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Frammento di dolore

Capitolo sei

Frammento di dolore


La solitudine cantava col vento, piangendo la distruzione e l'abbandono della casa che aveva davanti.

Il tempo non era stato clemente, non aveva avuto pietà: si era scaraventato su quell'edificio e ne aveva saccheggiato la sua moderna bellezza, deturpandone l'incanto con cui era nato.

Timothy osservò, non poté fare altro, con lo sguardo ricercò e analizzò, e ogni sbatter di ciglia fu una fitta al cuore; troppo emotivo, lui, troppo empatico, sentiva il dolore trasudare dalle pareti gialle di quella casa, percepiva la solitudine annebbiare le vetrate del primo piano, la cui trasparenza era stata opacizzata dalla polvere e lo sporco.

La carcassa di una casa, questa era villa Morrison: il rifugio di un fantasma.

Timmy deglutì, inghiottì la saliva che gli corrodeva la gola, e questa finì per appassirgli il cuore.

In quel momento più che mai, stava mettendo in discussione tutti i suoi principi.

Non era sicuro di voler proseguire, non era certo che entrare in quella casa e percorrere il rovinato corridoio di sassi bianchi che conduceva alla porta, fosse una buona idea. Nella sua testa pulsava il presentimento che una tale scelta lo avrebbe condotto a conseguenze inaspettate e lui, ragazzo ordinario e desideroso solo di tranquillità, non sapeva se fosse pronto ad affrontarle.

La solitudine di quella dimora era dilagante, sfociava nell'aria e la corrodeva, confondendosi con la nebbia di quel mattino. Inspirò con forza, percepì l'odore della pioggia spenta filtrare nelle narici, bruciargliele violentemente. Le mani strette alle bretelle del suo zaino ricolmo di strumenti per la pulizia, la mascella serrata e gli occhi vibranti di timore: si sentiva uno studente alle prese con il suo primo giorno di scuola.

I suoi pensieri, come al solito, viaggiarono in un luoghi lontani e sperduti, al limite della sanità mentale. Nella sua testa non riusciva a smettere di immaginare Miss Morrison in una versione ancor più macabra e inquietante di Ted Bundy. Contemplò persino la possibilità che la donna gli avesse proposto quel lavoro solo per ucciderlo e offrirlo in sacrificio a qualche divinità.

Forse era davvero una sociopatica assassina.

Forse entrare in quella casa era seriamente una pessima idea.

Scosse la testa, con rabbia, odiandosi per quelle trappole mentali che si costruiva attorno. Si costrinse a calmarsi, a pensare al motivo per cui era lì, in quel luogo sperduto, abbandonato in una delle periferie più isolate della città: i soldi.

Mille dollari al mese.

L'immagine di quelle banconote bastò per ridestarlo. La speranza sgusciò lentamente, quasi con sadico interesse, gli divorò i pensieri nefasti, occupandoli con quelli di un sorriso caldo, di mani rugose che gli sfioravano le guance, di occhi come i suoi, solo più anziani, che si spegnevano di giorno in giorno.

S'incamminò fra un pensiero sciagurato e l'altro, la suola delle scarpe grigie che calpestava il corridoio di sassi, tappezzato da erbacce e mozziconi di sigaretta.

Giunse ai gradini d'ingresso in marmo, anch'essi ricoperti da strati di sporco e di trascuratezza. Li salì contandoli - uno, due, tre, quattro e cinque - e si fermò di fronte alla gigantesca porta blindata, ne osservò il pomello dorato, la lamina dura, la vernice verde. Percepì il silenzio che vibrava dentro quella casa, un rombo che scavalcava il soffio del vento.

La sua mano scivolò tremolante sul campanello alla sua sinistra, ma il dito non fece in tempo a schiacciarlo: un rumore di chiavi, di passi affrettati, di serratura scattata e infine occhi argentati, trafitti dal dolore e dall'assenza di sonno, lo bloccarono l'istante prima che il suo indice sfiorasse il bottone argentato.

«Non per dire, ragazzino, ma sei rimasto fermo per mezz'ora davanti alla mia casa, a fissarla come se fosse stregata. Ne hai di coraggio per farmi incazzare in questo modo di primo mattino.»

Lui avrebbe voluto saper rispondere, possedere abbastanza forza da ignorare quell'incredibile rancore che la donna gli stava sputando addosso, masticandolo fra una sillaba e l'altra, eppure non ci riuscì. Aveva gli occhi sigillati su di lei, intrappolati in quel volto magro, scalfito dalla stanchezza e dalla negligenza; lo sguardo grigio di Miss Morrison, nebuloso come il fumo che rilasciava la sigaretta fra le labbra, lo osservò con arroganza e sfrontatezza.

«Mi scusi» balbettò alla fine Timmy, che della rabbia non conosceva nemmeno il sapore. Chinò invece lo sguardo, posandolo sulla punta delle sue scarpe, e percepì il respiro trattenuto di lei.

L'istante dopo, la donna scomparve di nuovo dentro la casa, lasciando al suo passaggio unicamente nuvole di fumo. «Cosa stai aspettando?» gli gridò dall'oscurità della sua dimora. «Come pensi di pulire questa schifezza senza entrare? Con la telecinesi?»

Lui si morse il labbro inferiore, tormentandolo con gli incisivi, si mosse in avanti, superando la soglia d'ingresso e quando richiuse la porta alle sue spalle il buio lo inghiottì.

Nero: questo era ciò che poteva vedere. Puzza: ciò che poteva respirare. Ronzare di mosche: ciò che poteva ascoltare. Timmy accolse tutto con difficoltà, incerto su come proseguire, appoggiò una mano sulla parete alla sua sinistra, capì di trovarsi in un corridoio che conduceva al soggiorno.

Gli sembro di esser cieco, perché il nulla aveva divorato quella casa grazie alla sua oscurità; quasi si arrampicò per proseguire, le dita che scivolavano sulla parete liscia mentre, sotto i piedi, percepiva unicamente lo scricchiolare di oggetti calpestati dalla suola delle sue scarpe.

Il cuore iniziò a tremargli con ansie e turbamenti, quei rumori non gli piacevano, lo irrigidivano e inducevano i suoi pensieri a percorrere la strada della paranoia: immaginò sotto i suoi piedi un tappeto di ossa, gli ultimi residui delle vittime uccise dalla serial killer Edith Morrison. Quando uno squittio vicino a lui risuonò nell'aria, cedette spaventato. La sua gamba scivolò sul pavimento e, senza che capisse come fosse possibile, lui si ritrovò dolorante per terra, sdraiato di schiena.

«Porca puttana.»

A imprecare era stata Miss Morrison, ma una simile frase soccombeva anche nella gola di Timothy, che se ne stava ancora sdraiato per terra, paralizzato dal terrore: sentiva qualcosa camminare sopra il suo petto, un corpicino che si muoveva lentamente quasi scivolando sul suo addome, il tocco di due piccolissime mani che, con le unghie, gli graffiavano la pelle delle guance.

La luce si accese all'improvviso, spaventando il povero ragazzo. Timmy spalancò gli occhi, a quel punto, pronto ad incontrare la morte, ma tutto ciò che vide fu un gigantesco sguardo cristallino, delle pupille non umane immerse nel lago più trasparente che avesse mai scorto.

Un gattino.

Un meraviglioso gattino, un cucciolo appena venuto al mondo, dalle gambe ancora tremolanti e le zampette che gli sgualcivano gli zigomi. L'animale lo scrutava con curiosità, odorandogli il viso con la punta rosata del suo naso e miagolandogli contro.

«Maledizione, di nuovo qui? Ti avevo detto di startene nello studio, stupida bestia

La bestia in questione miagolò di nuovo, rivolgendo il suo sguardo alla donna che li aveva raggiunti. Lei, di risposta, guardò entrambi fra la perplessità e l'odio.

Timothy si riprese, più per volontà che per vero istinto, si sollevò col busto, attento a non far cadere la creatura che si era aggrappata ad esso. Infine, la afferrò: strinse fra le mani quel corpicino bianco e pallido, così piccolo da poter rientrare nei suoi palmi. «Era... Era questo l'animale di cui mi aveva parlato al telefono, Miss Morrison?»

«Sì, la bestia.» La donna si passò una mano fra i capelli, grattandosi la nuca con furia: dovevano pruderle da morire, così unti e incollati, mai risciacquati da Dio solo sa quanto tempo.

Lei era sporca, proprio come sempre, rivestita con abiti che sembravano stracci: un maglione grigio che le ricadeva male addosso e un paio di pantaloni rovinati.

«La bestia

«Lui!» Miss Morrison indirizzò la punta brillante della sigaretta contro il gattino che Timmy stringeva fra le mani. «È da ieri che non fa altro che inseguirmi ovunque io vada e la cosa, come forse avrai capito, mi rompe il cazzo da morire. Perciò, per favore, tienimelo fuori dai piedi e prenditi cura di lui, prima che un gruppo di animalisti venga sotto casa mia con torce e forconi perché mi son dimenticata di accudirlo.»

Era aggressiva anche quel giorno, lo guardava e lo odiava, e Timmy si domandò quanto poco una persona potesse conoscerne un'altra per poter arrivare a detestarlo in quel modo.

Si rialzò in piedi, alla fine, lo fece con lentezza, stringendo quel gattino al petto, sforzandosi di ignorare la puntura degli sguardi di Miss Morrison; quegli occhi sembravano volergli bucare la pelle, strappargliela con lo sbattere delle ciglia. «Miss...» La voce, tuttavia, gli venne a mancare non appena sollevò il capo e vide ciò che si stagliava oltre l'alta e fragile figura della donna.

La prima cosa che gli venne in mente, a quel punto, l'unico pensiero che lo attraversò, quando vide lo sporco con cui avrebbe dovuto combattere, fu soltanto:

Sarebbe stato meglio un serial killer.

Spazzatura, spazzatura ovunque. Sul pavimento porcellanato, sui mobili moderni, sul divano in pelle nera, sulla cristalleria della parete, nelle venature dei muri, nei solchi delle mattonelle, sopra il tavolo del soggiorno, rifugiata agli angoli del soffitto, infiltrata fra le lenzuola di ragnatele. Un deserto di pattumiera, dalle dune malferme e tremolanti, fra torri di cartoni vuoti e colline di bottiglie di birra; quella sala gigantesca, un tempo un soggiorno, si era trasformata in una piccola prigione dentro cui erano stati buttati gli scarti di una vita intera.

Fissò la pila di vestiti incastrata dentro un camino ormai inutilizzabile, osservò con orrore i mozziconi sparpagliati per terra, come coriandoli impazziti, e le vetrate sporche, macchiate dalle impronte di mani e da macchie di unto. Infine, voltò il capo a destra, in cui un arco aperto faceva da ingresso alla cucina.

Fu attraversato da un conato alla vista dell'orrore che aveva davanti. Lui, così ossessionato dal pulito, in grado di andare in panico di fronte a una singola macchia d'olio sui fornelli, rischiò di vomitare di fronte al degrado che gli si pose davanti agli occhi. Nulla era più visibile nella cucina: non i mobili, non il lavandino, nemmeno l'isola su cui, teoricamente, si sarebbero dovuti consumare i pasti più brevi come la colazione o la merenda. C'erano solo pacchi di sigarette vuoti, cartoni di pizza montati fra di loro.

Timmy si tappò il naso, l'odore di marcio, di aria mai riciclata, gli bruciava le narici. Quella che aveva davanti non era una casa, era una discarica, un luogo dentro cui si potevano scorgere gli abissi profondi di un animo arrabbiato e addolorato.

«Lo so, fa schifo.» Miss Morrison fumava, mentre lo osservava. Gli occhi di lei sembravano divertirsi del disgusto di Timothy, quasi godessero di quel momento in cui gli aveva rivelato solo in parte tutta la sua follia. «Allora, ragazzino, le regole sono tre, sono semplici, facili e abbastanza chiare, persino uno stupido come te dovrebbe riuscire a comprenderle.»

«Miss...»

«Numero uno» lo interruppe lei, sollevando una mano e indietreggiando ancora; sembrava così a sua agio in quel luogo, così soddisfatta nelle carcasse delle sua vita, «puoi prendere tutto quello che vuoi da questa casa. Sinceramente, poco o niente me ne frega della tua possibile natura da cleptomane, il mio unico interesse è che la casa torni pulita come il culo di un bambino a cui è stato appena fatto il bagno.»

Timmy era rigido, immobile di fronte al soggiorno, incapace di proferir parola mentre Miss Morrison, con divertimento, si destreggiava fra i cumuli di spazzatura. «Regola numero due: tieni alla larga quella bestia da me.» Con la sigaretta ormai quasi consumata fino al filtro, tornò a indicare il gattino che lui stringeva ancora fra le mani e questo, non appena se ne accorse, iniziò a miagolare felice sotto la stretta di Timothy. «Non lo voglio con me, meno ho a che fare con lui, più saremo entrambi felici. Nel frigo ci sono le scatolette col cibo e sull'isola della cucina tutte le indicazioni che mi ha lasciato il veterinario.»

«Sì, ma...»

«Regola numero tre, la più importante di tutti: puoi entrare in tutte le stanze che vuoi, pulire quel che vuoi e prenderti quel che vuoi. Solo una camera è fuori dalla tua portata, nessuno, nemmeno il Papa, può entrarci. È la camera del piano superiore, la prima sulla parete sinistra del corridoio. Quando sarò là dentro, per nessun motivo al mondo tu dovrai disturbarmi, nemmeno se stesse per giungere un'apocalisse zombie o un terremoto capace di spaccare in due tutta Washington. Quella stanza è vietata, è mia e mia soltanto. Se entri là dentro ti posso assicurare che non farai una bella fine. Sono stata chiara?»

Lui avrebbe voluto poter rispondere, esser sufficientemente coraggioso da porle quelle domande che si accalcavano nella sua testa: qual è il tuo dolore? Perché soffochi in questo posto? Sei sepolta in una bara di sporcizia, non vedi? Non senti? Non ascolti?

Tutto ciò che riuscì a dire, invece, fu: «Cristallina.»

Lei era fantasma, corpo deperito che si reggeva in piedi solo grazie all'odio da cui veniva divorata. Le occhiaie gonfie, le labbra sporche di croste, e quel riso infantile, bambinesco, che di adulto conservava solo il lontano suono, ma non la curva della bocca.

Timmy sentì dolore, lo percepì nel petto, quando i loro occhi si persero l'uno nell'altro: quell'agonia lo raggiunse e s'infiltrò nella pelle, scavandogli la carne e spodestando un pezzo del suo cuore per sostituirlo con un frammento di sofferenza a lui mai appartenuto.

Gli fece male, quel tassello di dolore, lo soffocò negli ansimi e nei respiri. Forse avrebbe dovuto disfarsene, gettarlo via per terra; non lo aveva previsto, non era nei piani e ora era lì, incastrato fra le venature del cuore, sepolto e pompato insieme ai battiti involontari.

Lei gli aveva appena ceduto, senza accorgersene, una scheggia della sua anima, sepolta sotto le nuvole grigie dei suoi occhi. Timmy, a quel punto, si chiese a chi avrebbe potuto donare il pezzo di sé stesso che era appena stato spodestato da quel frammento di dolore sconosciuto.

Ma, soprattutto, si domandò se esistesse un modo per dimenticare una simile sofferenza, così che non lo facesse crollare come invece aveva fatto con Edith Morrison.

Quella scheggia, ora, gli era stata cucita addosso.

E a ogni respiro gli avrebbe reciso sempre un po' di più il cuore.

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