Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

Macchia (1/2)

Lei è stata un evento
che mi ha travolto fortemente,
troppo fortemente.
Ed io, forse, ero troppo distratto
o troppo disattento per non innamorarmi.

Charles Bukowski

Lei era così bella.

Continuava a dirselo, continuava a pensarlo, da così tanto tempo che neppure ricordava quando aveva iniziato; era un genere di meraviglia, la sua, che entrava dentro e divorava persino il tempo, non aveva minuti e secondi, s'imprimeva in fondo, nell'abisso di ciò che era sempre esistito per lui, di ciò che non sarebbe mai perito.

Lei era così bella.

Una bellezza nitida e palpabile, incartata dentro un corpo tremulo, costellazioni di lentiggini e capelli scarlatti. Viveva floscia sulla pelle bianca, indossata inconsciamente da due occhi rotti da troppi anni e troppi rimpianti, ed era proprio in quelle incrinature che brillava di più, sedimentata all'angolo delle ciglia arrossate.

Seduta sul letto, fragile e contorta al tempo stesso, dipinta di rosso, dipinta di tutto, un'eternità che finiva divorata da due labbra imbrattate di croste.

«Cosa c'è?» la sentì chiedergli, e Timothy non poté rispondere subito, preso com'era a venerare una simile bellezza. Perché non ci credeva, lui, non ci credeva che era proprio davanti ai suoi occhi, nuda nella carne e nei sentimenti, a un respiro da lui, a un abbraccio di distanza. Non ci credeva che l'aveva con sé, quella bellezza, che aveva ricevuto l'onore di poterla amare, così, semplicemente lui, semplicemente lei, semplicemente loro.

Edith lo guardava a gambe incrociate, le lenzuola spumeggiavano sulla sua pelle, nascondendo curve e tentazioni sotto creste di seta, come onde che celano i coralli più preziosi sotto le loro intemperie. Occhi aperti, lei, palpebre rigide, cuore spaventato. Gli sembrava strano, ma per qualche motivo, da quando aveva potuto conoscerla anche sotto la pelle, a Timothy sembrava di poterla sentire in modo diverso.

Come se la sua pelle fosse anche la propria, e i loro cuori un unico nucleo, come se avessero cucito i loro capillari e sogni in unico tessuto, fatto di loro, fatto di sensazioni che vivevano insieme, nello stesso momento.

E forse era per questo se ora la guardava e sentiva anche la paura di lei, quel timore che non era mai scomparso, nemmeno ora che erano entrambi nudi sul letto. Un tremulo dissapore ancora gorgogliava nelle pupille, ed Edith non sapeva nasconderlo, non poteva celarlo, non a lui che poteva sentirlo tanto quanto lei.

«Mi inquieti» aggiunse poi, «più mi fissi, più mi inquieti.»

«Non posso guardarti?»

Lei aggrottò la fronte, prima di rispondere, e lo guardò a proprio modo, come sempre faceva, con gli occhi che grattavano su di lui, sul suo corpo sdraiato, scorticandolo anche del più piccolo grammo di esitazione. «Fai come vuoi» gli rispose soltanto, prima di allungarsi verso il comodino al suo fianco ed afferrare il pacchetto di sigarette.

«Anche da ragazza fumavi?»

Lei si bloccò, con la sigaretta appena accesa sulla punta delle labbra. «Da dove sbuca fuori questa domanda?»

Timothy scrollò le spalle, non aveva il coraggio di rivelarle la verità.

Il sentimento che lo aveva travolto, quando lei gli aveva confessato com'era avvenuto il parto del bambino.

Il rancore per non aver potuto esser presente in quegli anni della sua vita, anni in cui non era mai nemmeno esistito, né per lei né per il mondo. E di quegli anni, ora, desiderava farne parte, se non della memoria, almeno della loro conoscenza.

Per esserle più vicino, per poterla comprendere meglio.

Per poterla amare ancor un po' di più, ancora un po' più forte.

