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L'amore a volte non basta (parte due)


I giorni passarono davanti ai suoi occhi come foglie durante una tormenta di vento: dapprima a manciate, dopo a cumuli, infine furono troppe perché potesse contarle tutte, una ad una.

La pioggia non passò subito, l'autunno non fu clemente fino alla fine, ma ben presto iniziò ad esser sostituita dalla neve, e Nicewood si decorò di gemme brinate, di ragnatele a inghirlandare gli angoli ferrosi delle staccionate e alberi secchi improvvisamente sbocciati con fiori di ghiaccio.

Parve quasi che tutte le nuvole del cielo si fossero rovesciate per terra e che qualcuno ne avesse cucito i contorni sui tetti delle case e lungo i marciapiedi; un velo pallido e diafano arrivò presto per ricoprire in fretta le strade, fino a far pensare che la città stesse per convolare a nozze e avesse deciso d'indossare un abito da sposa etereo e magnifico, in previsione di quel giorno speciale.

Nell'aria si poteva già sentire l'odore del Natale, lo riconoscevi subito dal rumore cristallino delle risate dei bambini, dal battito frenetico dei passi della gente e dai primi sorrisi che solcavano le labbra di chi, improvvisamente, sperava in una vacanza in cui poter riposare.

C'erano colori per le vie improvvisamente sature di gente, arcobaleni di luci ad agghindare festosamente i muretti delle case e dei negozi, i primi pupazzi di nevi che sbocciavano pian piano dalle dita dei più piccoli sognatori e le ansie per i preparativi, i regali, le angosce di non poter far tutto quanto in tempo.

L'unico luogo in cui l'inverno non aveva trovato rifugio e in cui si poteva ancora udire la pioggia autunnale, era la casa di Edith Morrison.

Lei non era cambiata come invece era successo al tempo, alle strade, alle persone; immutata nello spazio e nel vuoto, a modificare la sua vita solo la crescita improvvisa di Michelangelo: il corpo del micio maturava di giorno in giorno, si faceva più grande e atletico, più bianco e pallido, e così finivi per ritrovare quel dolce gattino nei posti più bizzarri di tutti, persino sopra l'armadio alto due metri in camera di Edith o dentro i cassetti di un comodino.

Anche se... in realtà... una piccola cosa che era cambiata c'era: Il brusco carattere di Edith si era arrugginito così tanto da donare un sapore ancor più aspro a chiunque ne saggiasse i comportamenti.

Edith aveva iniziato ad evitare Timmy in maniera piuttosto esplicita. Oh, lei ci provava a dimostrare che non fosse così, a far pensare che quelle azioni fossero dovute alla sua natura arrogante e menefreghista, ma Timmy non era uno stolto.

Aveva da subito notato il modo in cui il corpo di Edith si tendeva, ogni volta che lui entrava in casa per iniziare il lavoro. Lo guardava dritto negli occhi per un breve secondo, e in quelle iridi nebulose Timmy scorgeva una preoccupazione la cui natura gli era ignota, una forma di ansietà che le deplorava il sorriso e le affinava il mento.

Allora Edith fuggiva, ogni scusa era buona: le sigarette da comprare, il lavoro da fare, la stanchezza a cui rimediare. Passava intere giornate nella stanza proibita, per poi ritornare al soggiorno più trafelata di prima.

Poi, un giorno, Timmy l'aveva vista uscire dal bagno. Era entrato in casa trovando la porta d'ingresso aperta e l'aveva scorta mentre sgusciava via dalla stanza - una nuvola di vapore a seguirla e il corpo avvolto in un asciugamano imbiancato, le lentiggini che attecchivano sulla sua pelle come polvere di tramonto.

Per qualche istante era rimasto incantato a guardarla, tutt'altro che per volontà, più per l'istinto che gli masticava il cuore. Era cristallizzato sull'uscio d'ingresso e aveva lasciato che la visione di lei, cosi, gli si ramificasse negli occhi fino a riempirli delle stesse spine con cui Edith si nascondeva dal mondo.

Ed era bella, lei, più bella che mai. Era bella la sua pelle tinta di luna, decorata con quelle efelidi che erano gemme arrossate, erano belli i suoi capelli infuocati, che colavano sul volto sottile come ragnatele di rubini sciolti, erano belle le sue labbra di sangue, il naso appuntito, e gli occhi saturi di nuvole scure, così grigi e così rari, così sporchi da macchiare un po' anche lui.

Poi, Edith si era accorta della sua presenza, lo aveva notato con le braccia strette al petto e l'asciugamano ad avvolgerle il corpo come un mantello. Lo aveva visto e aveva sussultato, come un gatto in preda alla paura gli aveva domandato: ‹‹Cosa c'è?››

Timmy si era dovuto trattenere dal fare qualche commento bizzarro e assurdo - sei così bella, sei così bella, sei così bella - e aveva scosso il capo vergognoso, racimolando una scusa inventata di sana pianta. ‹‹È che...›› le aveva detto, ‹‹è strano vedere che... ora ti fai tranquillamente il bagno da sola.››

Lei per un istante non si era mossa, ma nel suo viso era sfrecciato un treno di migliaia di emozioni. Imbarazzo, vergogna, colpevolezza e... qualcos'altro, una luce che era balenata nei suoi occhi in fretta, guizzante e allegra, per poi scomparire prima che Timmy potesse afferrarla e scoprirne il significato. Le sopracciglia della donna si erano quasi aggrovigliate per un'irritazione che lui non aveva minimamente compreso; sembrava indispettita, pungolata per una battuta che Timmy dubitava di aver fatto, e quando gli aveva risposto, la sua voce era così accaldata dall'imbarazzo e la vergogna che persino Michelangelo aveva fatto sbucare la sua testa da sotto il divano per guardar meglio.

«E secondo te la colpa di chi è?» aveva sbraitato, ma non con rabbia, bensì con un imbarazzo che le aveva gonfiato le guance scavate. 

Poi se n'era andata via, di corsa, verso la sua stanza, lasciando Timmy più confuso che mai.

Nei giorni a venire, nulla era cambiato. Timmy aveva provato a parlare con Edith, ma i suoi tentativi maldestri si erano rivelati in poco tempo effimeri e vani. Aveva l'impressione di star cercando di afferrare una saponetta con le mani bagnate, magari poteva riuscirci per qualche secondo, ma quella sarebbe ben presto sfuggita di nuovo al suo controllo per volare chissà dove.

Alla fine, verso metà novembre, decise di riprovarci. Nemmeno lui sapeva perché si ritrovava ad insistere a quel modo, a scontrarsi contro le mura che Edith aveva eretto verso tutti, a prenderle a testate come un ariete, eppure non poteva trattenersi. 

Continuava a spingere, ad abbattersi, a limarsi le corna ogni volta che perdeva contro quelle barriere, perché chissà, magari un giorno le avrebbe scalfite abbastanza da poterla rivedere sorridere, magari un giorno avrebbe scoperto che in realtà quelle non erano mura, bensì solo tende dietro cui celarsi per non mostrare la propria fragilità.

E se la montagna non va da Maometto, si disse quel pomeriggio, dopo che aveva passato l'intera giornata a ripulire la camera da letto di Edith - una stanza evidentemente inutilizzata da anni, ricolma di polveri e orrori, una stanza che gli aveva fatto rimpiangere la sporcizia del soggiorno, tant'era distrutta -, Maometto andrà dalla montagna.

Così, con un coraggio che non credeva di possedere, era sceso al pianto terra e aveva bussato alla stanza che si affacciava sulla parete subito dopo la fine delle scale.

Bussò alla porta una volta, ma non udì nulla. Michelangelo sbucò a quel punto da chissà dove e gli si accovacciò ai piedi, miagolando per coccole che Timmy, in quel momento, sentiva di non potergli dare.

La porta della stanza scattò dieci secondi di silenzio più tardi, quando le mani di lui erano già pronte per bussare ancora. Dall'uscio appena socchiuso apparve il volto austero di Edith, i suoi occhi grigi ricolmi d'indisposizione.

«Cosa c'è?» domandò, sputando quella domanda con un cipiglio evidente.

«Io... be'...» 

Era andato fino a lì senza un piano vero e proprio, in testa solo il bisogno di vederla, di guardarla di nuovo, di sentire ancora una volta gli occhi di lei su di lui, e di nuovo, quasi per miracolo, Michelangelo lo aiutò. Timmy lo vide infilarsi nello spiraglio aperto da Edith e cominciare a strusciare fra le gambe della donna, muovendosi soavemente come una ballerina pronta ad ammaliare il suo partner grazie ai suoi movimenti. Fu allora che l'idea giunse nella testa del giovane, tanto irruenta quanto profonda.

«Per Michelangelo» scoppiò alla fine Timmy, sentendo le guance gonfiarsi di rossore.

Il sopracciglio sinistro di Edith s'inarcò con perplessità e solo in quel momento Timmy si accorse della vernice che le aveva macchiato tutto il viso, persino la tuta sporca e grigia. Schizzi di colore esplodevano sulla sua pelle e sul tessuto slavato, le graffiavano le dita sporche di calli e scivolavano persino fra le insenature delle clavicole sporgenti.

«Per la bestia?» ripeté con sospetto.

«Elize...» balbettò a quel punto Timmy, inghiottendo la saliva, «la famiglia di Elize gestisce un negozio di animali, non molto distante da qui, non pensi che a Michelangelo... servano dei giocattoli e magari anche qualcosa in più oltre a una lettiera e una cuccia? Un collare, ad esempio, oppure...»

«Ok» gracchiò Edith, prima di far scivolare via il gatto da sé spingendo cautamente col piede, «il portafoglio sta in cucina, prendi i soldi da lì e va' a comprare la roba per la bestia.»

Fece per richiudere la porta, ma Timmy, d'istinto, afferrò a sua volta la maniglia e la bloccò. Per un attimo Edith parve sbigottita da quel suo gesto così istintivo - non poteva biasimarla, lui stesso lo era -, per poi riprendere il solito volto corrucciato di sempre. «Non so cosa ti è preso oggi» biascicò la donna con la voce spezzata, «ma se hai intenzione di farmi incazzare, sappi che ci stai riuscendo benissimo.»

«Non posso andarci da solo» affermò Timmy a quel punto, gli occhi sgranati per la fretta di spiegarle, di continuare a parlare con lei, prima che scappasse di nuovo, che fuggisse via ancora una volta da lui e dai suoi occhi, «Michelangelo è il tuo gattino, non il mio, non so cos'è giusto per lui.»

«Devi comprargli dei dannati giocattoli, non un guardaroba per mandarlo alla prossima sfilata di Chanel, diamine» inveì a quel punto Edith, sbraitando una parola sconosciuta in italiano.

«Lo so» mormorò lui. «Però è... è una decisione che spetta a te.»

«Non ho voglia di uscire.»

«Lo so, però...»

Edith lo fulminò con un'occhiataccia, per poi sussultare quando Michelangelo tornò a punzecchiarle le caviglie con le sue unghie.

Timmy era sul punto di arrendersi, quando, d'improvviso, un'altra idea - sicuramente ancor più stupida della precedente - tornò a balenargli nella testa. Una tecnica che gli era stata insegnata da Killian anni addietro e che raramente gli era capitato di usare, visto che nella vita era sempre stato attento a percorrere unicamente il corridoio della sincerità e della correttezza. Ma, per una volta, decise di dire addio ai suoi dogmi e alle sue ideologie - solo per quella volta, solo per Edith Morrison - e passare al lato oscuro del suo migliore amico. «Vorrà dire che gli comprerò un collare rosa

Il volto di Edith si pietrificò all'istante e lui capì di aver fatto centro.

«Fosforescente» aggiunse, «pieno di brillantini e... e dei calzini decorati con cuori e fiori... e un ciondolo su cui farò incidere la scritta "cucciolotto amoroso di Edith".»

A quel punto, il corpo di lei si mosse meccanicamente, un automa che sembrava aver preso vita e che, non appena posò lo sguardo su di lui, lo incenerì con uno schiocco di lingua. «Tu» berciò, con l'irritazione a scavarle le fosse delle clavicole, «vuoi andare incontro a un destino peggiore della morte.»

Timmy dovette trattenere l'impulso di sorridere, soffocò quel grumo di felicità che si era accumulato sotto la gola e lo seppellì nel ventre, in un luogo in cui lei non avrebbe potuto scorgerlo. «Be'...» mormorò, col viso infuocato, «se non mi accompagnerai, potrei esser troppo stolto per accorgermi degli assurdi acquisti che sto facendo.»

«Mi stai ricattando, Timothy Barlow?» guaì a quel punto lei, sembrava quasi... divertita, ma il suo volto irritato non poteva dar conferma a quel sospetto. «Mi stai davvero ricattando? Tu? Pandino?»

«Non è un ricatto» biascicò a quel punto Timmy, passandosi una mano fra i capelli con la speranza che il suo nervosismo ricadesse dalle dita alle ciocche, piuttosto che nei suoi occhi, «solo una constatazione su come andranno le cose, se tu non mi accompagnerai.»

‹‹Certo, e io sono la Madonna››

«Quindi?»

Edith sembrò in crisi.

Timothy non ricordava di averla mai vista così combattuta; lei si grattava la pelle sopra le spalle in un modo molto contrariato, sembrava quasi che quella porzione di corpo scoperto d'improvviso le desse fastidio, che le prudesse al punto da non riuscire a frenarsi dal toccarla. Edith fece galleggiare lo sguardo un po' dappertutto: su Michelangelo, su Timmy, sulle sue dita, e poi di nuovo su Timmy. Si fermò sul ragazzo, alla fine, ponendo fine a quella partita di ping pong delle sue pupille, e per un istante al giovane parve quasi di vederla arrossire, un delicato e leggero calore che s'appiccicò sulle guance scavate di lei, per poi scomparire l'istante successivo, quando scosse la testa.

«Dieci minuti» gli ringhiò contro, il volto di nuovo corrucciato, «staremo lì dieci minuti, non un secondo di più.»

D'istinto, lui si ritrovò a sorridere ed Edith, quasi ferita da quel suo gesto, spalancò la porta ed uscì per risalire le scale, mostrandogli il medio. «Vado a cambiarmi» tuonò dal primo piano. «E guidi tu, capito? Io odio guidare!»

«Capito» le assicurò il ragazzo, prima di vedere la testa rossa di lei che scompariva oltre il corridoio del piano.

La contentezza per esser riuscito in quell'impresa si diramò in Timmy immediatamente, il ragazzo arrivò a sorridere così tanto che gli sembrò di avere le guance incollate alle orecchie, tant'erano sollevate. 

Era pronto per andare a sua volta a prendere la giacca e la sciarpa che aveva lasciato all'ingresso di casa, quando il corpo pallido di Michelangelo gli tagliò la strada e schizzò dentro la camera da cui Edith era uscita.

Quella era una delle tante stanze che Timothy non aveva avuto ancora modo di conoscere. Villa Morrison era ancora un posto inesplorato ai suoi occhi, ogni camera per lui era un traguardo sempre più difficile da ripulire, e anche quando ci riusciva, le sue dolorosissime ore di impegno venivano in poco tempo spazzate via i giorni successivi, quando rientrava là dentro e scopriva che Edith non aveva esitato un istante a lasciar traccia di sé con lo sporco che si trascinava addosso. 

Con la curiosità a tampinargli le vene, Timmy inseguì cautamente l'ombra di Michelangelo che si era rifugiata dentro la stanza socchiusa. Edith spesso aveva detto che era lì che lavorava, ma a quale lavoro si stesse riferendo, il ragazzo ancora non lo sapeva. 

Fece un passo, poi un altro, poi un altro ancora, e d'improvviso il suo mondo si riempì di colori.

L'odore di tempera e vernice gli si accalcò nella gola, mentre i suoi occhi furono invasi da un'universo di quadri che lo salutavano ovunque. La stanza era piccola e quadrata, solo una finestra a collegarla al mondo di fuori, eppure, a differenza del resto della casa, lì non dimorava un senso di soffocamento. Vi era invece la libertà di poter scorgere migliaia di universi intrappolati in tele che piangevano vite e colori, quadri di ogni tipo di dimensione che si stagliavano ovunque per la camera: appesi alle pareti, abbandonati per terra, dimenticati sopra il cavalletto di legno. 

E non erano esseri umani a venir ritratti in quei mondi privati, bensì oggetti che d'improvviso avevano preso vita, che avevano assunto tratti antropomorfi, con braccia, gambe e occhi piangenti, che s'inseguivano e si odiavano, che lottavano e si amavano: un bicchiere di cristallo incrinato che piangeva lacrime dalle cicatrici del suo bordo spezzato, una famiglia di forchette che giocavano a incastrarsi coi denti fra loro, un cucciolo di forbice che recideva sofferente il proprio genitore arrugginito.

Per un attimo, Timmy non seppe che dire né che pensare. Il mondo era scomparso, di fronte a lui solo finestre di vite dimenticate e sperdute, calcate da un pennello che aveva indossato vesti di ogni colore e sapore. 

Forse quella stanza era l'universo - si ritrovò a pensare, mentre marciava in avanti per guardare meglio - e i quadri i pianeti che Edith aveva deciso di appendere nella sua tela inchiostrata, per decorarlo con le vite che lui aveva invece perduto. E quei pianeti volteggiavano attorno al ragazzo, gli mostravano le bellezze e le malinconie di attimi privi di tempo, piangevano con occhi più umani dei suoi e sorridevano quasi costernati, vergognosi di esser d'improvviso stati scoperti.

Michelangelo scivolò sotto le gambe del cavalletto, vi ruotò attorno, incuriosito quanto lui, e Timothy lo seguì per guardar meglio, per osservare l'ultimo quadro su cui Edith stava lavorando, ancora incompleto.

Una goccia di pioggia, solo quello.

Un'unica goccia di pioggia che sembrava vera, palpabile e concreta. Scivolava sul bianco della tela come se fosse davvero esistita, rovinava il silenzio di quel mondo pallido e diafano, rompendolo col rumore del suo pianto. 

Ma al suo interno... al suo interno c'era qualcosa. Timmy non se ne accorse subito, era troppo lontano perché potesse notarlo, ma quando s'avvicinò ancora, con un passo in avanti, lo notò. Avanzò di nuovo, stavolta più sperduto che incuriosito, raggiunse il cavalletto con una strana sensazione che faceva colare sudore sulla sua pelle arrossata; sentiva dentro di sé un bizzarro presentimento, il bocciolo di un dolore altrui che non aveva ancora compreso. 

In quell'unica goccia di pioggia vi era... quello era...

«La bestia non può stare qui.»

Timmy sussultò, sorpreso dalla voce di Edith alle sue spalle. Si voltò d'improvviso e la vide, sull soglia d'ingresso, vestita con un'altra delle sue tante tute slavate e larghe e una giacca nera a coprirle il corpo. 

«Michelangelo» tuonò lei, gli occhi piantati sul gattino che, da sotto il cavalletto, sollevò lo sguardo con interesse, «esci subito, non puoi stare qua dentro, sia mai che ti venga in testa la malsana idea di leccare qualche quadro o colore.»

Il micio parve non ascoltarla, tornò a strofinarsi sulla gamba del cavalletto con piacere ed Edith sbuffò di nuovo, avvicinandosi a lui per afferrarlo fra le mani e portarlo via dalla stanza. «Ecco perché tengo la porta sempre chiusa» la sentì borbottare, «perché diavolo lo hai lasciato entrare?»

Timmy non rispose subito, la seguì fuori dalla camera, osservandola mentre chiudeva a chiave la porta e sbuffava di nuovo. Infine, trovò di nuovo il dono della parola, dopo qualche minuto passato in silenzio. «Il tuo lavoro quindi è... dipingere?»

Edith voltò lo sguardo verso di lui, il sopracciglio sinistro arcuato. «Certo che dipingo» rispose con indifferenza. «Pensavo lo avessi capito, ormai, visto che lavi sempre i miei vestiti sporchi di colore.»

«Sì, no, cioè...» Lui deglutì, prima di riprendere a parlare. «Pensavo fosse un hobby.»

«E cosa credevi che facessi per lavoro? Che producessi cocaina? Che vendessi organi al mercato nero?» Edith sghignazzò, prima di riposare a terra il gattino. «Sono una pittrice, Timmy, sì. Dipingo e vendo i miei quadri. Niente di più, niente di meno. Tutto qui.»

Non era vero, e lui lo sapeva. Non era così semplice, non per il mondo e men che meno per lei. «È per questo motivo che sei così ricca?»

«Sì e no, diciamo che io ho barato.»

«Hai barato?»

«È stato Henry a insegnarmi a dipingere» gli spiegò alla fine, mentre si muoveva verso la porta d'ingresso. Timmy afferrò velocemente la giacca e la sciarpa che aveva lasciato sopra il divano, prima d'inseguirla ancora. «Anche lui era un pittore. Ha impiegato quasi vent'anni per diventare qualcuno nel mondo dell'arte. Ha viaggiato per tutta l'Italia, dove ha conosciuto Amelia, e lì ha iniziato a farsi un piccolo nome, ma è stato soltanto quando è tornato qua in America che è riuscito a farsi strada. La fama è arrivata all'improvviso, poi, senza che neanche se ne accorgesse. Mentre io? Be'... confesso di aver avuto la strada spianata. Ero la sua unica nipote e la sua unica allieva, la famigerata apprendista di Henry Morrison, pittore rivoluzionario dell'arte moderna. Non ho dovuto faticare quanto lui per riuscire a farmi un buon nome, mi bastava già il suo. E così eccomi qui, Edith Morrison la raccomandata.»

Non sembrava provare assolutamente nulla, mentre gli confessava tutte quelle cose, ma nel suo amaro sorriso era timbrato un dolore nascosto, celato agli occhi dei più ingenui. Prenditi cura di te, era quello che gli aveva implicitamente detto lei durante la loro ultima discussione, eppure sembrava totalmente incapace di far valere quel consiglio per sé stessa. Prenditi cura di te, amati per come sei, apprezza quello che fai.

«Sono dei quadri bellissimi» mormorò Timmy, «sono sicuro che piacciono per questo, non per il fatto che sei la nipote di Henry.»

A quel punto lei lo guardò. 

Nei suoi occhi allora Timmy intravide l'agonia di una vita che non aveva voluto, un'esistenza che era stata costretta ad accettare con quel sorriso disarmonico e graffiato, che le gonfiava le guance. Aveva le palpebre strette fra loro, le ciglia rovinate da una resa che lo fece soffrire a sua volta. Quel sorriso fu tremendo da vedere, per Timmy, avrebbe solo voluto cancellarglielo con una gomma, strofinare sulle sue labbra fino a quando non fossero tornate pulite, così da vedere finalmente il viso distrutto di lei, rovinato così tanto da non aver più angoli e spigoli, ma solo tempere sciolte nell'acqua che cadevano a picco, oltre i contorni, perdendo i loro primari colori.

«Il mondo non è gentile come te, Timmy.» Edith ignorò il suo volto sconfitto e fece per aprire la porta, ma Timmy, di nuovo, la bloccò. 

«Aspetta.»

«Cosa c'è, Pandino?» domandò, pronta per lasciarsi andare a un altro sospiro che, tuttavia, rimase sospeso fra le sue labbra, sbigottito quanto lei quando Timmy le si avvicinò e le avvolse il collo scoperto con la sua sciarpa.

«Fuori nevica» la informò lui, sentendo le proprie guance andando a fuoco per l'imbarazzo di quel gesto così delicato e intimo, «se non ti copri per bene il collo, finirai per ammalarti.»

Il rosso della sciarpa le stava d'incanto, si adagiò perfettamente sulle sue spalle gracili ed esili, l'avvolse come una coperta di cui non sapeva d'aver bisogno; ma a brillare di bellezza furono i suoi occhi, il modo in cui si riempirono di luce e lo guardarono, traballanti camini spenti che gli arsero il petto. 

All'inizio, lui non seppe che fare, la guardò soltanto con le dita arpionate ai bordi della sciarpa; sentì un arpione bucargli il cuore, trascinarlo con violenza nello sguardo smarrito di lei, sul suo volto trafelato. E forse aveva sbagliato, forse le si era avvicinato troppo, chissà, ma per qualche motivo non riusciva a pentirsi di quella scelta.

Edith non disse nulla, l'assenza di parole si promulgò anche troppo nella sua bocca schiusa, ma tramutò i tratti duri del suo viso in un quadro che era un peccato non fosse già stato dipinto; divenne un'innocente bambina, con le pupille voraci d'amore e di vita che sembravano essersi incollate a Timothy, appiccicate alla sua pelle fino a tatuargli il nome della loro proprietaria.

«Sei uno stupido» borbottò lei alla fine, distogliendo lo sguardo per rivolgerlo di nuovo alla porta.

Eppure, quando lei si mosse per aprirla, Timmy notò, per un breve istante, il volto della donna incendiarsi come i capelli e la sciarpa, incipriarsi di un piacere innocente che le tramutò gli occhi in bolle di speranza.

Ma, soprattutto, notò il sorriso che le masticò le labbra, fino a farle chiudere gli occhi e riempirli di delicatezza.

Il mondo non è gentile come te, Timmy, gli aveva detto poco prima.

E invece sì, furono le parole che si aggrovigliarono nella gola di lui, mentre la scorgeva uscire di casa e venir ingoiata da un oceano di neve e di lacrime, invece sì, le avrebbe sussurrato in quel momento, mentre la figura di lei macchiava il candido ghiaccio delle strade per riempirlo del fuoco che si portava magnificamente addosso.

Invece sì, perché ha fatto nascere te.



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