsto un lieto fine per lei.

«Io...» Timmy non aveva idea di cosa dirle, perché fra tutti quei fogli non aveva ancora trovato il paragrafo con cui farle vedere che lei era sempre stata così. Che nessun lettore della sua storia, caduto fra gli incarti della rabbia e i ghirigori della passione, avrebbe mai potuto pensare che Edith fosse destinata al ruolo dell'antagonista. «Grazie, Edith.»

E lei arrossì, ancora di più. Una veste di vergogna che si rattrappiva nei solchi del viso, nelle sdruciture delle ciglia traballanti - gli occhi come nuvole arrossate dal loro stesso pianto, e le labbra... Le labbra che si mangiavano fra loro, denti aguzzi, morsi a ingoiare le guance...

«Tua madre... Tua madre mi sta sul cazzo, te l'ho già detto» la sentì dire, e il modo in cui si aggrappò a quella scusa apparve disperato. Vibrazioni che le ossa di lei faticavano a trattenere, che sembravano cristallizzare qualsivoglia speranza. E rovi e rabbia ad infiorarle il recinto di ciglia, bucare i suoi occhi fino a piangere sangue. «L'ho fatto per questo, quindi smettila di ringraziarmi come se fossi una specie di buon samaritana.»

«Se anche lo fossi, dove sarebbe il problema?»

Michelangelo riuscì finalmente a baciarle il mento, con sguardo fiero, ma Edith, presa com'era a non perdere i brandelli della sua carta, li ingnorò; eppure non fu in grado di nascondere il clangore che il suo petto emise, quando vi fece cadere al suo interno quei respiri sabbiosi che si rifiutava di far uscir fuori.

«Non lo sono, questione chiusa» disse. «Tua madre ha solo avuto la sfiga di incontrare una donna che è persino più stronza di lei.»

«Però...»

«Certo che le vecchiacce sanno tirar fuori scuse impensabili!» La voce di Killian emerse dagli abissi all'improvviso, facendo sussultare Timmy quando se lo ritrovò alle proprie spalle, fortunatamente ora vestito. «Pandino, amore mio, non ti fidare di lei. Io so la verità. Oltre che una vecchia, questa qui è pure una pervertita!» Con un gesto possessivo, il suo coinquilino lo afferrò per la vita e indicò Edith. «Per tutto il tempo che hai parlato al telefono, la vecchiaccia non ha fatto altro che fissare il tuo sodo e pandoso culet-»

Non riuscí a capire come fosse possibile, ma l'esatto istante dopo, sulla faccia di Killian vi trovò attaccata la scarpa di Edith.

Sgranò gli occhi, li rivolse alla mittente di quel lancio, e ciò che trovò fu il covo della più tremende delle ire.

«Io tornerò indietro nel tempo» la udì gridare, «e costringerò tuo padre a infilarsi un fottuto preservativo il giorno in cui sei stato concepito.»

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