Si mise a sedere a sua volta, osservandola mentre aspirava i primi tiri dalla sigaretta. «Non fumavo da ragazzina» gli spiegò alla fine, «ho iniziato piuttosto di recente, a dirla tutta. Tre anni fa, dopo aver...» si fermò di nuovo, e quasi sembrò che fosse il fumo a mangiarle da dentro le labbra, e non le labbra a vomitare fuori il fumo. «Da ragazzina non mi piaceva l'odore delle sigarette. Henry le fumava sempre e puzzava da far schifo. Quando mi baciava sulla guancia, sentivo tutti i suoi baffi pregni di nicotina.»

Poteva benissimo immaginarla, Edith ragazzina, che si scansava dai baci del nonno non tanto per il loro odore, quanto per la sua vergogna a riceverli.

«Preferivo decisamente il sesso» concluse alla fine, con un sorrisetto divertito e malizioso. Timothy sorrise a sua volta. 

«E adesso?»

«Sceglierei sempre il sesso, anche se...» si fermò, con gli occhi al soffitto. «La sigaretta dopo il sesso è come... la ciliegina sulla torta.»

Ridacchiarono insieme, e lui tornò a guardarla come prima, a inebriarsi della sua bellezza. «Sono sorpreso» le confessò, «ti ci vedevo proprio, da ragazzina, a finire più volte in presidenza perché di nascosto fumavi nei bagni.»

«Oh, fidati, in presidenza ci finivo spesso.»

«Sì, Lily mi ha informato che non avevi una bella reputazione.»

Lei espirò un'altra nuvola di fumo, prima di schiudere le labbra in un ennesimo sorrisetto lascivo. «Ero persino più infame di adesso, se è questo che ti stai chiedendo. Temo che nemmeno tu saresti riuscito a sopportarmi all'epoca.»

E invece sì.

Lui ne era certo.

Come era certo di amarla in quel momento.

Di amare ogni parte di ciò che lei gli stava mostrando e donando, i minuscoli granelli della sua esistenza, quei pezzi di sé che erano tanto inutili per lei quanto preziosi per Timothy. Con essi lui la ricostruiva nel suo passato e presente, ricuciva i lembi dei giorni in cui non aveva potuta amarla con quelli degli attimi in cui adesso poteva farlo. 

Edith finì la sigaretta, e lui, inevitabilmente, si ritrovò a sporgersi per baciarla.

Sembrò sorpresa, lei, o forse più che altro spaventata. Sempre, sempre spaventata, Edith. Anche se ora lui la stava toccando, anche se ora lui la stava amando, lei continuava a temere e tremare, continuava a spezzarsi in paure a cui dava troppi spazi.

Ma la amò, Timothy, la amò lo stesso. 

Qualcosa in lui premeva e zampillava, un atroce dubbio a cui non voleva dar voce o sensazione, era lì come una bestia incosciente che aspettava solo il momento opportuno per divorare la sua preda. 

La amò, Timothy, la amò lo stesso.

Ma fu proprio quando affogò in quell'amore, che arrivò a chiedersi se per caso affogare non fosse che un altro modo per scappare.

***

Si svegliò da solo, nel cuore della notte.

Sepolto sotto le lenzuola, con il volto ancora assopito sul morbido cuscino.

Ma la tenerezza che gli si era stretta al petto per tutto quel tempo scomparve in un istante, travolta via da un uragano, quando vide che, al suo fianco, non c'era più nessuno.

Vuoto il lato destro del letto, vuoto il lato destro del suo cuore.

L'oscurità abbracciava la camera, inondandola d'inchiostro, e masticava lentamente ogni rumore e respiro, impossessandosi delle speranze per farle appassire in un istante nella coltre corvina della sera.

Timothy capì subito, non appena si sollevò a sedere sul materasso, e vide un pulviscolo di luce agguantare il buio, proprio oltre la porta della stanza.

Come una premonizione, un tremendo sortilegio che scorreva nel suo stesso sangue, e prudeva e grattava in testa, cantilenava una tremenda verità.

