La fragile natura della bellezza
Ora che ci rifletteva, anche il giorno in cui si erano conosciute era iniziato tutto con uno schiaffo.
Avevano solo sedici anni, a quei tempi, troppi pochi perché potessero davvero esser definite donne mature, ma abbastanza da saper già distinguere il giusto dal proibito, il buono dal cattivo, specie per occhi di falco come quelli di Edith, da sempre abituati a smarrirsi nel buio, condannati per l'eternità a scorgere soltanto il barlume dell'incanto, senza mai, però, farsi pitturare da esso.
«Cos'è per te la bellezza, Edith?» le chiedeva sempre Henry, mentre le insegnava a dipingere e lei imparava a rovinare le sue tele bianche con coltri fumogene, bitorzoli putrefatti di nuvole ingrigite, e oggetti spenti, scoloriti, con dita rugose, corpi deformati e coltelli per sorrisi.
Edith non aveva mai saputo rispondere a quella domanda, nemmeno una volta. Lei, d'altro canto, non l'aveva mai conosciuta, la bellezza; aveva immaginato che fosse nascosta nelle tasche vuote dei bambini dai sorrisi sdentati, o nell'intreccio di dita di una coppia d'amanti, o forse ancora negli universi dei baci che un padre regalava al proprio figlio il giorno del suo compleanno.
Lei sapeva soltanto cos'era la siccità dell'acquarello che si seccava sulla tela vergine di colori, conosceva unicamente l'aridità di due deplorevoli occhi incapaci di piangere, o la stiratura della curva delle sue emozioni, talmente bollente da render quelle linee piatte e flaccide, infruttuose.
Dal giorno in cui suo padre aveva fatto le valigie e se n'era andato, i picchi altalenanti dei sentimenti erano scomparsi, la perdita aveva smussato le punte delle montagne gonfie delle sue passioni, e ora a ferire il suo cielo erano i ritagli vuoti delle stelle ingemmate che le avevano sottratto.
Perché non importava quanto mangiasse, quanto cibo lasciasse cadere nello stomaco, il suo ventre avrebbe continuato a restare insoddisfatto, arrogante creatura partorita dall'agonia della fame.
Non importava quanta acqua sorseggiasse, la sabbia incollata alla sua gola non sarebbe mai stata fecondata e innaffiata, avrebbe continuato in eterno a scartavetrarle la carne e farle inghiottire cocci di calce rovente.
Non importava quanto amore ricevesse, i pertugi disseminati nel cuore avrebbero lo stesso proliferato in un nubifragio di vergogne.
E allora Edith aveva provato a rompere la catena di quell'oblio, a spezzare la ruota dell'eterna insoddisfazione: violando le regole, divertendosi a ringhiare contro chi era innocente, o regalandosi molliche d'affetto quando concedeva il proprio corpo a qualche ragazzo. Qualunque cosa, qualunque, sarebbe andata bene.
Aveva scoperto in poco tempo che il sapore della pelle sudata, in qualche modo, acquietava il focolare che le bruciava le radici delle emozioni, l'aiutava a illudersi per qualche istante di non sentirsi più vuota.
Così, quando lo sfregamento dei corpi si trasformava in unione volgare, fine a sé stessa, Edith aveva l'occasione di chiudere gli occhi e fingere, per un solo momento, di esser bella.
E finalmente era in grado di percepire il palpito dell'animo, seppur sintetico.
A ogni incontro, a ogni ricerca del piacere, si era ritrovata a perdere un pezzo della sua anima, per ottenere in cambio la disillusione di un attimo in cui tornava a brillare e a sentirsi stella, non più borioso ammasso di ossa e di muscoli a cui erano stati disseppelliti i brividi delle sensazioni.
In tutte le occasioni in cui Edith si era concessa a quei corpi sconosciuti, le era quasi parso di poter strappare il velo grigio che la escludeva dal resto del mondo; protendeva le sue mani e lo sfiorava... carezzava soltanto ciò che c'era dall'altra parte, ma era comunque qualcosa, era comunque meglio del vuoto che si portava dentro, e quelle poche briciole che riusciva ad ottenere in punta di dita, le custodiva gelosamente, le indossava nei suoi occhi come gemme di cui farsi vanto.
Ma Lily, col suo arrivo, aveva distrutto il disincanto di quel maleficio che, maliziosamente, la ragazza aveva costruito.
