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Fratelli




Quando si risvegliò, di Edith non c'era più alcuna traccia.

Vide solo la sua stessa ombra aggrinzita tra le pieghe del letto, e il contorno netto della sveglia sul comodino, che ticchettava incessante lo scorrere sporco del tempo.

All'inizio neanche riuscì a capire cos'era successo.

Aveva i pensieri dispersi in coltre nebulose, e il respiro giaceva incastrato in gola, premendo nella carne pur di non uscire. Ebbro di una stanchezza che flaccidamente gli si incollava alle ossa, si ritrovò a credere di essere ancora disperso dentro la sua testa, aggrovigliato alla treccia dei sogni.

Ad accogliere il suo risveglio fu il silenzio della camera, i primi rossori del pomeriggio che giocavano a coltivare colori caldi sul legno stanco del suo armadio a parete; Timothy faticò persino a ritagliare le sagome di quel suo mondo tanto speciale, smarrito com'era nel ginepraio della sua stessa sonnolenza.

Quando si sollevò dal letto, le ossa della sua schiena scricchiolarono come ferite, e gli occhi si rifiutarono di permettergli di veder bene ciò che lo stava circondando. Si massaggiò la curva del collo, sentendo i muscoli sotto i polpastrelli cedere sollevati a quella carezza, e quando riposò la mano sul materasso, percepì qualcosa di ruvido incastrarsi tra le dita.

Ancora infettato da quello strano sogno, chinò il capo e scoprì sul palmo il foglio bianco che era stato abbandonato. Lo prese e lo avvicinò, sempre più confuso, e a stento riuscì a leggere la tremenda grafia che ne aveva rovinato il biancore:

Devo dare da mangiare a Michelangelo.

Dovette rileggere più volte perché le parole incise nella carta assumessero significato nella sua testa. Le lettere sfumavano come acquarelli nell'acqua, perdendo chiarore e nitidezza, e Timothy non riuscì a incastrarle in nessuna delle immagini che avevano tempestato il suo sogno.

Continuò a leggere, si sforzò di farlo. Tornò a inseguire con gli occhi quelle parole che si mescolavano senza senso dentro la sua testa, e lentamente si sollevò dal letto. Si sentiva... strano, in quel momento, le emozioni sembravano essersi appannate: le percepiva, ma non riusciva a individuarle. 

Quella sensazione di smarrimento, tuttavia, gli venne violentemente strappata, quando il suo piede inciampò su un asciugamano lasciato per terra. La caduta fu tremenda, scivolò per terra e fu solo per grazia divina se evitò di sbattere la faccia contro il parquet: le ginocchia attutirono la caduta, stramazzando per il colpo che le scosse e che mutò i pensieri in spilli.

Per un attimo, non poté far nulla.

Rimase immobile per terra, a fissare l'asciugamano colpevole.

Cosa ci faceva quell'asciugamano in camera sua?

Lo afferrò, sempre più perplesso, e constatò con costernazione che era ancora umido. Il tessuto soffice era pregno d'acqua, scivolava tra le sue dita, imporporandole del profumo del suo shampoo. Quando lo aveva usati? Non ricordava di essersi fatto la doccia da così poco-

Si fermò.

Si fermarono i pensieri e il tempo stesso, lacerando la membrana del sonno che ancora gli copriva la mente.

Fu come sentirsi esplodere la mente, e percepire i propri pensieri tentare di ricomporsi senza più trovare legami.

E i sentimenti ora vivi e pieni, carni pulsanti delle viscere.

Inevitabilmente, sentì il suo sguardo cadere in basso, scivolare sul suo corpo, sull'inguine.

Il bottone dei suoi jeans brillava, in quel momento, riluceva anche all'ombra del tessuto grigio; e in una spirale di imbarazzo, trepidazione e tremori Timothy ricordò le dita che avevano sfilato via lentamente quel bottone, trascinandolo nell'asola, ridiscendendo sulla cerniera...

Labbra di sangue, e un tocco leggero, un fiato assopito che soffiava sul suo fuoco per accrescerne l'incendio...