Come la bestia a cui credeva di esser fuggito, e che ora lo intrappolava nel terreno con le sue zampe, per sbranarlo con fauci e artigli insaguinati.

La macchia è tornata.

Il maleficio aveva ripreso a narrare il suo tremendo inganno, portava la voce della donna che amava, e scivolava suadente nell'aria, proliferando in un canto appena sussurrato.

Avrebbe soltanto voluto chiudere gli occhi e finger di esser sordo; perché certe macchie erano molto più difficili da accettare, quando sporcavano l'anima di un'altra persona. Averle dentro di sé avrebbe generato troppi sollievi, sentirle fuori di sé , invece, le rendeva impossibili da rimuovere; come tumore, come una malattia che avresti voluto curare ad ogni costo, ma per cui non potevi far nulla, perché mai l'avevi posseduta, non eri tu ad esserne rimasto infettato.

Scivolò dal materasso in punta di piedi, riafferrando i vestiti che erano stati abbandonati sul pavimento in parquet. La voce continuava a cantare come una sirena arenata, e forse, se solo lui non avesse saputo, se solo quel giorno non avesse mai aperto la porta della camera proibita, avrebbe quasi potuto credere di star vivendo un sogno.

Ma era un incubo, invece, un incubo che viveva nei suoi occhi e nel cuore dell'anima per cui si era smarrito, che rimarcava le pagine di una tragedia infinita, di una madre spezzata.

Si finì di vestire, accorgendosi solo in quel momento delle sue mani tremanti. Oh, se tremavano le mani, come petali in un diluvio; cigolavano i battiti, addirittura, mentre a passo acquattato inseguiva il canto funereo della sirena spenta, pullulava l'impotenza dell'eroe che non avrebbe mai potuto salvare la sua amata.

Inseguì il sentiero di luce che aveva leccato la moquette del pavimento, ne ricalcò le briciole abbandonate sul corridoio del primo piano, e anche il suo ultimo grido speranzoso ammutolì, quando il viottolo bianco convogliò in unico punto: nell'uscio schiuso della camera.

Della camera proibita.

La camera del bambino.

La macchia è tornata.

Avrebbe soltanto voluto poterla rimuovere, pulire e strofinare finché non fosse scomparsa.

Ma non era sua, quella macchia.

Non era sua la voce che cantava ancora, in quel momento. Lui non conosceva una ninnananna del genere, non aveva mai avuto modo di ascoltarla prima d'ora.

Si fermò, con la mano ferma sulla maniglia.

Sapeva già cosa avrebbe incontrato là dentro.

Lo sapeva, ma continuava a pregare di sbagliarsi.

Continuava a credere nei miracoli, e che magari quella notte tra loro fosse davvero bastata, e che il suo amore avesse potuto sul serio far seccare la macchia per strappargliela via.

La amava così tanto.

La desiderava così tanto.

E poteva far così poco per lei.

Non sarebbe mai stato il marinaio che avrebbe riportato in mare la sua sirena, o l'eroe che avrebbe salvato la sua amata; sarebbe rimasto per sempre Timothy Barlow, un ragazzino di vent'anni, pieno di difetti e di dubbi, che l'amava e non aveva armi né cure con cui darle sollievo.

Aveva paura.

I brividi si scucivano sotto le unghie, intersecando parole ed emozioni in un'unica sensazione: quella di dover, per l'ennesima volta, accettare la verità che si rifiutava di accogliere. Gli si riversò in gola, con ululati che tremarono nel tunnel di ossa e carne, trangugiando lacrime che ancora non avevano ottenuto la loro corona di ciglia.

Giuda, Pandino, traditore della sua stessa filosofia di vita, aveva continuato a baciare l'inganno, tutto pur di non perdere l'unico fiore che stava avvizzendo sulla punta dei suoi occhi. Ma quel bacio era stato presto condannato, tariffato di tutte le sue vergogne; ed eccolo che gli si riproponeva davanti agli occhi, nella sottile virgola di luce che appuntava la porta della camera proibita.