Era entrata nella porta degli spogliatoi maschili proprio nell'attimo in cui Edith aveva finito di rivestirsi; lei non avrebbe mai dimenticato lo strillo acuto, quasi inumano, che l'aveva interrotta mentre il ragazzo con cui si era appartata le stava voracemente leccando il collo.
Ed era stato così che, finalmente, Edith aveva trovato la risposta alla domanda che Henry le poneva sempre.
«Cos'è per te la bellezza, Edith?»
La bellezza erano le lacrime di Lily.
I chicchi di rugiada che le adornavano le ciglia, e i colori ruggenti su quel volto paffuto, a gridar di rabbia e feroce sofferenza, a strizzarsi e contorcersi fra loro, in un uragano in cui si era incarnato l'arcobaleno dei fiori.
La bellezza era il blu ceruleo che scavava gli occhi infossati di Lily, il rosso del sangue a consumarle le guance, e il vergine bianco delle sue lacrime di perla che rotolavano, cadevano a picco, intessendo un tappeto di gocce d'alabastro sul pavimento.
Era il nero corvino della sua anima, che nutriva le altre emozioni, e queste avevano preso vita di fronte a Edith, in continuo mutamento avevano strillato le loro passioni, attraverso lamenti di lacrime che lei, invece, anima rotta dai vuoti, mai avrebbe ottenuto.
La bellezza era il quadro di pioggia affrescato su un viso sconosciuto di una ragazza tradita, portava ali d'angelo che si spalancavano e facevano tremare il mondo...
E gli occhi, i suoi occhi.
Era stato proprio nel momento in cui aveva guardato i suoi occhi, che la bellezza era fiorita, sbocciata davanti alle pupille ardenti di Edith per condannarla nel suo personale inferno, smascherando la sua natura di mostro incompleto, le protesi artificiali con cui aveva tentato di camuffare la sua anima menomata.
Perché negli occhi di Lily lei, per la prima volta, aveva scorto la fragilità della bellezza.
Ed era la delicata pioggia che aveva fuso le iridi della sconosciuta, fino a mostrarne la sua innocente natura, la delicatezza della labbra che si masticavano fra loro per trattenere i vagiti d'agonia, e le lacrime, le lacrime, le lacrime...
Le lacrime che possedevano tutti i colori e al contempo nessuno, le lacrime che le avevano sciolto il trucco e macchiato il viso; e magari qualcuno da fuori avrebbe trovato quella visione disgustosa, aberrante, ma Edith no, Edith aveva occhi di falco e avrebbe sempre riconosciuto ciò che era di valore, non avrebbe mai confuso la bellezza di un ritratto per uno scarabocchio infantile.
Era stato quasi come venir pitturata, quando aveva incontrato gli occhi di Lily, con acrilici che le avevano arso le narici, e colori scuri ad acquerellarle i peccati, nero su nero, grigio su grigio, odio su odio; Edith aveva guardato la bellezza di quegli occhi dipinti di pioggia e nei loro più profondi abissi aveva intravisto il proprio riflesso.
Si era vista com'era, senza più inganni e malefici, solo lei e la sua anima vuota.
E aveva dovuto ammettere a sé stessa, così, di non aver mai scorto nulla di più brutto in tutta la sua vita.
«Cos'è per te la bellezza, Edith?»
La fragilità di due occhi sciolti in un pianto neonato.
***
Non le avevano forse detto che i cadaveri non soffrono?
Ma lei continuava a farlo, dentro; gocce scarlatte a tampinarle il cuore, una ad una, a pioggia, a caderle sopra le vene sfibrate, a scavarle nel muscolo in cancrena - e allora lui si ribellava, ruggiva, piangeva, supplicava perdono per l'insolenza di essersi finto cadavere quando ancora aveva in tasca scorte di battiti e di amori, Edith lo sentiva infuriarsi in una tempesta di tagli e graffi e per poco quasi non cadde, per poco il suo petto non venne squassato dall'epifania del risorto.
Non era forse vero che i morti non si feriscono?
Eppure ora a rovinarle le pareti dell'anima c'erano grovigli di sfregi e squarci, si diramavano al di sotto dello strato della pelle immacolata; crescevano e si arrampicavano, si nutrivano dell'improvviso rintocco dell'umano, e ferivano, divoravano, sputandole dentro iraconde risate sgusciate quasi per sbaglio dalle crepe che l'avevano appena incrinata.
Faceva male.
Faceva male sentirsi macchiare del peccato dell'affetto, portava le vesti di un'amica che riteneva perduta, era effigiata nel ritratto di quest'ultima, negli occhi liquefatti dal pianto e nelle mani premute sulla schiena di Edith, a tatuarle aloni di dita per ridestare nella sua pelle il ricordo di venir plasmata e carezzata, prima che quei tatuaggi mutassero forma e gonfiassero in lividi pregni di morte.
Quell'amore aveva il profumo di betulle e di un sorriso caldo con cui, in passato, aveva alleggerito la greve tediosità di una vita che a Edith era sempre stata troppo stretta, cucita sulla sua pelle in un modo estremamente rigido.
Il suo corpo pian piano stava ricordando; furono pizzichi di memoria a beccarle nelle tempie, titubarono emozioni e impulsi finora spenti e che ora colavano a picco dai suoi occhi, rovinando al suolo insieme alle lacrime che più non riusciva ad avere.
«Oh, Edith...»
Il vuoto non dovrebbe piangere, ma, nonostante ciò, gli occhi di Edith vennero ugualmente mutilati da un lamento segreto - palpebre che si stracciarono e masticarono a vicenda, con l'urgenza di scoppiare in un refolo di lacrime che non giunse mai. Arrivò invece la turbolenza del volto lacerato dal tormento del calore; un sollievo che la lapidò per quanto paradossalmente le veniva doloroso da accettare.
E furono le guance a scavare le fosse in cui si depositarono le sue paure, le labbra a squarciarsi per il muggito disumano che le esplose negli anfratti della gola, un conato di emozioni che Edith inghiottì violando la sua stessa natura d'egoista. Lo ributtò dentro lo stomaco, ma non fu in grado di occultare le prove del suo passaggio; sul suo volto ormai non c'era più nulla che potesse richiamare al vuoto, solo rivoli di rughe generate dal pianto che mai sarebbe giunto e pelle sciolta dall'asfissia di voler ricambiare quell'abbraccio pur consapevole di non doverlo fare.
Le sue braccia tremavano per il fervente desiderio di sollevarsi e stringere con forza quel corpo che l'aveva accolta a sé, la loro pelle latrava il bisogno di richiamare alla memoria il gusto di fondersi con un'altra già ben nota, di riscoprirne il sapore dopo che questo era stato impolverato dal tempo e dall'ingratitudine dell'egoismo.
«Tu... oh, dannazione, Edith, ero così... così preoccupata per te...»
La stretta si fece più forte, Edith avrebbe solo voluto trasformarsi in una stella in quel momento, troppo calda perché venisse toccata.
«Lily...»
«Se mi dici di allontanarmi, giuro che ti ammazzo, Edith Morrison» sussurrò l'altra, fra singhiozzi che bagnarono la spalla di Edith. «È la mia vendetta per questi tre anni di totale assenza da parte tua, maledetta egoista.»
Era una vendetta agonizzante, che la squagliava e rompeva il suo viso per deflorarne i connotati umani. «Lily...»
Lily, finalmente, si staccò, ma il sollievo per quella resa da parte sua non durò a lungo; le mani della sua vecchia amica le contornarono il volto, sfiorarono gli zigomi rovinati, la pelle distrutta dal tempo e dall'aridità dell'anima, scivolarono con i polpastrelli sulle fosse create da un nutrimento scarso, s'incavarono agli angoli delle tempie e lì premettero. «Sei dimagrita troppo» le sussurrò contro, la voce arrochita e gli occhi quasi sciolti dal pianto, «e Dio, Edith, che cosa sono questi capelli? Quand'è stata l'ultima volta che li hai pettinati? E queste occhiaie? Perché hai queste occhiaie? Sono immense, Dio, sei...» I pollici scivolarono sotto le sue palpebre e le spalancarono, tirarono con forza così che fossero solo le pupille di Edith a mostrare la loro rovina. «Speravo che in questi tre anni almeno...» Si fermò, ma Edith non faticò a concludere la frase nella sua testa.
«Sto bene, Lily» sussurrò alla fine. «Sto bene così.»
«Oh, non ho dubbi sul fatto che tu ti senta assolutamente a posto così, ma non...» Lily si morse il labbro tremante, le sopracciglia folte si scontrarono fra loro per la furia con cui tentò di trattenere altre lacrime. «Dio santo, Edith, sembri un cadavere.»
E lo era davvero, almeno questo era ciò in cui aveva sempre creduto fino a poco fa, fino a quando Lily non l'aveva abbracciata. Ora che le mani della sua amica le plasmavano il viso, però, non ne era più così sicura, il fremito che surriscaldava le sue palpebre sembrava voler asserire il contrario, così come la vibrazione inarrestabile delle ciglia che sbattevano fra di loro per trattenere il bruciore degli occhi.
«Nemmeno tu sei messa così bene, Lily» gracchiò alla fine, sforzandosi di non crollare, vomitò quelle parole con un conato orrendo, che le contrasse lo stomaco, «il tuo naso aquilino si è fatto più gobbo o sbaglio? Sembri Dante in versione femminile.»
Lily schioccò la lingua, in un'espressione costernata e, al contempo... quasi divertita. «Oh, vedo che il dolore non ha fatto appassire il tuo essere una grandissima stronza» mormorò con una risatina tremula, per poi sfiorare il sovra citato naso con le dita. «È cresciuto per impedirmi di notare com'è diventata brutta la tua faccia, purtroppo, però, non ha funzionato, perché me ne sono accorta lo stesso.»
«Mi hai ingannata.»
Lily sollevò il capo, gli occhi nocciola a brillare di un divertimento birichino, selvaggio, che Edith aveva imparato a suo tempo esser fonte di guai e problemi. «Sì» le confessò senza alcuna vergogna, «quando Elize mi ha detto che Timmy aveva iniziato a lavorare per te, quasi non riuscivo a crederci. Tu? Ingaggiare un ragazzo per pulire la tua casa? Ero convinta stesse parlando di un'altra persona, ma a Nicewood esiste una sola Edith Morrison che vive in una discarica personale.»
Edith, inevitabilmente, si ritrovò a sorridere. Fu più un accenno che un sorriso vero e proprio, ma la ferì ugualmente. Sollevò lo sguardo oltre le spalle della vecchia amica, fino a incrociare i volti di Timothy ed Elize. Il primo, perplesso e basito, il secondo, invece, impassibile, assolutamente intraducibile, ma con braci ardenti negli occhi che tradivano il suo divertimento. «Ecco perché mi sembravi familiare» mormorò, «l'ultima volta che ti ho vista, non avrai avuto più di dieci anni.»
Elize scrollò le spalle, in un gesto di assoluta tranquillità. «Lily mi aveva detto di non rivelarti niente» le spiegò, «e tu sai meglio di me che quando mia sorella ordina qualcosa, non puoi disobbedirle.»
Il più spaesato fra tutti era, ovviamente, Timothy. L'unico in quel negozio a non aver idea di cosa stesse accadendo. In parte Edith lo invidiava per questo, avrebbe pagato per non sentirsi ingabbiata come invece era ora, con sbarre di rammarico e preoccupazione a imprigionarla in una trappola di ricordi beati.
«Oh, Timmy, mi dispiace» guaì a quel punto Lily, avvicinandosi a lui con quel sorriso da passerotto che nessuno, tranne chi la conosceva bene, avrebbe mai immaginato potesse nascondere un carattere meschino e subdolo, «ti ho sfruttato un po'. Quando Elize mi ha detto per chi stavi lavorando, non ho saputo trattenermi dal chiederle di convincere te ed Edith a raggiungerci qui.»
«Io...» Gli occhi del giovane vagheggiavano per gli scaffali del locale, indugiavano su ogni volto là presente con una perplessità talmente innocente da dover essere immortala in un quadro. «Non sono sicuro di cosa stia succedendo. Vi conoscete?» Guardò Edith con gli occhi sgranati, fosse di speranza in cui lei precipitò. «Conosci Lily, Edith?»
Avrebbe davvero voluto mentire, in quel momento, rinnegare la verità del passato e rifuggirne il tocco, così da poter tornare nella sua bolla di compianti e rimproveri. Si sforzò per rispondere, consapevole che Lily non le avrebbe mai permesso di scappare da quel quesito, con la stessa tragica fatalità del principio di Edith di non dire mai bugie. «Ti ricordi quel vecchio amico di cui ti ho parlato in passato?» gli domandò. «Be', era lei.»
«Io ed Edith frequentavamo lo stesso liceo» proseguì Lily, la cui logorrea non era minimamente cambiata in quegli ultimi tre anni d'assenza. «Perdonami, Timmy, non potevo perdere l'occasione di rivederla, anche se...» si fermò per un istante, tornando a rivolgere lo sguardo su di Edith, «ero piuttosto convinta ti saresti accorta subito del trucco, Edith. Non vedi Elize da tanti anni, quindi non sono sorpresa che tu non l'abbia riconosciuta all'inizio, ma addirittura dimenticare il nostro negozio d'animali...»
«Ero...» Edith si fermò, sentendo un brivido di vergogna e imbarazzo carezzarle la schiena. Si era così sforzata di non incontrare gli occhi di Timmy, da non badare minimamente all'ambiente circostante, e anche quando alla fine lo aveva fatto, i suoi occhi si erano unicamente fissati sul modo in cui Elize lo stava toccando. «Ero... distratta.»
«Sei davvero un'egoista» declamò con un sospiro Lily, prima di scuotere la testa, «dimenticarti persino di questo negozio... quante volte sarai venuta qui, quand'eravamo ragazzine? Più di una dozzina. Santo cielo, Edith, sono passati tre anni e non sei cambiata affatto.»
Non poteva che condividere quell'affermazione, lei più di tutti sapeva quanto vigliacco fosse il suo comportamento.
«Be'...» gracchiò con voce acidula, «speravo sinceramente che in questo lasso di tempo anche tu ti fossi scordata di me, Lily.» Lasciò che il suo sguardo scivolasse lungo gli scaffali del negozio, le pareti diafane e i lampioni al neon da cui ridiscendeva un pulviscolo di luci, e d'improvviso la nostalgia arrivò per assalirla e irrorarle nel petto un mare di ricordi finora assopiti.
«Stronza» sibilò irritata Lily. «Sai benissimo che mi è impossibile.»
«Perché mi vuoi troppo bene?» domandò sarcasticamente Edith.
«Anche, ma soprattutto perché è difficile dimenticare la faccia della bastarda che è andata a letto col tuo ragazzo.»
Lo sguardo di Timmy, in mezzo a loro, si sgranò sbigottito, mentre Elize, al suo fianco, lanciò un colpo di tosse, probabilmente nato per camuffare quello che era il principio di una risata.
«Oh, andiamo, Lily» disse Edith, massaggiandosi una tempia, «ce l'hai ancora per quella cosa? Saranno passati più di dieci anni!» aggiunse, quando la sua vecchia amica la fulminò con un'occhiataccia. «E poi, come ti dissi all'epoca, David era peggio di Speedy Gonzales sotto le coperte. Ti sei risparmiata i trenta secondi più inutili della tua vita.»
«Si chiamava Daniel, non David» tuonò cinicamente l'altra. «David era il tipo che ti sei fatta l'ultimo anno del liceo.»
Il sopracciglio sinistro di Edith si inarcò sorpreso. «Davvero? Non era Zane quello?»
Lo sguardo di Timmy, in quel momento, era meravigliosamente stupito, anche Lily se ne accorse e, nel vederlo, ridacchiò. «Edith non te lo ha detto, TimTim?» gli domandò. «Da adolescente era davvero tremenda, aveva una pessima reputazione nella nostra scuola.»
«Colpa dei capelli rossi.»
«No, colpa del tuo carattere di merda.»
«Anche e soprattutto per quello.»
Involontariamente, Edith si ritrovò a sorridere. Non avrebbe voluto, non avrebbe dovuto, ma quel battibecco che si stava creando con Lily era così... piacevole, così nostalgico.
«Elize, ci sono ancora alcuni clienti alla cassa» disse d'improvviso Lily, rivolgendosi alla sorella, «puoi occupartene tu, per favore?»
La ragazza chiamata in causa rispose con un breve scrollo di spalle, prima di voltarsi e scomparire in mezzo ai corridoi. Edith non digerì bene tutto ciò, in parte avrebbe voluto richiamarla a sé e rimproverarla per il tranello che aveva maleficamente costruito insieme alla sorella, per capire il motivo di tutto ciò.
«È inutile che fai quella faccia, Edith» tuonò Lily, «non hai il diritto di arrabbiarti.»
Lei inghiottì una cascata di spilli, prima di risponderle. «Mi sembra di esser stata molto esplicita, l'ultima volta che ti parlai, tre anni fa» sibilò velenosamente, «quale parte della frase "non devo più avere a che fare con te" non ti è stata chiara?»
Lily fischiettò innocentemente, con quel modo di fare incosciente che a Edith aveva sempre alterato il sistema nervoso. «Elize mi ha detto che hai preso un gattino.»
«Non cambiare argomento, Lily.»
«Non riesco a crederci ancora, sai? Dicevi sempre di non riuscire ad andare d'accordo con gli animali.»
«Ed è ancora così. Lily, non pensare che sia felice di questa trappola.»
«Oh, io so molto bene che non ne sei felice, Edith» mormorò di risposta l'altra, fissandola trucemente, «ma ora sei qui, nonostante tutto. Cosa vuoi fare? Scappare? Andartene via? Non vorrai dirmi che sei davvero così codarda.»
Edith ingoio la furia insieme all'aria, sentendo il proprio naso pizzicare con violenza. Lily ridacchiò ancora, prima di tornare a rivolgersi a Timmy. «Ehi, Pandino» gli disse con malizia, «ti va di vedere com'era Edith da adolescente? Ho parecchie foto interessanti nel mio telefonino.»
A quel punto, percepì un nervo scoppiarle nella gola. «Non oserai...»
«Come?» cinguettò Lily, il cellulare già in mano. «Oh, sei ancora qui, Edith? Strano! Non avevi intenzione di andartene via?»
Nemmeno Lily era minimamente cambiata: gentile, sempre, delicata quando piangeva, petali al posto delle dita per carezzarti il volto sofferente, ma anche spina che sapeva dove pungere. Proprio come un tempo.
«A proposito, TimTim, dov'è Killian?» proseguì Lily, ignorando volutamente il fatto che Edith le stesse lanciando con gli occhi meteoriti di rabbia. «Mi manca tantissimo! Non lo vedo da settimane! Anche se l'ultimo volta che l'ho visto mi sembrava un po' preoccupato.» Si grattò il mento, con fare confuso, e a quel punto Timmy tornò dal suo stato di confusione, per riafferrare il sorriso perduto.
«Quando l'ho lasciato in camera sua, stava studiando» le spiegò, «anche se penso stesse fingendo, in realtà, visto che sotto il libro aveva nascosto un poster di Scarlett Johansonn in bikini.»
Anche Edith avrebbe riso, se non fosse stato per il fatto che Lily continuava a provocarla con sorrisetti maliziosi. «Oh, be', devo chiedergli di prestarmene uno. Anche mio marito adora quell'attrice. La prossima volta che verrà qui glielo chiederò, spero solo che non sia più triste. Al nostro ultimo incontro, mi ha fatto una strana richiesta.»
«Ah, davvero? Più strana delle solite?»
«Sì, mi ha chiesto se esisteva un modo per indurre su qualcuno l'allergia a vecchie gatte trentenni.»
Edith lo sentì.
Oh, se lo sentì.
Il rumore della sua pazienza che esplodeva e si trasformava in un uragano di rabbia.
«Lilyyyyyy» tuonò d'improvviso la voce incolore di Elize, il cui viso sbucò dall'angolo di uno scaffale, «ho bisogno di te! Puoi venire qua un secondo?»
«Ho capito! Arrivo!» Con un sospiro, la donna tornò a rivolgersi a Edith. «Rimani qui» le ordinò. «Sei in debito con me, Edith, non te lo dimenticare, e dovrai ripagarmi comprando un sacco di giocattoli per il tuo gattino.» Le puntò il dito contro, con fare accusatorio. «E se te ne vai, sappi che non esiterò a far vedere a TimTim quella bella foto che ti feci il giorno del tuo debutto in quella galleria d'arte...» cinguettò infine, per poi ridacchiare quando Edith la bruciò con lo sguardo. «Torno subito!»
Se ne andò via senza neanche preoccuparsi di controllare, certa come non mai che Edith avrebbe obbedito ai suoi ordini, e diamine, ciò era ancor più fastidioso. La donna avrebbe voluto davvero scomparire da quel posto, ma i suoi piedi, per qualche strano motivo, parevano avvitati al pavimento del negozio. Vani furono i tentativi con cui si disse di calmarsi, di tornare sui suoi passi e pregare di svanire dal mondo, nelle sue tempie continuava imperituro il tamburo del flagello, ricordi e dolori, rabbia e sollievo.
«Edith.»
Sollevò lo sguardo, sentendosi appassire non appena incontrò quello di Timmy.
«Sei arrabbiata?»
Certo, certo che lo era. Ma non con lui, e in realtà nemmeno con Lily. Era arrabbiata perché stava tornando a provare emozioni proprio quando aveva smesso di desiderarle. Era arrabbiata perché le sue dita smaniavano per il tocco altrui, per riavvolgere il nastro della sua vita e ricominciare tutto da capo.
«Tuo marito mi ha paragonata a una vecchia gatta trentenne» biascicò alla fine, le mascelle contratte, «secondo te, come dovrei sentirmi esattamente?»
«Killian dice tante cose, tre quarti delle volte sono per lo più sciocchezze.»
«Spero che diventi presto un eunuco.»
«Non devi per forza resistere, sai?»
Quell'affermazione in qualche modo cristallizzò i suoi pensieri, che andarono a infossarsi negli occhi caldi di lui. «Non devi per forza tenerti tutto dentro» proseguì. «Quando Lily ti ha abbracciata... non avresti dovuto trattenerti. Non è sbagliato. Non c'è nulla di male. Puoi... anche tu puoi essere... anche...»
Sembrava... preoccupato e smarrito, ma Edith colse subito il significato di quelle parole, e la vergogna la sopraffò in un istante che parve eterno nel tempo. Ma certo, era ovvio che lui se ne fosse accorto, era ovvio che avesse notato. D'altro canto, Timmy, come Lily, possedeva la fragile natura della bellezza, l'aveva sempre custodita negli occhi, ed era quella a permettergli di guardare il mondo come in pochi sapevano fare: senza filtri o tende di colori costruiti, solo la realtà della vita, i cuori e i palpiti d'animo delle persone.
Lui aveva senz'altro notato il dolore e le afflizioni che l'avevano travolta, quando si era sentita stringere dall'orrore di voler contraccambiare quell'abbraccio senza però ottenere il permesso di farlo. Una simile consapevolezza la squassò dentro, facendola sentire spoglia e nuda come mai prima d'ora.
«Sai come ho conosciuto Lily, Timmy?»
Non rispose, non ce ne fu bisogno.
«Come avrai già intuito, me la facevo col suo ragazzo.» Si strinse nelle spalle con rigidità, ma nel suo stomaco proliferavano rimpianti e paure. «Sapevo che era fidanzato, anche se non con chi, e la cosa non mi interessava particolarmente. Un giorno lei ci scoprì dopo che... ci eravamo divertiti negli spogliatoi maschili. Lily arrivò all'improvviso, spalancò la porta e si mise a gridare e a urlare contro il famoso David, Daniel, come diavolo si chiama.»
Inghiottì l'aria, ma le parve di star masticando cenere.
«Quando lui iniziò a inventarsi scuse su scuse, dicendo che ero stata io a provocarlo, che lo avevo... assalito, Lily gli diede uno schiaffo in faccia. A quel punto David-Speedy Gonzales scappò via, e rimanemmo solo noi due. Lily mi guardò, stava piangendo come una bambina, e a me questo dava molto fastidio. Odio le lacrime» - perché a me non sono concesse, pensò dentro di sé -, «e nonostante tutto, quando lei si voltò verso di me, mi chiese scusa. Capisci? Mi chiese scusa perché il suo fidanzato era un uomo che non sapeva tenere i bottoni dei jeans chiusi e aveva attribuito a me la colpa, invece che prendersi le sue responsabilità.»
E ancora adesso ricordava alla perfezione il modo in cui si era sentita crollare, quando le aveva rivolto quelle parole. Ancora adesso riusciva a sentire la sua pelle venir smagliata da quegli occhi che l'avevano fatta morir dentro, dentro cui aveva scorto la sua miserevole natura di mostro.
«Le persone come Lily... sono speciali, un po' come te. Sono belle, Timmy. La vostra è una bellezza che non si può guadagnare col tempo o le azioni, la si ha sin dalla nascita. Io non sono così, io sono brutta, lo sarò per sempre. Perciò, quando Lily mi disse quelle cose, le risposi che non avevo bisogno della sua pietà, perché certamente, se il suo ragazzo era andato a letto con me invece che con lei, ciò significava che io ero più attraente.»
Lo sentì trattenere il fiato, o forse fu lei a farlo, non ne era sicura, non riusciva a veder più niente se non l'abisso del suo inferno di memorie.
«Fu allora che mi schiaffeggiò. Proprio come ha fatto poco fa, mi schiaffeggiò con una violenza inaudita.»
«Come mai siete diventate amiche, allora?»
Scrollò le spalle. «Non ne ho idea, non l'ho mai capito.»
«Hai saltato la parte del racconto più importante, Edith, proprio come sempre.»
Sussultò quando la voce della protagonista della storia tornò a saturare l'aria, sentendosi sfibrata non appena la scorse avvicinarsi a loro: i tacchi delle scarpe a tintinnare sul pavimento e il vestito di jeans che le avvolgeva il corpo carnoso.
Lily si avvicinò a loro quasi con piacere, un sorriso curvava le sue labbra carnose e adombrava i tratti duri del naso aquilino, ma fu gentile la parsimonia di cui si riempirono i suoi occhi, quella delicatezza con cui si impossessava del mondo per sbrigliarlo da tutta la polvere che gli era stata riversata addosso.
«Quella parte non è importante, Lily» gracchiò, sentendo il proprio cuore incrinarsi a ogni respiro.
«Pochi giorni più tardi, Daniel iniziò a tormentarmi» spiegò a Timmy l'altra, ignorandola, la voce ormai divenuta una melodia d'onde di un mare estivo, «era disposto a tutto pur di convincermi che lui non aveva colpe e che io ero la donna della sua vita. Quando gli dissi chiaramente che non avrei più voluto avere a che fare con lui, iniziò a insultarmi e a strattonarmi per i polsi, a dirmi che non avrei dovuto sprecare quell'occasione, brutta com'ero, perché mai più mi sarebbe capitata la possibilità di esser voluta in quel modo da un uomo. E a quel punto...»
«Lily.»
«A quel punto Edith arrivò.»
«Lily.»
«Intervenne e ci separò, minacciandolo di chiamare i professori se avesse continuato a tormentarmi. Lo ascoltò mentre le dava della puttana. Rimase zitta persino quando lui le disse che comprendeva perché suo padre l'avesse abbandonata, visto che era una zoccola e tutti a scuola la conoscevano per avere le gambe sempre aperte. Non si mosse neanche quando Daniel asserì che l'alcolismo del padre fosse dovuto proprio all'avere una figlia sgualdrina come lei.»
«Lily, basta così.»
Non voleva che Timmy sapesse, non voleva che la guardasse come stava invece facendo ora, quasi fosse lei ad esser bella, una creatura umana nata per brillare in un nubifragio di lacrime. L'avrebbe solo ingannato, ritraendola come fragile creatura di pianti, quando, in realtà, possedeva unicamente artigli, roveti, ringhi e ombre di morte a intesserle l'anima.
«Edith rimase zitta per tutto il tempo e alla fine lo guardò andarsene via. Ma quando restammo da sole, unicamente noi due, si voltò e mi disse: "un uomo che preferisce una donna come me a una come te non merita le tue lacrime".»
Quasi credette di avere un corpo di carta, perché le sembrò di esser pregna d'inchiostro, timbri di parole incollati sulla sua pelle, a effigiarla come l'anima candida e pallida che invece non era.
Ma quando Lily tornò a guardarla negli occhi, quando lei si vide riflessa nello sguardo che un tempo di molti anni prima aveva depredato le sue illusioni, in esso non intravide più le squame artificiali con cui aveva coperto il suo corpo marcio.
Vide invece bellezza e sentimento, e colori puri, primari, a tratteggiarle le labbra, a riempirle la bocca, saziarle lo stomaco, dissetare la gola, riempire e assorbirle la paura.
«E in quel momento ricordo che pensai di volere assolutamente diventare sua amica» sussurrò Lily.
«Cos'è per te la bellezza, Edith?»
«Perché la sua bizzarra gentilezza l'aveva resa così bella che quasi ebbi voglia di piangere.»
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