Rizzò in piedi, sentendosi avvampare, e l'asciugamano cadde dalle sue dita, atterrando come un petalo bianco.

«Ah.»

Fu l'unico verso che uscì dalla sua bocca, e si sentì piuttosto stupido quando lo udì rimbalzare fra le pareti della camera. Il cervello, ora, mulinava acrobazie di paranoie e sensazioni, che plasmavano presente e passato in unico rumore, un'unica sensazione; le mani di lei addosso, quel sorriso malconcio, sfatto, e gli occhi arrugginiti, fissi nei suoi mentre...

Inspirò a fondo, cercando di riprendere contegno, premendo i polsi contro le palpebre chiuse, ma fu inutile. La verità era incarnata nella sua stessa pelle, nei tremori con cui suonava i suoi respiri.

Era successo davvero.

Non era stato un sogno.

L'aveva baciata.

Lo aveva baciato.

Si erano baciati.

Lei gli aveva...

Inspirò a fondo, e tutto quello che era appena successo si schiuse nella sua testa in un bocciolo di pungiglioni, pizzicando tutto, pelle e muscoli, avvelenando persino i brividi.

Mi dispiace.

Timothy schiuse le palpebre, e la rivide lì, tra le sue braccia, mentre gli crollava addosso, dentro, nel cuore, nelle vene. Ti ucciderò, perdonami, non morire, ti prego, non voglio ucciderti, mi dispiace, mi dispiace tantissimo.

Le parole che gli aveva mormorato, prima che crollassero entrambi nella voragine del sogno, scorrevano come pece nel suo sangue, ora, tracciando impronte di paure per tutta la carne; ti ucciderò, perdonami.

E in un attimo tutta la meraviglia che aveva coltivato fino a quel momento appassì, recisa dalla natura dell'impotenza in cui affogò.

Non avrebbe mai creduto possibile che una donna tanto grande potesse essere così piccola fra le sue braccia, fragile essenza. Anche dopo tutto quello che gli aveva rivelato, anche dopo che si era lasciata andare e lui si era scoperto la sua stessa anima per mostrarle l'amore che la colorava... anche dopo tutto quello, c'era ancora una macchia.

Una macchia, una minuscola macchia che le era rimasta incastrata in testa.

Qualcosa di talmente impalpabile da non poter esser rimosso con un semplice bacio, ma così nitido da incrinarle la vista e affollarle i pensieri di morte.

E non importava quanto il loro quadro fosse straordinario, quante sfumature avrebbe potuto raccogliere insieme, fino a setacciare paesaggi sconosciuti all'intero universo; quella macchia sarebbe sempre stata lì, petulante, marcia. Sarebbe sempre stata lì, a partorire tossine con cui sporcare Edith, infangarla di pensieri atroci.

Esisteva e rompeva, quella macchia, tramutava i colori in muffe, e tutto ciò che gli lasciava era una donna piangente che lo supplicava di non morire, di non lasciarsi uccidere.

Le braccia gli ricaddero fiaccamente lungo i fianchi, mentre l'emozione di quanto successo affievoliva, sepolta dalle macerie di quella certezza.

Cosa posso fare? Gli chiedeva il cuore. Cosa posso fare? Cosa posso fare per amarla?

Nulla, piangeva la mente. Non potrai mai amarla del tutto.

La macchia sarebbe rimasta, scarabocchio indelebile, a tessere agonie e incubi in cui Edith si sarebbe per sempre percepita aguzzina. Avrebbe rivoltato il quadro, rotto i contorni, scucito i ghirigori che loro due avevano minuziosamente tracciato nel nucleo delle loro vite; e dall'affresco che erano la macchia li avrebbe deturpati in sagome in poltiglia.

Gli avrebbe sottratto sempre un pezzo di lei, persino mentre era tra le sue braccia, persino quando credeva di averla finalmente con sé.

Non puoi salvarla, Timothy.