Non piangere, si ordinò nella testa, e le dita ammanettate alla maniglia iniziarono a tremare, non piangere, non osare piangere. Il pianto non sarebbe servito a nulla, in quel momento, avrebbe soltanto sviscerato la sua impotenza, e rotto quel poco che era rimasto della sua sirena; si disse, invece, di avere coraggio. Quel genere di coraggio che non nasce per bisogno e nemmeno per necessità, nasce per la volontà di imparare a crescere, di sentirsi migliori anche se migliori non lo si diventerà mai. Come una stella già spenta che rifiutava di diventare oblio, e continuava a tracciare ad anni luce la sua scia di luce per gli occhi umani, e a bruciare di bianco nel vello sporco della notte, anche se di bianco non aveva più niente, anche se nemmeno più bruciava calore, ma dalla Terra nessuno lo avrebbe mai potuto scoprire.

Aprì la porta.

Il cigolare metallico dell'intercapedine si smarrì sonnolente, e la luce che lo aveva ammaliato si addolcì nei suoi occhi, mostrandogli di nuovo il mondo fanciullesco in cui il maleficio aveva dimora.

Edith era seduta sul letto del bambino, e gli dava le spalle.

Nell'immensità di quella camera piena di giochi e peluche, abbottonata a un mondo fiabesco, in cui le pareti si muovevano e i colori libravano sogni dentro l'intonaco, lei pungeva subito per la fragilità della sua sagoma. Aveva le spalle contratte, forse così strette perché non crollassero come l'anima di chi le possedeva, e i capelli si scioglievano in un torciglione di fuoco, cadendo melliflui sulla schiena eretta, tremante.

Parlava, quella era la sua voce.

Quello il suo canto.

Canto di madre.

Canto di malattia.

D'infezione.

Suonava e mormorava, cullando ciò che Timothy sapeva già essere un semplice cofanetto, e regalava a quest'ultimo sogni che non avrebbero mai potuto creare insieme, felicità che non sarebbero riusciti a fabbricare. Separati nella vita, uniti nella febbre di una follia densa, bollente.

Timothy respirò a tratti, trangugiò sorsi d'aria a singhiozzi, il petto pompava tremendi assilli, gli si piantavano in testa ed esplodevano, paure sudice gli tinteggiavano le labbra.

Ciò che udì avrebbe potuto apparire una semplice ninnananna.

La ninnananna di una madre che tentava di far addormentare il proprio figlio appena nato, con gentilezza; ma attento, esplodeva il suo stomaco: ogni nota di quella soave musica era il prodotto della simbiosi di immaginazione ed isteria, s'infossava nei rumori come un batterio incurabile. I capillari dell'aria tampinavano le sue orecchie, vociferandogli la verità: quella non è Edith, quella sirena non è tua, quella follia non ti appartiene.

Strinse le mani in due pugni, le ossa delle dita scricchiolarono ferite dentro quella stretta sanguinolenta, e riprese a camminare in avanti.

Un passo.

E lei continuò a cantare.

Due passi.

E lei continuò a cercar di far addormentare il suo bambino.

Tre passi.

E lei non era più lei. Edith non era più Edith.

La raggiunse, e vide nei suoi occhi la morte.

E la morte non aveva sofferenza, nel viso, né deteriorava la pelle. La morte sorrideva e aveva argento fuso negli occhi, abbracciava un cofanetto nella stretta delle dita pallide, ne baciava il coperchio per non perderne l'amore.

La morte non era Edith, la morte erano allucinazioni che s'incarnavano in un'unica storia di carne e di ossa, in un'unica vita scritta nel sangue.

La vide, ma non fu lei.

Non era lei, non era la donna con cui aveva fatto l'amore, quella che aveva giocato e scherzato con lui, rendendo le sue ultime ore le più emozionanti della sua vita, trasformando i secondi in focoso contatto di pelle contro pelle.

Puoi amare anche la morte, Timothy?

Non poteva.

Voleva farlo, lo desiderava come mai aveva desiderato qualcosa in vita sua, ma non ci riusciva.

Perché lui della morte non voleva vedere alcuna traccia nella donna che amava, lui la morte voleva soltanto scacciarla via dalle sue pupille, e vedere quest'ultime riaccendersi di luce e speranze, riprendere a cullare i suoi occhi nei contorni dell'oblio.

Lui voleva Edith, solo Edith.

Non la creatura che sedeva al suo cospetto.

Perché quella non era lei.

Quella era la sua malattia, il cancro che aveva in testa, lo sciame vorace che le infestava i pensieri, fino a farla smettere di essere viva, fino a farla smettere di essere Edith.

Lo odiava.

Lo odiava con tutto il cuore.

Odiava quella sensazione di impotenza, la marea che lo inabissava in una nausea che non finiva mai.

Voleva soltanto riavere indietro la sua Edith.

La sua fragile, tremante, coraggiosa e vigliacca Edith.

Ma quello che stava guardando era inferno, follia imperatrice di un corpo spezzato.

Cullava il cofanetto con la dedizione di una madre, ma quello non era un bambino.

Quello non era suo figlio.

Non aveva motivo di cantare per lui.

Non c'era nessuno che potesse addormentare con quella ninnananna, se non la sua coscienza.

«Edith.»

Scoppiò l'universo.

Lei lo vide in un attimo, ma non lo vide.

Non vide che era lui, che era Timothy, il ragazzo con cui aveva sorseggiato la notte piena d'amore, non si accorse del suo volto, non lo riconobbe nei suoi tratti.

Ladro.

In questo lo trasformò.

In un semplice ladro.

Non nel ragazzo che l'amava più di quanto amasse la gentilezza.

Fu solo un semplice e volgare ladro.

E urlò, nel vederlo.

Lo spintonò, quando le si avvicinò.

Strilla che tagliavano tutti i suoni.

Paure che si addensavano dentro i loro occhi.

«Non lo toccare!»

Le sue mani sulle spalle, a romperlo, a fargli del male, a graffiarlo, un'unghia gli portò via la carne sulla guancia sinistra, e il bruciore di quella ferita si ripercosse nei ventricoli di Timothy.

Fu come venir pugnalato al cuore.

«Non me lo porterai via! Non me lo porterai via! Non me lo porterai via!»

Non piangere.

Non poteva farlo. Non piangere, non piangere, non piangere.

Nonpiangerenonpiangerenonpiangere.

Non quando lei non avrebbe capito le sue lacrime, né avrebbe potuto dar loro un nome, non quando era lei che stava piangendo, e che diventava vittima del suo stesso dolore, assassina della propria carne.

«Non... te lo porterò via.»

Timothy neanche si accorse di star parlando. Non piangere, e così fece piangere il cuore, perché Edith non potesse mai sentire le sue lacrime. Non piangere, e dal graffio sulla guancia gocciolò sangue, non piangere, e si avvicinò a lei delicatamente, a lei che tremava e lo odiava, affidandogli per sempre il marchio di ladro.

Non. Piangere.

«Voglio solo...» non piangere, «cantare... con te...» non tremare, «farlo addormentare con... te» non amarla, «così... sarà più felice, no?»

Lei singhiozzò un respiro, con le braccia incrociate al petto, per proteggere il cofanetto dalle sue mani, per proteggere il suo adorato figlio. Dov'era Edith? Dov'era finita la donna che amava? Non c'era, non era da nessuna parte. Per quanto la cercasse negli abissi di uno sguardo che aveva navigato poco tempo prima, di lei non ritrovava nemmeno il sapore dell'amore.

«Non... non me lo vuoi portare via?»

Lo chiese come una bambina, con gli occhioni grandi grandi e il cuore piccolo piccolo, e le labbra tremanti, le mascelle che sbattevano fra loro.

Non piangere.

«No, Edith» sospirò Timothy, e sorrise, si sforzò di sorridere per quella creatura che era la vera ladra del suo grande tesoro, «voglio solo... starti accanto, mentre fai addormentare il tuo bambino.»

Le spalle di lei si sciolsero pian piano, le braccia cedettero le difese, e lui la guardò sedersi di nuovo sul letto, col volto infuocato.

«Non... non gli piace se qualcun altro lo tocca.»

Timothy non riuscì a deglutire, gli sembrava che tutto il suo fiato fosse finito in gola e non potesse più farsi stringere dalla carezza dei polmoni.

«Non... lo toccherò» le assicurò, sorridendo, sorridendo di più, ancora di più, «te lo prometto. Però... voglio starti accanto. Va bene? Così non sarete da soli quando si addormenterà.»

La bambina esitò.

La malattia la devastò.

La macchia era lei, la macchia la stava divorando.

Non era lui che le stava portando via il suo bambino.

Era la follia che gli stava portando via lei.

Si sedette al suo fianco, composto, tremante, ed Edith si strinse, si fece più piccola, ancora spaventata, ancora incerta sulle sue reali intenzioni; la collera pulsava finemente nella vena che le scolpiva il collo teso, ma la paura le affinava le dita strette al cofanetto.

«Sono una brava mamma, sai?» gli mormorò alla fine, con la voce che graffiava come unghie su una lavagna. «Sono una brava mamma. Lo rendo felice, felicissimo. Siamo felici insieme. Se sono brava, non me lo toglieranno, vero? Non mi toglieranno il mio bambino, non è così?»

Il labbro inferiore di Timothy tremò.

Non piangere.

Ma il mento ciondolava dalla mascella, sbattevano i denti, digrignando al ritmo della sofferenza, e Timothy si domandò se era quello ciò che si provava a morire: avere tutti gli organi molli, e i nervi stretti, esplosioni tra le costole che non potevano produrre rumori, poiché il corpo era duro, una barriera insormontabile, il corpo era sigillo, una porta blindata.

«Sei... sei bravissima, Edith» cigolò alla fine la sua voce, e con le mani che tremavano posò le dita sulle sue spalle, «sei una mamma meravigliosa... sei una mamma perfetta... non-» Non. Piangere. «Non dubitarlo m-mai.»

Un rossore avvampò sulle guance infossate della donna, come fuliggine, scolorì le lentiggini e appiattì gli zigomi. Gli occhi di Edith si colmarono d'emozione pura, stelle incastonate nelle pupille, come gemme di tenebre; un sorriso ebbro le blandì le labbra, appassionato, materno.

Semplice tumore.

Riprese a cantare di nuovo, dolce fanciulla, sperduta nelle meraviglie di un miraggio.

Ma fu proprio dentro quel canto che Timothy comprese che quello era solo l'inizio di un abisso privo d'epilogo, e fu con costernazione e puro terrore che arrivò ad ammettere ciò che più lo tormentava.

Un giorno quella malattia l'avrebbe divorata del tutto.

Lo sapeva, ormai, ne era certo, la macchia avrebbe proliferato e inquinato ogni suo pensiero e sentimento, si sarebbe sparpagliata scivolando dentro le vene, mangiandole il sangue, cadendole negli occhi.

E sarebbe arrivato il momento in cui sarebbe stata troppo grande perché potesse esser ripulita, così grande che scerparla via avrebbe implicato strappare via anche Edith.

L'avrebbe presa del tutto, sarebbe diventata lei, si sarebbe incollata all'anima fino a prenderne le forme e la sostanza, avrebbe respirato al suo posto e vissuto al suo posto. Gli avrebbe sottratto per l'eternità la donna che amava.

La verità zittì ogni lacrima che colava dalle sue ciglia, non piangere, e invece pianse, con suo sommo rammarico, perché il suo cuore gridava "Come posso amarla? Come posso salvarla?"

Ma inesorabile era la sentenza della mente:

"Non puoi amare una macchia."

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro