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Dedicarti il dolore per trovare l'amore (parte due)

Nota autrice:

Le parti nei dialoghi scritte in corsivo, indicano che i personaggi stanno, in quel pezzo, parlando in italiano.


Gli ultimi tre anni della sua vita erano stati riempiti solo dal vuoto.

Una totale assenza di rumori e sensazioni, un'anestesia che era giunta poco dopo aver perso lui, quando aveva scoperto di non riuscire più a piangere. Si era svegliata un giorno nel letto che aveva sperato diventasse ben presto la sua tomba e aveva capito quasi con gaudio di non aver più bisogno di niente. 

Che insieme a lui le avevano rubato anche l'urgenza di bere, di mangiare, di respirare. Che il suo corpo era stato liberato dal fardello di nutrirsi e andare avanti.

Non aveva neanche più avuto l'impulso di conoscere altre pelli, come invece era successo in passato, così da ingannarsi momentaneamente per sentirsi, anche se per brevi istanti, amata. Il piacere sessuale era svanito, il brivido di conoscere carni vergini e farle proprie scomparso insieme a tutto il resto. Gli unici momenti in cui tornava a riempirsi di qualcosa, era quando entrava nella loro camera e tornava a cullare lui.

Per questo aveva smesso di lavarsi, per questo aveva smesso di pulire la casa, per questo aveva iniziato a fumare. Le sigarette erano l'unico modo che conosceva per scandire l'insensatezza di quei giorni riempiti dalla plumbea noia.

Lei non ricordava neanche più cosa implicasse avere degli stimoli veri e propri, li aveva persi in quella notte d'inferno, dopo che le avevano sottratto lui. E c'erano stati giorni in cui si era domandata con grande flemma perché non potesse smetter d'esistere e basta, nottate insonni in cui era arrivata a pensare che se la morte fosse giunta nella sua casa, non se ne sarebbe neanche accorta, perché era già dentro il suo corpo, nel suo cuore, a mangiarla come tumore.

Ogni secondo di ogni giorno di ogni mese di ogni anno non era stato nient'altro che un continuo ed eterno funerale il cui unico partecipante era proprio lei, la defunta.

Ma stavolta era stato diverso.

Stavolta l'avevano accesa.

Convinta com'era che niente di vivo fosse sopravvissuto a quel mortorio, non era in grado di comprendere come fosse possibile che il suo cadavere improvvisamente fosse stato rianimato. E non era stato un sussurro, un tocco di vento, un sibilo silenzioso che si era intrufolato sotto pelle e si era aggrinzito pian piano; l'anestesia non se n'era andata gradualmente, non era scomparsa di respiro in respiro.

No.

Gliel'avevano tolta all'improvviso, del tutto, e per Edith era stato come liberarsi di un costume di gomma gonfio e ingombrante; Timmy l'aveva stretto a sé e ne aveva sciolto il nodo che lo legava al corpo esanime della donna, e lei d'improvviso era tornata a sentire tutto, ogni cosa.

I respiri di lui a graffiarle l'orecchio, le dita calde che le plasmavano la schiena, il petto che le rimbalzava contro, che le schiacciava i seni, il profumo di cioccolata, il calore confortante di un altro corpo, così intenso che Edith quasi aveva sperato che si fondesse al suo, che non si staccasse mai.

L'aveva toccata.

L'aveva toccata e d'improvviso era tornata a sentire dopo anni di sordità, a vedere quando gli occhi eran stati spenti, ad avere un senso del gusto dopo mesi e mesi d'agonia passati a inghiottire aria.

Non aveva altro modo di pensarla, se non così.

Lui le aveva dato fuoco.

Aveva appiccato un incendio diverso da quello che Edith conosceva, intenso e vorace, e quella fiamma di cupidigia aveva suscitato scalpore fra le sue cellule spente, le aveva arse vive; lei le aveva sentite strillare con furia, graffiarle la pelle, e per un istante, mentre era legata a lui in quell'intreccio così innocente, si era sentita macchiarsi di una brama così profonda da portarla a desiderare che le mani del ragazzo s'inerpicassero in altri luoghi inesplorati del suo corpo, e aveva dovuto contrarre il respiro e il cuore per impedirsi di soccombere a quell'edace tormento.

Era stato così umiliante, per lei, che quasi aveva temuto che Timothy potesse essersene accorto. Che avesse scorto i lembi della cupidigia cuciti nei suoi occhi; non era riuscita nemmeno a incrociare il suo sguardo, tanto la vergogna l'aveva sopraffatta. 

Era corsa in camera di lui nella speranza che la sua presenza potesse spegnere la combustione, per poi accorgersi, una volta aver messo piede nella stanza, che così facendo lo avrebbe solo macchiato, che gli avrebbe mostrato il modo in cui lo stava tradendo, coi pensieri rivolti unicamente a un ragazzino maldestro che si era fuso nella sua pelle.

L'onta di vergogna era sopraggiunta travolgendola in un maremoto, Edith era crollata in un turbinio di supplizi e affanni e si era costretta ad uscire di nuovo, senza trovare nemmeno sollievo nella consapevolezza che Timmy se n'era andato via di casa.

Ma dal suo cuore no.

Dal suo cuore non se n'era andato.

Ancora adesso, mentre fumava avidamente una sigaretta dopo l'altra, riusciva a sentirlo scavare nel petto, lapidarla di ogni altra emozione, premere con una forza talmente irruenta che le s'incise dentro, che lasciò il nome di quel giovane come un tatuaggio sotto la pelle.

Continuava a fare avanti e indietro per tutto il soggiorno, disperata, con le dita incastrate fra le ciocche spettinate, e il cuore in tumulto che neanche più sembrava poter reggere quel supplizio; lei era tesa, i nervi contratti allo spasmo, l'incendio si propagava e tutto ciò che poteva fare era continuare ad esalare miasma dalla bocca.

«No» continuò a ripetersi fra sé e sé, gli occhi chiusi per non guardarsi, ogni più piccolo lembo di pelle pronto a tuonare anche per un singolo sussurro, «no, no, no, no.»

Era ormai in preda alla paura più selvaggia ed era questo che più la preoccupava: quel terrore interno che le stava scomodando i respiri era direttamente proporzionale all'avanzata che il pensiero di Timmy stava compiendo nella sua mente.

Più Edith cercava di scacciarlo, più sentiva il ricordo di quelle mani addosso.

Più tentava di ucciderne la memoria annegandola nel fumo, più questa tornava prepotente a inerpicarsi nei gradini dell'immaginazione e della fantasia.

Michelangelo, miagolando, continuò a seguirla per tutto il tempo, la coda che ruotava spensierata mentre Edith si malediva dentro, e quando la donna lo vide ai suoi piedi, il modo in cui il gattino la guardò le parve quasi di vanto e orgoglio. «È tutta colpa tua» gracchiò lei, aspirando ancora una volta dalla sigaretta, «è tutta colpa tua se è successo, non avresti dovuto farmi inciampare, non avresti dovuto...»

Si rese conto da sola di quanto stupida fosse quell'accusa, rivolta a una creatura che probabilmente neanche aveva capito cosa era successo, pochi minuti prima. Edith bestemmiò con furia, ma quelle maledizioni non bastarono per trovare sollievo; l'incendio continuava a propagarsi e lei lo poteva sentire che faceva ribollire il sangue, sfruttando la sua violenza inaudita, capace di mutare il suo corpo fino a renderlo una gigantesca ustione.

«Sei stupida?» strillò contro di sé, inghiottendo saliva più nociva della pioggia. «Ha venti anni, santo cielo! È un cazzo di ragazzino, un bambino

Ma il cuore era sordo, non ascoltava i suoi latrati, non li considerava proprio, ed Edith si scioglieva, si scioglieva, si scioglieva, a rompersi nel petto solo gli schioppi di quel braciere che Timothy aveva acceso.

Lava densa stava marciando sotto la sua pelle, le dilatava la strozzatura nel collo. Edith imprecò ancora e gettò furibonda la sigaretta ormai consumata per terra.

Aveva bisogno di respirare, di tornare ad affondare nell'apatia che si era cucita addosso con dedizione nel corso di quei lunghi tre anni; lui non poteva togliergliela così, non aveva diritto di farlo, non senza neanche avvertirla. Non era giusto che si fosse intrufolato in questo modo nel corpo di Edith, che glielo avesse toccato e timbrato con violenza, tanto che la donna ancora riusciva a sentire la pelle sfiorata da quelle mani soccombere al peso invisibile di quest'ultime, piangere supplicante per riceverne altro ancora.

Si diresse verso la porta del bagno con frenesia, ignorando i miagolii di Michelangelo, e vi si chiuse dentro a chiave, pregando che quel nascondiglio potesse permetterle di celarsi anche alla brama che la stava inseguendo. Con le gambe ancora intorpidite e i respiri occlusi dentro il petto, Edith si mosse verso l'immensa vasca che l'attendeva sul fondo del bagno e spalancò i rubinetti dell'acqua fredda.

Non si preoccupò nemmeno di farla riscaldare, desiderava con tutto il cuore che sassi di ghiaccio le graffiassero la pelle, così da farla piangere per il sollievo di non dover più esser bruciata dall'incendio innestato da Timmy.

Si spogliò in fretta e furia, con le dita che rischiavano d'incastrarsi nei tessuti sporchi dei suoi vestiti, e quando s'immerse nella vasca, il brivido assiderato di quel liquido le fustigò la schiena. La coperta di brina la avvolse ben presto, trasformando la sua pelle in squame di ghiaccio, e forse per un istante provò consolazione, ma il sollievo fu vano ed effimero, scappò via prima ancora che potesse chiudere le sue mani e afferrarlo.

Perché le fiamme ad ormeggiarle nel petto non si spegnevano, il ghiacciaio del suo corpo non era sufficiente per far appassire il bocciolo del focolare. Al contrario, pareva averlo infastidito e indotto a vendicarsi, a fiorire in spineti arroventati che s'inalberavano da dentro, che le espandevano il petto, che le indurivano i capezzoli, che precipitavano nel ventre, sacca vuota d'amore, e ridiscendevano più in basso, fra le sue gambe contratte.

Nascose il volto dietro le dita, le usò come scudo per evitare il riflesso del suo viso nell'acqua, ma non bastò, non fu sufficiente. 

Edith percepiva Timmy e le sue mani addosso ad un'intensità così profonda che si sentì mangiare da loro.

«Stupida» borbottò di nuovo, «sei una stupida, Edith Morrison.»

Solo una stupida avrebbe provato quel tormento viscerale, solo una stupida si sarebbe fatta trascinare dalla balia dell'emozione di un tocco di falangi che le rifinivano il contorno del corpo, che ne impreziosivano gli angoli spigolosi, inghirlandandoli con gemme nascoste che ora erompevano con l'intensità di bombe a orologeria.

«È un ragazzino» si ripeté ancora, «è solo un ragazzino, è così piccolo, santo cielo, è così giovane. Non è tuo, non sarà mai tuo

Come aveva potuto pensare, anche solo per un istante, che non ne sarebbe mai stata sentita attratta? Di colpo le sembrava di non conoscere più sé stessa e le convinzioni su cui aveva basato la sua intera esistenza. Lei che della passione ne aveva fatta la propria arma, lei che aveva sempre deciso quando, come e per chi accendersi, eccola lì, ora, a ventinove anni, a crollare per il sussurro di dita di un semplice e innocente giovane, ad ardere per lui, a immaginarlo addosso, dentro, dappertutto.

Provò a lottare contro quell'impulso, s'immerse nell'acqua di ghiaccio, si ferì il corpo con le sue onde di brina, ma il risultato non cambiò, il fuoco non si spense, e quando con la testa riemerse per respirare, ebbe la sensazione di esser ormai diventata solo una patetica, viscerale creatura fatta d'impulsi.

E dopo tre lunghissimi anni trascorsi ad appassire e a morir dentro, senza alcuna preparazione mentale o fisica alla possibilità di tornare a risentirli quando meno se lo aspettava, Edith capì che nessuna delle sue suppliche sarebbe stata ascoltata, né dalla sua mente né dal suo corpo.

E così si arrese.

Si arrese al supplizio, alla vergogna, all'agonia.

Cedette le armi con cui s'insultava ogni giorno, all'odio dentro cui navigava, e decise di accettare lo squallore di quel che era. Non fu nemmeno una scelta, sotto certi aspetti, perché non aveva altre alternative.

Non avrebbe mai creduto, però, che la sua nuova resa sarebbe stata dovuta al fuoco nascosto in due occhi nocciola.

Con le dita, così, scivolò in basso, scavò nell'acqua e tempestò il suo corpo con carezze di brama, che le sfioravano la pancia, i seni in trepidazione, gonfi e in attesa; si sfiorò da sola, Edith, si amò da sola, lei. Si conobbe di nuovo in quel gesto più intimo di un sussurro nell'ombra, mappò il suo corpo che ormai le era ignoto, lo riscoprì pian piano, di bacio di dita in bacio di dita. Ricordò allora di aver capezzoli sensibili, in ansiosa attesa di esser sfiorati, e un ventre pronto a gonfiarsi di respiri quand'eran le sue gambe a tremare per il sogno di quell'illusione.

Così cadde ancora più in basso, con le mani che vibravano per la smania che le aveva accordate, cadde dentro e fuori, scivolò nell'acqua insieme alle dita che tampinavano la pelle per pianger insieme a lei piaceri ricolmi d'ira; si odiò così tanto quando le sue gambe si spalancarono da sole, si odiò più che mai quando il pollice scoprì, sepolto fra le cosce, un fascio di nervi contratti per attenderne il tocco impudente.

Ma quando lo trovò, quando con le dita strusciò su di esso e lo rilassò con carezze affettuose, Edith sentì fulmini saettarle nelle vene e respiri gutturali caderle dalle labbra compresse. Era da tempo che non lo faceva, ne era consapevole, ma non era questo a farlo apparire così nuovo. Era nuovo perché lei, un desiderio così profondo, non l'aveva mai avuto. Era nuovo perché si stava innamorando di quei cerchi leggiadri con cui imprimeva l'immagine del volto di lui fra le sue cosce, ad adularla con la lingua che addolciva la fitta quasi dolorante. 

«Stupida» s'insultò di nuovo. «Sei una stupida.»

Ma non si fermò.

Continuò a strofinare, a godere di quel tormento e illusione, lasciò che l'incanto di quella magia le muovesse le dita, che sfiorasse la carne bagnata delle sue labbra nascoste, usò le falangi per consolare il dolore che sentiva laggiù, soffocò i propri gemiti sussurrati mordendosi il pugno della mano libera, per poi arrendersi completamente quando immaginò Timothy ancora. E lo vide lì, i riccioli corvini che sbucavano da sotto il suo ventre, lo vide lì, a ricoprire il suo corpo col proprio, a scavalcarla e depredarla dei respiri con baci che erano morsi e carezze dal gusto di favole colme di lieti fini.

Le dita scivolarono più in basso, s'infilarono nella stretta fessura, mentre Edith sognava di sostituirle con un pezzo di Timmy, e la mano che le tappava la bocca seguì ben presto la sua compagna, la condusse in quella sinfonia di piaceri, la sinistra suonava il fascio di nervi, la destra  scandiva i battiti all'interno, le pulsazioni frenetiche che ticchettavano la composizione con cui Edith aveva riscoperto il godimento di sé stessa.

Non furono gemiti profondi a sgusciarle dalla bocca, ma bisbigli che portavano un solo nome, il nome di un ragazzino che la proteggeva dalla pioggia. E come riecheggiò, quel nome, quando piombò dalle labbra della donna e ricadde nell'acqua, ora in tempesta per i bruschi movimenti del corpo di lei, come si plasmò nella sua bocca quando Edith si sentì punta da dentro, e il dolore dell'incanto generò ben presto un piacere che le esplose sotto la pelle e le tese i muscoli.

Un sibilo, un piccolo e accennato respiro mozzato, e infine Edith crollò dentro la vasca, tirando un sospiro di sollievo quando il culmine del piacere spense definitivamente l'incendio che lui, sciocco ignaro, le aveva appiccato dentro.

Reclinò il capo sul bordo della vasca, ammortizzata dal freddo che d'improvviso tornò a farle compagnia, e quando nascose di nuovo il suo volto dietro la maschera delle dita, arrivò a sibilare contro sé stessa:

«Sono così stupida.»

Lo squillo del telefono, ore più tardi, la indusse ad uscire dal suo atelier.

Vi si era rifugiata dentro per non pensare a ciò che aveva appena fatto, a quanto implicasse quel gesto, e aveva passato le successive sette ore a disegnare come un'ossessa, buttando via pezzi di carta uno dopo l'altro, perché tutto ciò che usciva dalla sua matita erano occhi autunnali e labbra carnose, un volto gentile ricolmo di dolcezze.

Fu quasi felice per quella distrazione, il trillo del cellulare appoggiato sul divano era stata l'unica cosa in grado, seppur per pochi istanti, di farle pensare ad altro, ma quando vide il mittente di quella chiamata, la rabbia tornò ad accalcarsi sopra le sue spalle, e per un breve momento fu tentata di tornare a disegnar riccioli corvini su una tela imbiancata.

Ma alla fine rispose, senza comprenderne il motivo, rispose con un sibilo più acuto di quello di Michelangelo. Il gattino le planò addosso non appena lei si sedette, accovacciandosi sopra le sue gambe incrociate e lasciando fusa continue lungo il tragitto per raggiungerla.

«Cosa diavolo vuoi, Amelia?»

«Ho saputo che hai incontrato Leonard.»

Amelia era sempre stata una persona diretta, una qualità che Edith aveva da anni apprezzato, ma che in quel momento si rivelò più dannosa di uno schiaffo in faccia. Inghiottì il respiro e lo accavallò insieme a tutti gli altri, accumulati nello stomaco, e stridette alla fine con parole usurate: «Non sono cazzi tuoi.»

«Non mi parlare così, maledetta squinternata» tuonò Amelia dall'altro lato, in italiano. «Ero preoccupata per te!»

«Be', nessuno te lo ha mai chiesto, strega

«Ohhhhh!» strillò l'altra, ed Edith avrebbe potuto scommettere che, in quel momento, avesse preso la sua ciabatta in mano per lanciarla contro il vuoto. «Dannata ingrata! È così che tratti tua nonna? Ohhhh, hai davvero preso tutto da Henry, maledetta! Nemmeno un po' di rispetto mi porti! Nemmeno un po'! Orribile screanzata

«Henry ti trattava con i guanti, Amelia, l'unica stronza nella famiglia sei sempre stata tu. Quindi è molto probabile che il mio pessimo carattere l'abbia ereditato proprio da te.»

«Ah! Ma sentila! E io che pensavo fossi troppo preoccupata ad allontanarti dal mondo per rispondere male a tua nonna!» Nella voce di Amelia stavolta era presente un tono diverso, più dolce e tranquillo, che s'insinuò in Edith con brividi di calore e, al contempo, di preoccupazione. «So cosa stai pensando, sappi che se hai intenzione di chiudere questa telefonata, io chiamerò i carabinieri per-»

«Siamo in America, Amelia» le ricordò. «Non esistono i carabinieri in America.»

«Non essere blasfema e ascoltami, mocciosetta da strapazzo» tuonò a quel punto sua nonna. Edith, inavvertitamente, si ritrovò a sorridere amaramente. Carezzò lentamente il dorso di Michelangelo, intrecciando le proprie dita al pelo lucido di lui, e sospirò. «Leonard mi ha detto che ti ha incontrata, all'università. Era molto preoccupato.»

Una risata amara sgusciò dalla bocca di Edith. «Preoccupato?» strillò alterata. «A chi ti riferisci? Al paparino ubriacone? Ne sei sicura? Non è che per caso aveva bevuto di nuovo? Cos'ha preso stavolta? Rum o tequila?»

«Sono anni che Leonard non beve più, Edith, lo sai» fu la risposta sospirata di sua nonna. «E sono anni che io e Henry ti sproniamo a chiarirti una volta per tutte con lui.»

«Non c'è nulla da chiarire.»

«Ah, no?» Il rombo con cui Amelia fece esplodere quelle parole assordò Edith per qualche secondo. «E pensare che odi le bugie.»

«Non sto mentendo» biascicò Edith. «Non c'è niente da chiarire con il caro paparino, Amelia. Lui ha preso la sua strada e io la mia. Fine. Chiudiamo il discorso. E ora, se permetti, ho altro da fare...»

«Oh sì, sono sicura che piangersi addosso è un'attività estremamente impegnativa.»

La violenza con cui Edith strinse il telefono fu inaudita, ma, d'altro canto, la donna era ben consapevole di non poter ribattere a una simile affermazione. La verità taceva in ogni sillaba di quella sentenza, nessuna crisi di rabbia l'avrebbe potuta rimuovere. 

«Amelia, devi lasciarmi in pace» sussurrò alla fine e quelle parole crudeli le decorarono le ciglia con lacrime di brina che mai si sarebbero sciolte. «Te lo sto chiedendo per l'ultima volta: devi smetterla di preoccuparti per me

«Altrimenti?»

«Morirai

Dall'altro lato echeggiò il silenzio. Fu doloroso per Edith ascoltarlo, le sembrò più agonizzante di migliaia di parole sputate dalla bocca anziana per ferire. Michelangelo miagolò, in quel momento, e lei cercò conforto nel suo viso imbiancato, nei suoi occhi di ghiaccio che la scrutavano quasi con timore.

«Edith Morrison» mormorò Amelia, dopo un intero minuto passato nella totale assenza di suoni, «lo sai cosa mi uccide veramente ogni istante?»

«Amelia...»

«Ad uccidermi non sei tu e nemmeno la maledizione che sei così convinta di portarti addosso» la interruppe ancora, «ad uccidermi è la consapevolezza che la mia adorata nipote, la bambina che ho cresciuto e che ho amato, la figlia di mia figlia, si consuma di dolore in una casa di spazzatura, e che io non posso fare niente per aiutarla. Io muoio ogni giorno per questo motivo, Edith

Chiuse la chiamata l'attimo successivo, ma a Edith sembrò come se non l'avesse mai fatto.

Come se fosse ancora lì, seduta al suo fianco, a baciarle la fronte, per sciogliere le lacrime di brina che le ornavano le ciglia.


Nota autrice:

Questo capitolo è stato un po'... strano da scrivere, ma necessario.

A differenza dei miei altri romanzi, In un giorno di pioggia è una storia che andrà a scavare oltre l'emozione, oltre il sentimento tracotante. 

In un giorno di pioggia è nato per far spazio alle brame più profonde, alla carne e ai corpi che si flettono, da cui scaturiscono dopo anche le emozioni.

Edith non è una donna che ha vergogna del proprio corpo e di sé stessa, non è una persona che ripudia il sentimento carnale; lei è disonesta nei propri confronti, non riesce ad accettare i sentimenti che sbocciano dentro al suo petto, ma non può nemmeno ignorarli, e così li incanala per farli poi esplodere dopo, attraverso il corpo e il piacere che quest'ultimo può donarle.

Non scrivo molto spesso queste scene, non perché provi vergogna, le reputo anzi a volte fondamentali per capire la personalità di un personaggio, ma ho sempre il terrore di esser io incapace di renderle come spetta loro di diritto, di farle apparire squallide e volgari, sciocche scene sessuali che invece son nate per guardar oltre.

Non si tratta di un semplice atto di piacere verso se stessi, non è un mero bisogno di godimento, è qualcosa di più profondo che va oltre la semplice lussuria.

Spero di esser riuscita nel mio intento e di non essere apparsa, come invece temo, volgare e/o banale.

Btw, piccolo e ingenuo Timmy... Convinto che a Edith non abbia sortito alcun effetto l'incontro dei loro corpi.
Nono, proprio no, Timmy, assolutamente nulla.
#pandinoinnocente

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