Adesso le parole del professor Sawyer ferivano molto più della prima volta che le aveva ascoltate. Che ingiustizia! Che rabbia! Amore traditore! Amore dannato! Lui se lo sentiva così dentro da averlo incollato ai respiri, e comunque non sarebbe bastato, non sarebbe mai stato sufficiente.

Lui che era sempre stato così bravo ad ordinare e a pulire, lui che del lindore ne aveva fatto la propria firma, era costretto ad arrendersi al cospetto di una macchia che non avrebbe mai potuto cancellare, poiché non sua.

«Pandino.»

Sussultò, nel sentirsi chiamare dalla voce di Killian. Voltò il capo, in preda ai tremori che lo stavano squassando, e trovò il suo coinquilino sull'uscio della porta, che lo guardava con occhi interrogativi.

Con occhi che già sapevano, che già avevano intuito, perché Killian era dentro Timothy in un modo troppo certo per poterlo dar per scontato. Killian lo guardò, e già seppe tutto: gli bastò questo, non ci fu bisogno d'altro. Timothy si sentì scoprire in tutti i suoi miseri pensieri, nella tracotanza della vergogna che lo stava affliggendo, e strinse con violenza la mascella.

«Ti senti bene, Pandino?»

Fece per rispondere che sì, stava bene, come sempre avrebbe voluto fare, ma gli bastò una semplice occhiata da parte del suo migliore amico, per capire che non sarebbe servito a niente. Killian fiutava le menzogne, le sentiva prima ancora che nascessero, e le depredava tutte, estirpandole dal cuore di chi le aveva create senza pietà. Killian lo conosceva fin troppo bene, era suo fratello, d'altro canto.

«No» gracchiò alla fine, e si sentì sfiorire con quella semplice sillaba. «Non posso salvarla, Killian.» La voce si sfibrò, lui si sfibrò, e perse consistenza, avvizzendo sotto gli occhi compassionevoli dell'amico. «Non posso salvarla.»

Ora finalmente poteva comprendere l'impotenza che Killian provava da tutta una vita, e che fino a quel momento gli era rimasta ignota. Poteva capire i chiostri d'ombre che gli avevano recintato troppe volte gli occhi, quando guardava sua madre sorridergli e chiamarlo con un nome non suo, confondendolo per il figlio che non era.

Killian si avvicinò a lui, in silenzio, senza rompere un solo suono, custodendoli tutti con quella delicatezza che in pochi avrebbero saputo riconoscergli, e posò una mano sulla sua spalla, stringendogliela, le dita callose aggrappate alla felpa. Fu un contatto vivo, che parlò per entrambi.

«L'amore...» lo sentì dire, con voce rauca. «L'amore non è una medicina, Timothy. Puoi amare una persona che soffre di cancro quanto vuoi, ma il cancro rimarrà comunque. Puoi amare una donna che non ha più gambe, ma il tuo amore non gliele farà ricrescere. E certi dolori diventano malattie, a volte, certi dolori nascono come malattie, e nessun amore potrà mai alleviarli.»

Lo sapeva, se lo era ripetuto centinaia di volte, ma comunque il suo animo si rifiutava di accogliere quella fatale verità.  Aveva visto con i suoi stessi occhi, per anni, il modo in cui il suo amico aveva deciso di sacrificarsi, per salvaguardare quel poco che gli rimaneva della madre.  L'aveva visto disegnarsi un sorriso non suo sulle labbra, dipingersi di vesti fasulle, indossare miserevoli occhi, flaccide imitazioni di quelli del fratello; strapparsi della sua stessa anima per infilarsi in quella di un altro, e ogni giorno travestirsi nel ragazzo che non era. Tutto solo per poter amare una madre che non lo avrebbe mai amato, tutto solo per poter amare una madre che madre più non riusciva ad essere per lui.

«Come ci riesci, Killian?» si ritrovò a domandargli. «Come riesci ogni volta ad accettarlo? Quando tua madre ti guarda e ti chiama Oliver... come fai a sopportarlo?»

«La amo.»

Timothy aveva il capo chino, ma avrebbe potuto giurare che il suo amico stesse sorridendo. Quel sorriso semplice, delicato, che racchiudeva dietro i suoi intrichi una sofferenza inimmaginabile, tremendi supplizi a cui non era possibile dar nome. «La amo e basta, perché è l'unica cosa che posso fare. Farebbe molto più male se non potessi nemmeno far quello» proseguì. «Per Dio, se è difficile, ma è anche così bello.»

Chiuse gli occhi, inspirando di nuovo, e la mano di Killian finì sul suo capo, gli spettinò le ciocche con delicatezza. «Quella vecchia» gli disse, «non vuole salvezza, Timothy, ma ogni volta che ti guarda i suoi occhi pregano perché tu possa amarla.»

Timothy deglutì, ma la saliva era diventata colla, e gli rimase ferma in gola. «Non è abbastanza.»

«Non deve esserlo» replicò l'amico, stropicciandogli la frangia. «Amare non è una fiaba, Timothy, non ci sono lieti fini in cui tutti sono felici e contenti, non c'è una fata turchina che trasforma la zucca in carrozza o un principe che colleziona scarpette di cristallo. Amare vuol dire guardare dentro una persona, trovare un sentiero di spine e continuare a pensare "alla fine ci sarà la mia rosa".» Timmy sollevò il capo, e il sorriso di Killian si fece più largo. «E in realtà non lo sai davvero se quella rosa c'è o se saranno solo roveti, ma non è già bello credere di poterla trovare, un giorno?»

Sotto la calda pressione della mano del suo amico, sentì i suoi muscoli sciogliersi pian piano dai nervi che li avevano contratti tra loro, e inaspettatamente le sue labbra sgusciarono via dalle lacrime per fabbricare un sorriso: «Questa metafora da dove l'hai presa?» gli domandò, con voce rauca. «Non si adatta per niente a te.»

«Il mio psicologo» confessò l'altro, «ogni tanto spara frasi del genere, tutte molto commoventi e poetiche, soprattutto quando parliamo dei miei sentimenti e di come mi dispero per la mamma. Sviolinata in sottofondo, prego» con un gesto teatrale, finse di dirigere un'orchestra, e Timothy, per la prima volta da quando si era svegliato, scoppiò a ridere. «Ci credi che aiutano un casino a rimorchiare le tipe?»

«Io credo che forse è meglio se cambi psicologo» lo prese in giro.

«Dici così perché non hai mai provato le sue tecniche. Dì a una donna "non c'è nulla di più meraviglioso di un essere umano che impara ad amarsi" e vedrai come ti inviterà a seguirla nella sua camera da letto per iniziare a suonare Jingle Bells con il suo-»

«Ok, basta così» lo fermò Timmy. «Per caso il tuo psicologo ha anche trovato la causa della tua perversione e il modo con cui risolverla?»

«Inizialmente avevamo ipotizzato si trattasse di un qualche sordido trip mentale con cui ricerco la mia figura materna tragicamente perduta in altre donne» affermò il ragazzo, fingendosi estremamente amareggiato e asciugandosi lacrime inesistenti dagli occhi, per poi gonfiare il petto con orgoglio e dire ancora: «Ma siamo giunti alla conclusione che, semplicemente, è proprio nella mia natura venerare la patata.»

Timothy scosse la testa. «Quando sei arrivato, a proposito?» domandò, mentre il suo coinquilino lo accompagnava verso il soggiorno del loro appartamento.

«Pochi minuti fa» rispose Killian, sedendosi sul divano davanti al televisore con aria soddisfatta. «E quando sono rientrato, ho incontrato la vecchiaccia, proprio mentre se ne stava andando. Mi ha detto di informarti che non vuole che vai a trovarla.»

Il sorriso gli si ghiacciò sulle labbra. «In che-»

«Ha detto, e cito testualmente, "digli che non può rimettere piede in casa mia fino a quando non sarà andato e tornato dal Texas, dopo aver preso a calci in culo quella demente di sua madre. Solo allora potrà riprendere a rompermi i coglioni su quanto la mia casa faccia schifo".» Killian si lasciò sfuggire uno sghignazzo, e, ignorando l'occhiataccia con cui Timoty lo fulminò, aggiunse: «Quella donna non sa proprio essere onesta, eh? Avrebbe semplicemente potuto dire "pensa prima ai tuoi problemi, poi ai miei", ma ha rigirato la frittata in modo da continuare a sembrare una stronza.»

«Lo fa sempre» ammise, con un sospiro, per poi sentire la sua fronte aggrottarsi, quando notò che il ghigno di Killian non era scomparso, anzi, era proliferato fino a segargli gli zigomi con le sue ombre. «Ti ha detto qualcos'altro?»

«Nah» replicò l'altro, con troppa spalvalderia perché Timothy potesse crederci, ma Killian rimase imperterrito, senza mai sfilarsi la maschera ilare che indossava sul viso. «E pensare che ha detto a me che sono un uomo pericoloso, lei» lo sentì bofonchiare, travolto da un'onda di risate sommesse.

«Di cosa stai parlando, Killian?»

«Oh, giusto, Pandino, ho un regalo per te, sono uscito apposta per comprartelo» lo bloccò l'altro, sollevando una mano per metterlo a tacere. Timothy era sempre più confuso, lo guardò sporgersi dal divano per acciuffare qualcosa che aveva abbandonato per terra, oltre il bracciolo e i cuscini. «Dato che ormai non posso più fermarti dal tradirmi, non mi rimane altra scelta che festeggiare con te questo momento così importante.»

Non capì, all'inizio, rimase estremamente perplesso, specie quando lo vide tirar fuori dal posto celato un mazzo di fiori e avvicinarsi a lui con il sorriso da mascalzone rubacuori di sempre.

«Congratulazioni per la perdita della tua verginità, Pandino.»

Timothy sobbalzò, la bocca già spalancata per ribattere, ma non ci riuscì: i suoi occhi calamitarono subito sul bouquet che Killian gli stava porgendo e solo in quel momento realizzò che non si trattava affatto di un mazzo di fiori.

Era un mazzo di preservativi.

Il volto gli andò a fuoco nell'esatto momento in cui li vide: involucri di plastica quadrati brillavano tra il fogliame a cui erano stati incollati, accendendo coi loro colori il verde opaco del mazzo, brillando come lucciole in una foresta abbandonata.

«Cristo santo, Kill-»

«Regola numero uno» lo fermò ancora una volta il suo coinquilino. «Il preservativo va messo sempre. Sempre. Non ci provare nemmeno a pensare di usare il coito interrotto, anche se è lei a supplicarti di farlo. Prima di tutto perché non voglio diventare papà così giovane, di nuovo. Mi bastano i nostri porcellini d'India. E secondo perché, per quanto tu ti possa fidare di lei, quella vecchiaccia ha avuto parecchie relazioni sessuali in passato. Fino a quando non ti avrà dimostrato che le sue analisi del sangue sono più linde della tua camera il giorno delle pulizie primaverili, non le concedere la tua banana sbucciata, mai

Timothy non si sentiva più la pelle del viso, tant'erano violente le fiamme che gliela stavano incendiando, ma l'amico non gli permise di ribattere, continuando a parlare con un'austerità a tratti inquietante: «Regola numero due: non farti prendere da paranoie, non preoccuparti di come andrà, non temere di essere scadente a letto. Facciamo tutti abbastanza schifo la prima volta. Come per tutte le cose, l'esercizio è la chiave per raggiungere il successo.»

«Killian, per favor-»

«Regola numero tre: sii chiaro e specifico sin dall'inizio sulle cose che vuoi e non vuoi fare, e chiedi altrettanta sincerità a lei. Così, se ci saranno degli scontri nelle vostre due visioni, potrete raggiungere un compromesso; è sempre meglio trovarlo subito, piuttosto che finire per fronteggiare l'ostacolo nel momento clu.»

«Andiamo, ti rendi conto che-»

«Non ho ancora finito.» Il volto di Killian era serissimo, quello di Timothy non aveva più parvenza umana. «Ultima regola: se hai dei dubbi su come si fa una determinata cosa, se non sei sicuro su come funziona, diglielo subito. Non esitare e non imbarazzarti, chiedile di darti una mano a capire. Non c'è nulla di cui vergognarsi, e sono certo che quella vecchietta sarà più che contenta di farti da insegnante in quell'ambito.»

Timothy non riusciva più nemmeno a sentire i suoi pensieri.

«Oddio, lo avete già fatto?» gli domandò Killian. «Ti prego, Pandino, hai usato il preservativo, vero?»

«No!» latrò allora il ragazzo, indietreggiando imbarazzato, e sentì il rossore farsi sempre più forte. «Non lo abbiamo fatto! E comunque sapevo già queste cose! Non è quello il problema, il problema è che...» si fermò, mordendosi il labbro. «Posso dirti una cosa... poco virile?»

Il sopracciglio sinistro di Killian si inarcò. «Poco virile?»

«Io...» si bloccò, mentre la testa gli urlava contro di tacere, di non umiliarsi in quel modo. «Lo sai che sono... sovrappeso.»

Ora fu il turno dell'altro sopracciglio di sollevarsi.

«Ed Edith è così... è così bella e-e così magra... e così bella» avrebbe soltanto voluto scavare una fossa ai suoi piedi e seppellirsi là dentro, ma ormai la voce non aveva più freni, e le paranoie avevano ripreso a tempestarlo, «e... e scommetto che anche i suoi precedenti partner lo erano... e non lo so... se mi vedesse nudo... magari cambierebbe subito idea e-»

«Ehi, Pandino, frena, frena un attimo» lo interruppe ancora una volta Killian, e Timothy riprese fiato tutto d'un colpo, incapace di guardare l'amico negli occhi per la vergogna. «Prima di tutto, questo non ha nulla a che vedere con la virilità. È normale e giusto che anche un uomo abbia paure sul proprio aspetto, non è certo questo a renderlo meno uomo. Secondo...» si grattò il mento, guardandolo quasi con perplessità. «La vecchia ti ha per caso dato motivo di credere che non è attratta fisicamente da te?»

Il ricordo di quanto successo poco prima nella sua camera da letto, baci e labbra, sentimenti umidi, e il calore della lingua che aspirava tutto il fuoco, gli arroventò le guance. «No» ammise, «ma... ma non mi ha mai visto nudo.»

«Scommetto però che ti ci ha immaginato un sacco di volte.»

«Sono serio, Kill.»

«Anche io.»

Timothy lo trafisse con un'altra occhiataccia, ma di risposta l'amico incrociò le braccia al petto, fissandolo con noncuranza. «Pandino, fidati, quella vecchia ti mangia con gli occhi, fosse per lei a quest'ora avresti già perso ogni tipo di verginità esistente al mondo.»

«Andiamo, Killian...»

«Se non ti fidi di me, chiedilo direttamente a lei, la prossima volta che la vedi.»

Si sarebbe sparato in fronte piuttosto che domandare ad Edith una cosa così imbarazzante.

«Ad ogni modo» mormorò Killian, distraendolo dai suoi pensieri suicidi, «sono d'accordo con quella vecchiaccia. Prima è meglio che ti occupi della strega, dopo penserai al resto.»

Timothy, in realtà, non aveva davvero voglia di pensare ad Audrey e alla collana. Sapeva che non sarebbe più riuscito a trovare una scappatoia dalla ragnatela che quella donna aveva intessuto, solo per poterlo umiliare l'ennesima volta di fronte al suo fallimento, ma la serietà del suo amico era inespugnabile, e lo schiacciava contro la verità dei fatti.

«Quando hai intenzione di partire?»

Lui esitò un momento, prima di rispondere. «Dopodomani» ammise alla fine. «Audrey ha già comprato i biglietti. Starò via per circa due settimane.»

«Vuoi che venga con te?»

Timothy sospirò, sollevato ingiustamente da quella proposta da parte del suo amico. «No» borbottò. «Lo sai che mi farebbe piacere, ma non risolveresti nulla.»

«Chi lo sa» borbottò l'altro, «magari, grazie alla mia presenza, la strega potrebbe accidentalmente cadere dalle scale.»

Sentì un sorriso mangiucchiargli le labbra, e guardò il suo amico tra la costernazione e il divertimento. «Accidentalmente?» ripeté, per nulla convinto.

«E sempre accidentalmente potrebbe perdere l'uso della parola» proseguì Killian, fischiettando con innocenza.

«Cosa penserebbe il tuo psicologo di tutti questi fortuiti imprevisti che accadono attorno a te?»

«Oh, tirerebbe fuori la carta del sorriso gentile, per poi farmi capire con parole tanto delicate quanto potenti che sono stato un coglione» Killian sospirò, sperduto nel ricordo di quel sorriso che aveva sempre descritto a Timothy come un'arma letale di massa. «Ma ne varrebbe la pena.»

Timmy sorrise di nuovo, stavolta sinceramente.

Guardò il suo amico, e arrivò a dirsi che non era finita.

Il fantasma di Audrey, ora, pesava sulle sue spalle, ma quello spettro non bastava, non sarebbe mai bastato, per fargli rimpiangere ciò che ancora possedeva.

Perché per quanto le mani di quella donna provassero a martoriarlo, per quante paure gli risvegliasse dentro lo stomaco, non avrebbero mai potuto strappargli via quel che lui era riuscito ad ottenere col tempo, da solo: il suo migliore amico, suo fratello. L'unica persona in quel mondo che Timothy avrebbe sempre saputo sarebbe stata al suo fianco, anche se il mondo fosse crollato e il tempo avesse smesso di narrare le loro storie. Killian, in un modo o nell'altro, lo avrebbe sempre raggiunto e sostenuto.

Lo sapeva, lo aveva imparato molti anni prima, quando entrambi erano ancora solo dei ragazzini, più immaturi di quanto non lo fossero adesso. Era stato il giorno in cui Timothy aveva ricevuto una chiamata dalla madre di Killian. L'aveva sentita gridare al telefono, urlare e piangere fino a lacerargli le orecchie, perché il suo Oliver era scomparso, di lui non c'era più traccia.

Oliver non c'era più da molto tempo, in realtà, e, a dire il vero, di lui Timothy conservava pochissime memorie. Non quante, invece, aveva confezionato del fratello minore, il ragazzo che conosceva da tutta una vita, con cui aveva condiviso tutto: giocattoli, videogames, desideri, sogni, persino paure. Era al suo fianco da così tanto tempo che lo considerava parte di sé stesso, un pezzo indispensabile per andare avanti, colui che gli aveva permesso di diventare Timothy Barlow.

Lo aveva trovato in piena notte, dopo lunghe e lancinanti ore di ricerca, seduto per terra sul marciapiede della stessa strada che lo aveva reso figlio unico, anni prima, e che lo aveva condannato a vivere con un altro nome.

Anche sotto lo scrosciare inesorabile della pioggia, persino nel freddo pungente della coltre invernale, Killian non si era mosso da lì per tutto il tempo. Timothy, all'inizio, lo aveva persino confuso per un fantasma: era lo spettro di una macchia nera che abbozzava i contorni del buio.

Non piangeva, quando lo aveva raggiunto, né singhiozzava. Se ne stava semplicemente lì, seduto sul bordo di un marciapiede assassino, acquattato in sé stesso, mentre provava a trattenere i brividi abbracciandosi le gambe. La testa infossata tra le ginocchia, la schiena curva, rigida, invasa da tremiti glaciali.

Timothy non aveva potuto dir nulla, non aveva saputo dir nulla. Si era semplicemente seduto al suo fianco, offrendo il riparo del proprio ombrello, e aveva atteso. Aveva atteso milioni di secondi, milioni di lieti fini che non erano mai arrivati, portati via dagli ultimi pulviscoli bianchi con cui i fanali delle macchine agganciavano la notte.

Poi, dopo quell'eterna attesa, scandita soltanto dal rombo delle gocce che divoravano la cupola dell'ombrello, aveva sentito dire dal suo amico: «Sono Killian» la voce schiacciata come briciole sotto una scarpa, «sono Killian, mi chiamo Killian, lo giuro.» E ancora, di nuovo, una preghiera, una supplica, o forse una bestemmia. «Killian, Killian, Killian.» E il volto era stato inghiottito ancor più dalle ginocchia, in un oblio in cui Timmy aveva temuto di perderlo e perdere anche il resto del mondo. «Sono Killian, lo giuro.»

Lo aveva ripetuto all'infinito, un mantra con cui aveva cercato di impedire all'imitazione di prender possesso dell'originale, al costume di Oliver di incollarsi alla sua carne.

Timmy non era riuscito a rispondergli subito, aveva fatto l'unica cosa che poteva fare in un momento del genere: reggere l'ombrello, per proteggere entrambi dalle intemperie del tempo.

«Sì» si era ritrovato a mormorargli alla fine, sotto un cielo di stille, «non ti preoccupare, sarai sempre Killian, te lo ricorderò io, semmai tu dovessi dimenticarlo.»

Killian aveva sollevato cautamente il capo, e Timothy non avrebbe mai dimenticato gli occhi con cui lo aveva scrutato: questi, aveva pensato, sono gli occhi di mio fratello. E senza neanche rendersene conto, aveva chiuso la mano libera in un pugno e gliel'aveva porta.

«Promesso, Timothy?»

«Promesso, Killian.»

Da quel primo incontro, i loro pugni si sarebbero ritrovati un'innumerevole quantità di volte. Per mantener fede alla parola, per non dimenticare mai, per ricordarsi a vicenda che l'uno c'era per l'altro, anche quando l'oblio sarebbe tornato e i pensieri avrebbero ripreso a vociferare tormenti.

Perché per lui Killian sarebbe sempre e solo rimasto Killian, e per Killian lui sarebbe rimasto semplicemente Timothy.

Erano rientrati in casa così, Oliver era tornato da sua madre, ma Killian era rimasto con Timothy, non se n'era mai andato. Era diventato molto più di un semplice amico. Killian era suo fratello e compagno. Loro due erano unicamente, inevitabilmente, l'uno parte dell'altro; e nonostante tutti gli intrighi che il mondo aveva tramato per distruggerli, il loro era sempre stato l'unico vincolo a non vacillare.

«Pandino» lo chiamò, bucando la memoria che lo aveva travolto, e quando Timothy lo guardò, capì che non era stato l'unico ad esser stato sommerso dalla pioggia di quel giorno. «Sono ancora Killian?»

Inevitabilmente, Timothy si ritrovò a sorridergli.

Porse il suo pugno in alto. «Il solo e unico» gli assicurò.

Killian sorrise a sua volta.

E batté il pugno.





Nota autrice:

In questo capitolo, ho davvero amato parlare di Killian. So che in molte di voi lo adorate, e devo confessarlo, anche io lo adoro tantissimo. Amo, soprattutto, l'amicizia che lo lega indissolubilmente a Timmy (il potere della ship scorre potente in me), perché è qualcosa di così prezioso che non si può nemmeno definire a parole.

Ad ogni modo, domani avrete un altro capitolo. Chi mi segue su instagram già lo sa, ma ho completato in privato la storia. Sì, esatto, "La pioggia prega in autunno" è stata conclusa, almeno nei miei file word. Ma aspettate, prima di preparare i fazzoletti! Di capitoli da pubblicare ve ne sono ancora molti, perciò ho deciso di fare così: il venerdì di ogni settimana riceverete un aggiornamento. 

Oddio, che bella sensazione poter dire quando aggiorno. Vi giuro, è un'emozione bellissima.

Domani pubblicherò un altro capitolo, solo per questa settimana, però, perché, anche se li ho finiti di scrivere, voglio comunque revisionare un po' questi ultimi capitoli, prima di mostrarveli.

Ci vediamo domani, un bacio! 

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