Icaro e il sole (parte due)
Capitolo quindici
Icaro e il sole (parte due)
C'era una sconosciuta in casa di Edith Morrison.
Timothy l'aveva trovata di fronte a sé non appena aveva aperto la porta d'ingresso, pericolosamente socchiusa già al momento del suo arrivo. Lei si era mostrata a lui all'improvviso, sbucando dalla sabbia d'immondizia che immergeva il pavimento del soggiorno, e si era fermata nello stesso momento in cui i suoi occhi avevano incrociato quelli del ragazzo.
Non ci fu bisogno di parole e men che meno di dichiarazioni, perché Timmy capisse che l'anziana che aveva di fronte a sé era stata forgiata dalla nascita da quella signorilità ed eleganza che la caratterizzavano. L'orgoglio e la finezza che solcavano il labirinto di rughe sul suo volto non avrebbero mai potuto essere un trucco aggiuntivo guadagnato con lo scorrere del tempo; era invece un vestito che l'aveva avvolta dal momento in cui era venuta al mondo e che lei portava dignitosamente addosso insieme al suo abito in velluto nero e lo scialle di pizzo che le avvolgeva le magre spalle, ricadendo sulle braccia insieme ai suoi ghirigori argentati.
Chiunque avrebbe potuto comprendere con un solo sguardo di avere a che fare con una donna che di vita ne aveva vissuta anche troppa, che aveva consumato tante esperienze quanti giorni tramontati di fronte ai suoi occhi color foresta. Era l'orgoglio a reggere in piedi il suo corpo stanco e trafelato dagli anni, a sostenerla insieme a quel bastone in legno che accompagnava il suo zoppicante cammino e a cui lei si aggrappava, con i guanti scamosciati che strofinavano sulla superficie splendente del pomello dorato.
«E tu chi diavolo sei?»
La voce era affilata, sottile come uno spago, strisciava fra le lenzuola di ragnatele che coprivano il soffitto e si incastrava nelle crepe dei muri. Aveva un accento... particolare, straniero, sotto molti aspetti.
Lei si mosse lentamente, faticando, e il rumore dei suoi passi venne accompagnato dallo schioppo del bastone contro il pavimento. Un ticchettio che sarebbe bastato per irrigidire anche la persona più rilassata del mondo.
La sconosciuta non disse altro, lo guardò e basta, gli occhi felini che lo scrutavano da sotto le ciglia argentate; si sporse col busto, camminando a tre gambe, e lo raggiunse. Lo strascico del suo elegante vestito l'avvolse mostrando la fierezza di una donna che nella vita non si era mai vergognata di se stessa. Il pomello del bastone strusciò sui guanti di lei, Timothy riuscì a percepire lo squittio della stoffa contro la superficie arrotondata e levigata di quella sporgenza dorata, e quando rialzò lo sguardo si ritrovò davanti una statua d'orgoglio impettita, col naso all'insù che sporgeva nell'aria e una coltre di stelle invecchiate sugli zigomi cadenti. I capelli ingrigiti le avvolgevano e fasciavano il capo in uno chignon elegante che lei indossava con la stessa fierezza di una corona, e per qualche secondo, nell'averla così vicina di fronte a sé, Timmy ebbe l'impulso di indietreggiare e inchinarsi di fronte a lei.
«Sei un ladro? Sei venuto qui per rubare? Be', mi spiace, ragazzo mio, ma mia nipote non ha niente da offrire se non la dignità che ha deciso di buttare insieme a tutta questa spazzatura.»
Certo non si poteva dire che quella donna non fosse coraggiosa o comunque avventata, per possedere almeno più di settant'anni. La sicurezza con cui si fermò di fronte a lui rasentava la normalità, ma, nonostante ciò, il ragazzo non poté che provare un profondo e riverenziale rispetto nei confronti di quell'anziana signora che, decisa, non aveva avuto problema a mostrarsi apertamente per fronteggiarlo.
Trovò il coraggio di parlare solo dopo qualche secondo di silenzio, quando ormai i suoi occhi erano riusciti a ritrovare sul viso della donna quei punti essenziali che facevano da denominatore comune alla ragazza che lo aveva ingaggiato come domestico: le lentiggini sparse sul viso, gli spigoli pronunciati della mascella, l'arco rigido delle sopracciglia e la boria che le investiva lo sguardo, rendendolo quasi liquido e traslucido.
«No, signora... Non sono un ladro» mormorò alla fine, ritrovando il coraggio di fronteggiare la foresta dentro quelle iridi, «mi chiamo... Timothy Barlow, lavoro per sua nipote come... uomo delle pulizie. Miss Morrison mi ha ingaggiato per pulire la sua casa.»
«Mia nipote?»
«Sì, signora.»
«Quella scapestrata che puzza come un barile di petrolio buttato in mare?»
«Ehm... sì.»
«Ti ha ingaggiato per pulire la sua casa?»
«Sì.»
«Quella cretina che non sa neanche più cosa sia un sapone ti ha chiesto di venire a casa sua per pulirla?»
«Sì, signora... Amelia?»
Amelia sussultò, sorpresa nello scoprire che Timothy conoscesse il suo nome. Filamenti argentati ricaddero sul suo viso, decorando le ragnatela di rughe che si era intessuta sulla sua fronte. «Da quanto tempo?»
«Oggi è il mio secondo giorno di prova, a dire il vero.»
«Edith?»
«Edith.»
Lei sollevò le sopracciglia sfoltite, onde di rughe si mossero sulla carne delle guance quando chinò lo sguardo e lo posò ai suoi piedi, sopra il ritaglio di un cartone di pizza. «Eppure il dottor Caleb mi aveva assicurato che i farmaci per la pressione non causano allucinazioni.»
Timothy ammiccò un leggero sorriso nel vederla in questo modo, averla così vicino, per qualche motivo, non gli incuteva più timore. C'era un che di familiare in quella donna così elegante e raffinata, il ricordo vago delle mani di Patricia, del calore che gli trasmetteva quando arricciava la carne della guance di Timmy con il timbro del suo sorriso.
«Lavori per la mia bambina?»
«Sì, Mrs... Mrs Morrison?»
«Chiamami Amelia, caro, e... davvero non sei un ladro?»
«No, signora.»
«Non sei venuto qui per rubare niente?»
«No, signora.»
«Non sei un testimone di Geova, vero?»
Quella signora era indubbiamente la nonna di Edith Morrison.
«Nessun testimone di Geova, Mrs Morrison.»
Lei si grattò il mento appuntito con le mani, la stoffa dei guanti si arricciò sulle dita per quel gesto, ma la donna parve non farvi caso e strofinò con più frenesia le falangi sulla pelle maculata dal tempo. «Oh, quella ragazza...» mormorò alla fine. «Sempre così furba, lei, sempre così scaltra... Se pensa che io possa cascare a un trucchetto simile...»
«Mrs Morrison...»
«Shhh» lo silenziò lei improvvisamente. «Caro, ti prego di parlare a bassa voce, non so quanto quella stupida di mia nipote ti abbia detto su di me, ma... I nostri rapporti non sono dei migliori. O, per meglio dire, se scoprisse che sono qua in casa andrebbe su tutte le furie.»
Sì, questo Timothy lo sapeva. Ricordava ancora bene l'ira che era sgusciata dagli occhi di Miss Morrison di fronte al biglietto che l'anziana le aveva lasciato sulla lattina di birra, l'odio che le aveva annodato le spalle e contratto i denti, fino a trasformarla in un mostro che inghiottiva l'aria attorno.
«Miss Morris-Edith dov'è?»
«Dorme, lo fa sempre a quest'ora. Passa tutta la notte a lavorare come una matta, io le dico sempre che non è sano come stile di vita, che ha bisogno di riposare normalmente se non vuole avere il corpo di un'ottantenne a trent'anni, ma lei non mi ascolta mai, è sempre così caparbia, quella ragazza, più di mio marito, sai? Oh, ha preso tutto da Henry, quella maledetta ragazza, tutto. Se solo mi ascoltasse, una volta tanto, invece che fare come le pare, e dormisse la sera, eviterebbe di stare così la mattina e di passare tutto il pomeriggio a dormire nella camera di-» si bloccò un istante e negli occhi verdi un lampo di dolore squarciò quelle pupille finora così serene, trasformandole in un lago di rimpianti. «Si sveglierà fra poco, ne sono sicura. Ero venuta qui solo per... per vedere se aveva qualcosa da mangiare.» Si fermò di nuovo, il mento improvvisamente tremante. «Non ha niente in frigo» sussurrò alla fine. «Solo birra e bottiglie d'acqua, volevo che mangiasse qualcosa, qualunque cosa, lei non può andare avanti così, non può...» Scosse la testa all'improvviso e quando richiuse gli occhi, Timmy riuscì a scorgere il tremolio delle pupille celato dalla tenda delle palpebre. «Non la vedo da più di tre mesi» ammise alla fine, con un malessere così vivo che riuscì ad afferrare persino il ragazzo, a tormentarlo con le stesse angosce che affliggevano quella povera anziana.
Parlava così velocemente e con così tanta frenesia che Timothy faticò a seguirla, ma non poté non notare la maschera di preoccupazione che si incollò alla pelle diafana della signora, rovinandone la struttura già rovinata dalle macchie e dalle rughe per renderla un muro distrutto dalle crepe della sofferenza.
Lui avrebbe voluto parlare, poter chiedere cosa stesse accadendo; più entrava nel mondo di Edith Morrison, più gli sembrava di addentrarsi in una nebbia impossibile da dipanare. Non aveva portato con sé torce o fari con cui potersi muovere per non perdere se stesso mentre ricercava quella donna, e ora, di fronte al mare di caligine che gli si stendeva davanti, poteva solo annegare, sprofondare inesorabilmente.
Le ciglia ingrigite di Amelia Morrison tremavano sotto i suoi occhi, insieme ai respiri che la donna cercava di trattenere quando la punta del suo bastone iniziò a vibrare con furia.
«Mrs...»
«Cosa diavolo ci fai tu qui?»
Un tuono esplose nella casa, con la stessa potenza di una bomba che era caduta per sbaglio dentro il soggiorno in cui si trovavano. L'aria venne divorata dall'urlo di quelle parole, il risucchio fu profondo e violento, un tornado il cui centro d'avvio si trovava in alto, su quelle scale trasparenti sopra cui sostava la donna che Mrs Morrison stava cercando, invano, di aiutare.
Edith sgusciò fuori dalle ombre del primo piano insieme ai suoi respiri profondi, si rivestiva di quell'oscurità, quasi fosse stata partorita da essa, dal suo ventre gonfio di rabbia e rimpianti, e quando iniziò a scendere le scale, nei suoi occhi argentei Timothy notò subito il sibilo dell'urlo pronto a prorompere da quelle labbra tese con violenza.
«Ciao, bambina.»
Eccole lì, di fronte a lui, la calma e la tempesta: era assurdo, quasi magico, poterle vedere assieme mentre si scontravano. Da un lato, un'imperatrice anziana, capace di reggersi in piedi col suo bastone e la sua fierezza, dall'altro, una portatrice di sventure, fatta di stenti e di dolori, distrutta come la salopette di jeans rovinata che pareva aggrapparsi alle sue spalle fragili, tremanti per la furia che Edith stava conservando in sé.
«Fuori di qui!»
Le parole vibrarono fra le crepe delle pareti e dentro le ossa di Timothy, che indietreggiò nel vedere il volto della donna alienarsi e trasformarsi in un quadro scarlatto per l'ira che lo stava dipingendo; Amelia, tuttavia, non arretrò, non si mosse, non si spostò neanche di un millimetro. Rimase ferma, le dita aggrappate al pomello dorato del bastone, il viso truccato dal vanto di una montagna che non si sarebbe piegata neppure di fronte a una tormenta di neve. «Ordiniamo una pizza, bambina, una margherita, ti va? Hai bisogno di mangiare qualcosa.»
I piedi nudi della ragazza sbatterono contro il pavimento, la frenesia con cui si avvicinò a loro due era disumana, le annodava i respiri nella gola, le gonfiava il petto e dilatava le pupille negli occhi. C'era qualcosa, in quel volto così furibondo, qualcosa di tremendamente doloroso: il sospiro di una vita che stava svanendo, la malinconia di una donna che era disposta a perder tutto pur di scomparire.
«L'unica cosa di cui ho bisogno» sputò con furia Miss Morrison, «è che tu la smetta di tormentarmi!»
«Tormentarti?» Le sopracciglia di Amelia si sollevarono sorprese. «Io voglio solo aiutarti, bambina mia.»
«Chi te l'ha chiesto di aiutarmi, eh? Chi? Io? Perché non ricordo di averlo mai fatto! Anzi, se non erro, Amelia, l'unica cosa per cui ti ho supplicata era di starmi lontana il più possibile!»
Timothy avrebbe voluto scomparire, allontanarsi da lì, si sentiva un agente errato in quello scontro fra sporco e pulito, fra rabbia e sofferenza. Era in mezzo a due donne e le fissava senza saper nulla, come uno spione che scopriva i segreti dei suoi vicini lasciando che il suo sguardo sgusciasse attraverso la serratura della porta. Poteva vedere qualcosa – i dolori, le grida, le mani che si muovevano e strappavano in due l'aria – ma l'oscurità lambiva il resto dei contorni e il quadro rimaneva incompleto, sempre a forma di serratura, con una cornice troppo spessa e troppo grande che andava a soffocare il resto dei colori.
«Io ti ho cresciuta, Edith Morrison.» Le labbra di Amelia si mossero da sole, accartocciando le curve di pelle che si stendevano sul viso. «Ti ho cresciuta da quando avevi dieci anni, sei mia nipote, la mia bambina, come puoi pretendere che ti lasci stare in questa situazione, quando so quello che stai passando? Pensi che la tua vita appartenga a te e te soltanto, bambina? Pensi che la tua esistenza sia indipendente da quella delle altre? Che tu sia solo una stella solitaria in un buco nero? Be', ti sbagli, bambina. Se tu esplodi, travolgi tutto insieme a te. Se tu esplodi...»
«Allora muori, proprio come ha fatto Henry.»
Il piede sinistro di Amelia indietreggiò, e per la prima volta sul volto anziano della donna apparve il primo accenno di rabbia, di acredine. Guardò sua nipote come se questa l'avesse appena schiaffeggiata, sorreggendosi al pomello del bastone quasi a voler trattenere i propri pugni.
«Fatti venire un cancro anche tu, Amelia, fatti ammazzare anche tu!» Stavolta, nelle grida di Edith non c'era più umanità, era andata perduta insieme ai suoi occhi, che ora erano solo buchi neri che risucchiavano i respiri e l'olezzo della spazzatura attorno. «Così sarai felice, non è vero? Deve esser così bello morire, eh, Amelia? Scommetto che a Henry è piaciuto moltissimo, mentre quel cazzo di tumore gli masticava il cuore!»
«Edith...» gracchiò infine la donna. «Edith...» Si fermò, osservò sua nipote e in quegli occhi rovinati apparve la desolazione pura. «Edith, non è stata colpa...»
«Ti ho detto di-»
La voce di Edith morì nel momento stesso in cui il miagolio del gattino privo di nome si fece largo nella stanza. L'animale apparve all'improvviso, sembrava che le grida della sua padrona lo avessero supplicato di aiutarla, di starle accanto mentre lei si peccava di parole di cui, Timothy lo sapeva, presto si sarebbe pentita. Quella nuvoletta di peli sgusciò fra le gambe della donna e si fermò lì, ai suoi piedi, la testa sollevata per raccogliere le lacrime invisibili di lei.
«Un gatto?»
L'ultima parola che la signora pronunciò, Timothy non la comprese. Apparteneva a una lingua che gli era del tutto sconosciuta, ma Edith, invece, parve capirla, perché sollevò a sua volta il mento per guardare la nonna e sussurrarle di rimando: «Non sono affari tuoi, befana.»
Stavolta Timmy comprese, nell'udire quel "befana" carico di rabbia. Lo aveva sentito una volta, quando Killian aveva iniziato a ricercare su internet parole straniere con cui insultare Elize senza che lei se ne accorgesse.
Italiano?
Miss Morrison era italiana?
«Hai preso un gatto, bambina?» Negli occhi di Amelia, fuochi d'artificio avevano iniziato a esplodere di speranza, e finalmente Timothy riuscì a comprendere il perché del suo particolare accento, anche ora che era tornata a parlare in inglese. «Non mi avevi detto nulla.»
«Non è mio» biascicò la donna, cercando di scansare il gatto dai suoi piedi con la forza delle caviglie; la fragile creatura scivolò per un po' sul pavimento, per poi ritornare prontamente dalla sua amata padrona, così da aggrapparsi ai jeans della salopette. «Non è mio» ripeté ancora, quasi volesse convincere se stessa, piuttosto che sua nonna. «Non è mio.»
«Oh, bambina, è bellissimo. Guarda che pelo bianco, ehi, ciao, tesoro» proruppe poi Amelia, rivolgendo le proprie attenzioni al batuffolo ai piedi della nipote. «Come ti chiami? Chi sei? Sei proprio un amore, lo sai, tesoro?»
«Amelia-»
«Ho capito, ho capito, me ne vado.» Con un sospiro rassegnato, Amelia scrollò le spalle. La presa sul bastone si era fatta più morbida, meno violenta, e quando tornò a guardare Timmy, il sorriso che gli rivolse ricordò a lui il calore di un focolare. «Perdona la maleducazione di mia nipote, caro, purtroppo Edith non sa contenersi a volte.»
«Amelia!»
«Ti sei lavata» la interruppe ancora una volta la donna, gli occhi verdi che ricadevano sul viso stanco della giovane, analizzandone il pallore mortale e le ciocche spettinate, ora non più incollate dall'unto della sporcizia. «Chi ti ha convinto a farlo?»
Timothy sussultò, percepì le proprie orecchie andare a fuoco e d'improvviso ebbe la netta urgenza di uscire fuori, fingere di non aver visto niente e ritornare in quella casa dopo aver dimenticato tutto. Mrs Morrison, proprio come la nipote, parve in grado di leggerlo subito, di comprendere immediatamente i pensieri che attraversarono la sua testa solo guardandolo negli occhi.
Le labbra stanche della donna si schiusero lentamente e in quegli occhi soffocati dalle palpebre bagnate di vecchiaia e rassegnazione sgusciò la luce dello stupore. «Oh» mormorò infine, avvicinandosi a lui. «Sei stato tu?»
Non c'era giudizio nella sua voce, nessuna critica o risata maligna, nessuna forma di derisione; solo sincero e genuino interesse. Timothy ebbe l'impulso di indietreggiare di fronte a quell'indagine accurata che l'anziana gli stava riservando; era imbarazzante per lui esser osservato in quel modo, venir tratteggiato dalla penna degli occhi così da tornare, inavvertitamente, a ricordare ogni suo difetto.
Era abituato agli sguardi.
A quelle falci sorridenti nascoste nelle cornee bianche, agli impliciti ghigni che si celavano dietro lo sbattere delle palpebre, mentre le pupille ricalcavano la rotondità delle sue forme – e l'errore che possedeva nel sangue, quella macchia che lo rendeva un pezzo di troppo di un puzzle già completo, arrivato lì per sbaglio, dopo che qualcuno aveva voluto disfarsene perché troppo pesante, troppo ingombrante.
Lui aveva conosciuto l'orrore di essere messo in esposizione nel mercato dell'usato, di esser giudicato da occhi che erano pallide lune tremanti nella coltre inchiostrata del cielo. Aveva conosciuto le risate delle persone che si erano soffermate a guardarlo attraverso lo specchio dell'apparenza, e il lembo di pelle tirato verso l'alto delle labbra di Audrey, di quella donna che gli aveva donato il trofeo dell'errore, insieme alla medaglia della vergogna. E ora lei era lì, così come lo erano tutte quelle persone che per anni gli avevano ricordato i difetti del suo corpo e del suo animo - stupido, stupido, Timmy, grasso, grasso, Timmy -; poteva sentirne la presenza, il richiamo assiduo di fronte all'indagine di quegli occhi verdi che sostavano su di lui, ricercando i suoi segreti e le sue preghiere.
Smettila, avrebbe voluto supplicarle, smettila di guardarmi. Perché ogni respiro che lei faceva era il ricordo degli sbuffi di Audrey, delle sue risatine mentre lo guardava affannarsi pur di ottenere il suo affetto, sapendo bene che non glielo avrebbe mai concesso, a discapito delle sue fatiche, delle ore e ore passate a pulire, pulire, pulire, sistemare, ordinare, trasformare lo sporco in pulito, dare un posto ad ogni oggetto, così Audrey mi amerà, così sarà la mia mamma e io finalmente diventerò suo figlio.
«Amelia, basta così.»
Avrebbe voluto piangere, in quel momento, per il sollievo che provò quando Edith intervenne, frapponendosi fra lui e la donna, ma si contenne, provò a mantenersi saldo nella sua vita, senza permettere alle cicatrici del suo cuore di riprendere a bruciare a ogni battito. Osservò quasi con gratitudine la schiena di lei che gli dava le spalle, la tensione che si ramificava su quel corpo fragile e troppo magro, rovinato da se stesso. «Tornatene a casa» gracchiò la donna. «Non voglio vederti mai più.»
Timothy non sapeva dire se il suo intervento fosse dovuto al desiderio di cacciarla di casa, a quello di aiutare lui o a entrambe le cose, ma non riuscì a non provare una forma di sollievo, nell'osservare quella figura così stanca e rovinata che si ergeva di fronte a lui – come una statua di sabbia che si rifiutava di crollare, di perdere i suoi granelli per colpa di una folata di vento, e che tentava disperata di affrontare le intemperie del sole e della risata del cielo.
«Molto bene, bambina, torno a casa.» Amelia esitò per qualche secondo, si mosse con flemma verso la porta, il ticchettare del suo bastone faceva tremare le pareti dell'atrio d'ingresso, mentre il gattino la osservava, nascosto dietro le caviglie della ragazza. L'anziana osservò quella creatura per qualche secondo, la mano già protesa sulla maniglia, e prima di aprire la porta e scomparire dall'altro lato del mondo – quello pulito, in cui ancora c'era la luce del sole e la distruzione non aveva divorato l'aria – sussurrò alla nipote: «Io non mi arrendo, bambina, non mi arrendo.»
Quando la porta si richiuse e il ticchettare del bastone scomparve, Timothy percepì le sue spalle farsi più leggere e una nuvola di sollievo addensarsi nel suo stomaco, per poi svolazzare felice dentro la pancia.
«Timothy Barlow.»
Timmy sollevò il capo, lasciò che i suoi occhi rivestissero il corpo della donna di fronte a lui, che placassero l'ira che contorceva quei muscoli con la calma che lo aveva appena pervaso; fu una lenta e attenta ricerca di respiri e di sguardi, di battiti e di rumori, e quando finalmente si scontrò con le nuvole nascoste dietro le ciglia arrossate della donna, queste lo affogarono, lo fagocitarono in un mondo privo di giudizi ma altrettanto pieno di parole, un luogo in cui riuscì a scorgere il suo stesso riflesso.
La caligine densa di quelle iridi gli masticò il cuore e d'improvviso lui si sentì nudo, spoglio di ogni difesa di fronte a quegli occhi che erano in grado di entrare nei suoi, di rubargli i silenzi e i timori dietro cui si nascondeva per seppellire i segreti che lo tormentavano, così da celare al mondo intero la sua natura viscida e imbarazzante, il suo corpo fatto di pelle e di macchie.
«Ogni volta che chini lo sguardo, perdi.»
Trattenne il respiro, si sentì arso vivo dalla fiamma della verità che andava a bruciare il suo ceppo di menzogne. Avrebbe voluto scappare, fuggire via dalla sentenza intrappolata nelle iridi di lei, ma capì subito di non poterlo fare, comprese immediatamente che Edith non gli avrebbe mai concesso una simile speranza. Perché quella donna era fatta di fuoco, era sole che bruciava e inceneriva ogni cosa la sfiorasse, e lui, inesorabilmente, si era trasformato in Icaro.
Si era avvicinato troppo.
Le aveva concesso di guardarlo da vicino.
Di sciogliere la cera delle sue ali.
Di rompere l'inganno della libertà che credeva di aver raggiunto, una volta esser scappato via dalle fauci di Audrey.
Lui l'aveva trovata e lei, per ringraziarlo, lo aveva bruciato vivo.
«Non si può sfuggire agli occhi, Timothy Barlow, ti troveranno sempre. È con le parole che si combatte, non con gli sguardi che fuggono. Impara ad usarle, se non vuoi fare la mia stessa fine fra dieci anni.»
E poi se ne andò.
Nota autrice:
Non ci credo neanche io che ho aggiornato per due giorni di fila.
Come potete notare, sto introducendo pian piano nuovi personaggi, questo perché tutti loro saranno fondamentali per la storia e, soprattutto, per Timothy e Edith. Nota importante è il finale di questo capitolo: le parole che Edith rivolge al ragazzo, perché pian piano il loro rapporto sta cambiando e questo è solo l'inizio!
Come sempre, grazie per star leggendo questa storia! Se vi sta piacendo, potete stellinare il capitolo o lasciare un commento (o entrambe le cose, io non mi lamento eheheh)! Grazie ancora!
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro