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Come autunno e foglie


Anche tu sei l'amore.
Sei di sangue e di terra
come gli altri. Cammini
come chi non si stacca
dalla porta di casa.
Guardi come chi attende
e non vede. Sei terra
che dolora e che tace.
Hai sussulti e stanchezze, 
hai parole - cammini 
in attesa. L'amore
è il tuo sangue - non altro.

Cesare Pavese

Timothy sapeva già che la distanza che aveva sommerso la sua relazione con Edith, nelle ultime settimane, aveva senz'altro portato a conseguenze disastrose per la casa di quest'ultima.

Ma quando entrò dentro la villa, realizzò che i suoi peggiori timori erano stati estremamente eufemistici.

Ciò che aveva davanti non era una casa.

Era una discarica.

Non lo avrebbe mai creduto possibile, ma le condizioni del soggiorno erano persino più tremende di quanto lo fossero la prima volta che vi aveva messo piede dentro.

Erano l'impersonificazione del caos più assoluto.

Non c'erano più contorni in cui potersi orientare, né oggetti da poter riconoscere, tutto era indistintamente accumulato davanti ai suoi occhi, in un unico e gigantesco cratere di spazzatura che pullulava nell'aria, mostro imperioso pregno di scarti.

L'oscurità inghiottiva persino i rumori, scivolava sulle pareti per renderle impalpabili, e tramutava le speranze in orrori.

«Edith?»

Non ottenne alcuna risposta, ma ciò non lo sorprese. Aveva imparato da tempo che quella donna aveva la pericolosa abitudine di dimenticare sempre di chiudere la porta d'ingresso a chiave. Chiunque avrebbe potuto avere accesso dentro la sua casa, e comunque a lei non sarebbe importato.

Avanzò cautamente, sollevato nel notare che, per lo meno, Edith era stata attenta a non lasciar marcire il cibo in giro per la casa. Quello era un passo in avanti, o così voleva credere.

«Edith?»

Ancora, silenzio.

Che fosse uscita?

Eppure l'aveva informata che sarebbe arrivato lì, quel giorno.

Sospirò, e portò le dita alla radice del naso, dove sentiva i suoi respiri esplodergli sotto pelle; per motivi che solo in parte riusciva a spiegarsi, si sentiva estremamente affaticato, l'anima esausta, quasi indolenzita. L'incontro con Audrey, per quanto risolutivo, aveva rubato quella piccolissima forza che possedeva.

E forse in realtà era anche dovuto al fatto che, in un modo o nell'altro, aveva pur sempre perso.

La collana non gli sarebbe mai appartenuta.

Di sua nonna gli sarebbe rimasta unicamente la memoria, e un giorno anche quella si sarebbe fatta più sfocata, affumicata dallo scorrere inclemente del tempo. Sarebbe diventata proprio come la casa di Edith: un'accozzaglia di immagini e oggetti che, insieme, non avrebbero più avuto una loro identità. Solo ricordi come macerie, frantumati e ridotti a un cumulo d'immondizia, sperduti per sempre nella caligine degli anni trascorsi.

Scosse lentamente il capo. Non aveva più senso star lì a rimpiangere ciò che più non poteva esser cambiato, per quanto lo desiderasse. L'unica cosa su cui avrebbe dovuto concentrarsi, ora, era la casa di Edith, e la relazione che stava instaurando con lei.

Che avrebbe potuto instaurare con lei, se solo la donna glielo avesse permesso.

Vista la seconda regola che gli aveva imposto, sarebbe stato piuttosto difficile.

Avanzò ancora, sprofondando nelle creste dell'immondizia, e si disse di aver coraggio, coraggio per ciò che stava per affrontare: una vita rovinata quanto quella casa, e che non avrebbe potuto risistemare.

«Micki?» gracchiò a quel punto. «Dove sei, Micki?»

Ora come ora, poteva soltanto obbedire alla prima regola, e cercare il micetto per giocare con  lui.

Trovarlo in quella bisboccia di disordine sarebbe stato alquanto difficile.

La perlustrazione fu lenta e agonizzante, Timothy iniziò a ripulire e a buttar via tutto ciò che poteva esser buttato, cercando contemporaneamente la figura diafana di una creatura a quattro zampe. Una ricerca estenuante, a dir poco impossibile, Edith non aveva avuto contegno nel rovinare la sua casa, e Michelangelo era sempre stato un prodigio nell'acquattarsi nei posti più inaspettati.

Controllò ovunque: sotto le sedie, dentro il camino inutilizzato, persino nei cassetti della cucina.

Del micetto dal pelo bianco non c'era traccia.

E con grande sorpresa, Edith era stata clemente quel tanto che bastava da lasciare inalterato il tavolino in vetro davanti al divano. Certo, non si era preoccupata affatto di dissipare i metri di polvere che lo coprivano come un lenzuolo, o di svuotare il posacenere all'angolo, che sembrava sul punto di esplodere da un momento all'altro in un turbinio di mozziconi, e nemmeno di sistemare il piccolo scrigno bianco che troneggiava al centro; ma era pur sempre qualcosa.

Si fermò un attimo, quando lo notò.

Non ricordava di averlo mai visto prima d'ora.

Si sarebbe certamente ricordato di un oggetto così prezioso, con intarsiature tanto minuziose e fini, ghirigori delicati intagliati nel legno per creare un'oasi di fiori, e la serratura che sbocciava  come un piccolo bottone dorato. Era uno scrigno, forse qualcosa di più, un minuscolo tesoro che paradossalmente splendeva con ancor più decoro in mezzo allo stormo di spazzatura che lo circondava.

Lo prese in mano, guardandolo con sospetto. La sua ultima esperienza con un cofanetto lo aveva portato ad avere molta più attenzione delle cose che toccava, e soprattutto di cosa potesse trovarsi al loro interno.

Ma se Edith lo aveva lasciato lì, nella sala principale, questo non significava forse che per lei non era un problema farlo vedere ad altri, giusto?

Provò ad aprirlo, inebriato dalla curiosità, ma fu tutto vano. Lo scrigno, per quanto fragile potesse apparire, era sigillato, inaccessibile alle sue dita; la serratura incollava il coperchio al corpo, rigida e impenetrabile, e solo con la chiave avrebbe potuto esser stata liberata.

Riposò il cofanetto sul tavolino, in parte deluso e in parte sollevato.

E in quel momento, un miagolio alle sue spalle catturò la sua attenzione.

«Ehi, Micki... cosa stai facendo là?»

Michelangelo era flemmaticamente sdraiato sopra il gigantesco armadio che affiancava il camino, se ne stava là, con le zampe anteriori che ciondolavano oltre il bordo, e il musetto allegro, gli occhi due giganti laghi di ghiaccio che lo guardavano con interesse. Sebbene il periodo di tempo in cui non lo aveva più visto era stato piuttosto effimero, Timothy non poté comunque che sorprendersi nel notare il modo in cui era cresciuto ancora: il pelo spumeggiava sul lungo corpo, adamantino, e le pupille parevano essersi fatte più attente, più scaltre. Lo osservava con una curiosità non più bambinesca, bensì predatrice, terribilmente simile a quella di una donna di fuoco che il ragazzo conosceva bene.

«Ti va di venire qua, Mick?» lo chiamò Timothy, alzando le braccia verso la sua direzione. «Il tuo amico Pandino ha dei croccantini deliziosi da darti.»

Michelangelo, all'inizio, non sembrò particolarmente interessato alla sua proposta. Continuò a guardarlo a occhi socchiusi, il nasino roseo bucava la delicatezza del suo morbido pelo, sbadigliò persino, e roteò la coda più volte, facendola ondeggiare poi tra le sue zampe.

Fu allora che Timothy lo notò.

Un gigantesco fiocco azzurro era stato sostituito al suo precedente collare; fioriva sotto la testa del piccolino come una farfalla di seta, sposandosi perfettamente col colore limpido degli occhi di chi lo stava indossando.

Non sembrava infastidito da quel papillon, tutt'altro, Michelangelo anzi pareva andarne incredibilmente fiero. Gonfiava il petto per evidenziarlo, ci giocava con le zampette, provava a mordicchiarne i bordi. Era evidente che il suo nuovo accessorio lo divertiva un mondo, come un principe che aveva appena ricevuto il tanto agognato scettro.

Ciò che lasciava Timothy perplesso era la consapevolezza che fosse stato Edith a metterglielo.

Lei, la donna che detestava ogni genere di decorazione, ogni gioiello e bracciale, e che amava la semplice natura della noncuranza.

Dall'alto della sua imponenza, Michelangelo si sporse col viso dal bordo dell'armadio e, imprevedibile, saltò sulle braccia di Timothy, graffiandogli il tessuto rosso della felpa per aggrapparsi al suo petto.

«Ehi, piccolino» lo salutò il ragazzo, sorridendo contro il suo pelo. «Da quanto tempo che non ci vediamo! Sei cresciuto ancora, eh?ۛ»

Nella sua stretta, Michelangelo gli regalò una catena infinita di fusa, e Timothy ridacchiò, baciandogli il musetto incantato. «La tua padrona si è presa cura di te?» gli domandò, mentre iniziava a grattargli il mento. «Ti ha dato da mangiare, vero? Lei non si dimentica mai di dartelo, anche se finge che è solo una coincidenza. E cos'è questo bel fiocchetto? Lo sai che sembri proprio un bel principe azz-»

Si fermò.

I suoi occhi caddero sul fiocco, sul nodo che ne stringeva le ali per farle volare.

Appesa ad esso, come un ciondolo prezioso, vi era una chiave.

Splendeva insieme alla limpidezza bianca del micio, piccola e preziosa, minuscola.

Così minuscola da non poter entrare in nessuna serratura delle porte di casa.

Ma in quella di uno scrigno sì.

Un piccolo, meraviglioso scrigno.

Fu la sua coscienza a fargli capire.

Sedimentò nella sua mente un pensiero che finora non era mai germogliato, e che si solidificò come plastica sciolta, lasciandolo senza più voce.

Non è possibile.

Ma le sue mani gridavano l'esatto contrario, si muovevano sul papillon in preda alla speranza, tremavano, addirittura, e staccarono la chiave dal fiocco con trepidazione.

Il suo cuore gridava l'esatto contrario. È possibile, tuonò in una miscela di sangue e brame, mentre Michelangelo scivolava dalle sue braccia e atterrava sul pavimento.

Timothy non credeva nei regali, perché mai ne aveva ricevuti.

Non pregava i miracoli, perché nessuno era mai stato abbastanza coraggioso da mostrargliene uno.

Eppure, quella chiave stretta tra le sue dita lo faceva tremare come solo un miracolo avrebbe potuto fare.

Inspirò, il petto si gonfiò di tutti i suoi sogni.

Tornò al tavolino in vetro, e le gambe sembrarono cedere ad ogni passo.

Lo capì nell'istante in cui inserì la chiave nella serratura dello scrigno, e sentì il rumore rotto dello scatto.

Cosa si prova a ricevere un regalo?

Da bambino, se lo era chiesto troppe volte per poterle contare.

Lui non ne aveva mai ricevuti, per ovvi motivi. Nessuno nella sua famiglia si era mai preoccupato di celebrare con lui l'evento della sua nascita, al contrario ne aveva affossato il ricordo, seppellendolo sotto rimpianti giganti e rammarichi troppo vivi perché non potesse sentirli. 

Era come essere amati? O era una sensazione più sottile? Come dormire, e venir toccati nel sonno dal bacio di una madre sulla guancia?

Che tipo di felicità è?

Era la felicità del vincitore.

Del festeggiato.

Del benedetto.

Era la felicità del cuore, che impazziva nei suoi stessi battiti.

Era la felicità della vita, reincarnata nella collana che trovò nello scrigno, una volta averne sollevato il coperchio.

La riconobbe subito.

Non avrebbe mai potuto confonderla, l'aveva vista troppe volte, a drappeggiare e ingioiellare il collo di sua nonna, per dimenticarla. Nella sua testa era nitida quanto lo era adesso davanti ai suoi occhi; conosceva di quella collana ogni più piccolo dettaglio: la catenina argentata, sottile come una ciglia, e la lacrima di diamante, una lacrima in cui Patricia aveva collezionato tutti giorni della sua vita, tutte le memorie del suo primo grande amore.

Lui si chiamava come te, lo sai, TimTim? Gli diceva sempre, quando gli insegnava a cucinare, sorridendogli come se stesse nascendo. Era un uomo così dolce, un uomo così puro, Timothy. Spero che tu diventi come lui, un giorno, mio piccolo tesoro. Spero che tu possa avere così tanta gentilezza dentro da poter regalare questa collana alla persona che vuoi amare per tutta la vita.

Catturò i brividi che gli lucidavano le labbra con la mano, coprendo la bocca squarciata sotto il palmo.

Ma singhiozzarono i suoi occhi, trafitti da una cortina di lacrime.

Con il petto fuso nei battiti, afferrò il biglietto che era stato lasciato al fianco della collana, e lesse a fatica ciò che vi era stato scritto.

Non ringraziarmi.

È stato tuo marito a spiegarmi come fare.

E a comprare la collana per me ci ha pensato Amelia. Se ne intende di questi sotterfugi, lei, e ama viaggiare e fingersi una grande collezionista.

Io volevo rompere il cazzo a tua madre.

Perciò ringrazia loro, non me.

«Gesù» biascicò Timothy, travolto da un'onda di risate e lacrime, «perché deve sempre fare così?»

Come poteva pretendere che non la amasse?

Lei era così ingiusta, così codarda. Ti entrava dentro, rubava ogni cosa fino a lasciarti privo persino del dolore, ma continuava a rivendicare tutte le sue zanne da mostro, affinché nessuno potesse vederla. E mai imparava che sotto le fauci la gente avrebbe comunque scorto i polpastrelli, il morbido sentiero dei palmi tremanti; mai capiva che nella carne viva dell'odio continuava a sopravvivere anche il sentimento puro della dolcezza. 

Lei che era di spine si rifiutava sempre di ammettere di avere anche fiori, nel carcere dei suoi roveti; negava la sua natura di bocciolo con la testardaggine di una bambina, vedendosi sempre e solo come graffio, e mai come donna, mai come umana.

Ma lo era, e Timothy amava ogni opalescenza della sua umanità.

Si asciugò gli occhi con la manica della felpa, e prese con attenzione la collana in mano.

Era persino più bella di come la ricordava.

Contro luce, sembrava davvero che stesse cullando una lacrima.

Il sentiero intrapreso dai suoi pensieri venne interrotto, quando percepì Michelangelo sgusciare fra le sue gambe e sedersi proprio lì, guardandolo incuriosito.

«Va tutto bene» lo tranquillizzò Timothy, «la tua padrona sta solo facendo la solita ipocrita di sempre. Ma questa volta non mi sfugge, Micki, te lo giuro. Stavolta non la faccio scappare.»

Il micetto inclinò il capo.

«Stavolta la amo» disse, sentendosi vivo come mai prima d'ora, «stavolta la amo e non le permetto di fermarmi, lo giuro.»

Michelangelo miagolò delicatamente, strusciando la testa contro la sua caviglia sinistra, ma subito si fermò, non appena il cigolare della porta d'ingresso riempì il silenzio di tutta la casa.

Non fiatò lui e allo stesso modo non fiatò Timothy, mentre l'uscio si spalancava, rivelando la figura frastornata di Edith.

Sembrava... sconvolta.

Camminava quasi zoppicando, e la sigaretta accesa, tra le sue labbra, tremava.

Lei non si accorse subito di loro, richiuse la porta e rimase lì a guardarla per qualche istante. Timothy la sentì mormorare frasi sconnesse, come "farmi la ceretta non è una vendetta, Lily, è puro sadismo" o ancora "non hai sradicato la mia foresta pluviale, le hai dato fuoco, bastarda".

Lei avanzò lentamente, continuando a zoppicare, e si scrocchiò il collo, esausta, prima di sollevare il capo verso il soggiorno.

Verso di lui.

La sigaretta cadde dalle sue labbra.

E a Timothy parve di vederla per la prima volta.

Bellissima, eterea, splendente.

Semplicemente Edith, la donna di cui era innamorato.

E la amava alla follia.

La amava fino a non vedere più niente se non lei, i suoi occhi argentati, i capelli rossi che ridiscendevano spettinati sul volto magro.

Bellissima, fuoco.

Bellissima, rabbia.

Bellissima, lei, semplicemente lei. Il fisico fragile e lo sguardo cauterizzato nella paura, il mento tremolante, spine che piangevano per non esser strappate.

«Sei...» balbettò la donna, «sei arrivato prima.»

«Sei tu che sei arrivata tardi.»

Lei tacque, e fece scivolare lo sguardo su di lui, imprigionandolo poi nella collana che Timothy ancora stringeva in mano.

Ritornò a incrociare i suoi occhi, e un guizzo di luce sussultò dentro le sue pupille; aveva compreso, aveva già capito tutto. Aveva visto l'amore e ora indietreggiava spaventata.

«Regola numero due» disse, ma la voce tremava, «per nessun motivo, Timothy, per nessun motivo.»

Lui ripose la collana nello scrigno, svuotandosi di ogni pensiero, e lentamente si fece avanti, camminando a passo deciso.

Edith sussultò, e indietreggiò ancora.

«Nessun motivo» ripeté, ancora, allontanandosi da lui e dalla sua inevitabile marcia, «nemmeno per la collana.»

Timothy non esalò una sola parola, continuò ad andare avanti, e quello che avrebbe dovuto essere il loro primo incontro da quando era tornato dal Texas si trasformò in un inseguimento inaspettato.

«Non è necessario che ti emozioni così tanto» continuò Edith, mentre correva dietro il divano, «ho solo voluto rovinare la vita a tua madre, nulla di più.»

Timothy aggirò il sofà, ed Edith lanciò una bestemmia, prima di indietreggiare ancora e guardarsi attorno, spaesata.

«Ho pensato...» la sentì dire, mentre cercava qualcosa nella stanza con cui allontanarlo, «ho solo pensato... alla faccia che tua madre farà... quando scoprirà che era mia nonna l'acquirente a cui ha venduto la collana.»

Davanti al suo silenzio, Edith imprecò di nuovo, e ancora fece un passo indietro.

«E inoltre» biascicò, «non l'ho fatto mica gratis, devi... devi fare una cosa per me, per ripagare il debito che hai nei miei confronti.»

Era quasi divertente vederla andare in panico così, per colpa sua.

Edith espirò con violenza, e rivolse la sua attenzione alla porta ancora chiusa del bagno.

Timothy la guardò.

E quando la vide correre verso quella porta, la inseguì ancora, fece appena in tempo a impedirle di chiudere completamente l'uscio, paralizzandola con le mani aggrappate alla maniglia.

«Andiamo» urlò la donna, ancora una volta, mentre lottava contro di lui per cercare di chiudere la porta, «io non ho fatto quasi nulla... hanno fatto tutto gli altri... vai a baciare tuo marito, non me.»

Quel gioco di forze si concluse pochi attimi dopo, rendendo Timothy trionfante, e la porta si spalancò. La aprì con così tanta forza che la maniglia andò a sbattere contro il muro, ed Edith, per l'ennesima volta, arretrò bestemmiando.

«Avevi detto che avresti rispettato le regole» esalò alla fine, quando realizzò di essersi intrappolata da sola in quel bagno. La vide smarrita, completamente in panico per la situazione; fissava la vasca da bagno alle sue spalle quasi sperasse potesse trasformarsi in una voragine in cui sprofondare.

«Fanculo le regole.»

Edith spalancò la bocca, sconvolta.

«Ti scortico l'anima, Timothy» lo avvertì a quel punto, ma la sua voce si era fatta talmente sottile che a stento lui la udì.

Timothy avanzò, inesorabile.

«Ti... ti uccido il marito.»

Michelangelo, interessato a quanto stava accadendo, scivolò dentro la stanza in silenzio. Solo Timothy lo notò, Edith non si accorse minimamente di lui, né del modo in cui si mise a sedere proprio dietro di lei, fra i suoi piedi e la gigantesca vasca da bagno.

«È solo... solo una collana» mormorò, acquattandosi nella sua stessa carne. «Non è necessario che... è davvero troppo, Timothy. Non devi arrivare a tanto, davvero. Pensa a... ai tuoi figli, a tuo marito, e a come spezzerai loro il cuore...»

Michelangelo, sbadigliando, roteò la coda, infilandola in mezzo alle gambe di Edith.

Fu troppo tardi quando lei lo vide.

Lanciò un urlo che esplose tra le piastrelle bianche del bagno, rimbalzando come un proiettile, e nel disperato tentativo di non calpestare il suo micio, finì per cadere all'indietro.

L'imprecazione che tuonò insieme al suono di quella caduta avrebbe fatto sanguinare le orecchie di chiunque, anche della persona più volgare del mondo. Timothy vide Edith crollare dentro la sua gigantesca vasca in un modo quasi ridicolo; lei provò ad aggrapparsi al pomello dell'acqua per sostenersi, ma finì soltanto per avviare il soffione. Si ritrovò, così, incastrata dentro la vasca, fradicia, e piena di insulti da rivolgere al suo gatto

Michelangelo non parve affatto disturbato nell'ascoltarli, al contrario, miagolo felice, gonfiò il petto e uscì via dalla stanza con l'eleganza di un vero e proprio gentleman.

«Stupida bestia...» gracchiò Edith, mentre si tastava la schiena dolorante e provava a richiudere, invano, il soffione. L'acqua scrosciava su di lei come la sua personale nuvola nera, e le sue dita erano troppo scivolose perché potesse rigirare il pomello.

Timmy si avvicinò, consapevole di averla finalmente catturata.

«Ho fumato...» borbottò a quel punto la donna, mentre lui si sfilava le scarpe, «ho fumato... quasi due pacchetti interi di Marlboro rosse, oggi. Il mio alito saprà di muffa.»

Ignorandola, infilò la prima gamba dentro la vasca. Edith lanciò uno strano verso: un singhiozzo, forse, o un urlo. La vide indietreggiare sul fondo, scivolare con le mani sulla porcellana bianca, e guardarlo tra la speranza e il tormento.

«Baciarmi è davvero una pessima idea.»

Timothy la inseguì, scivolando a sua volta, e con una mano sfiorò delicatamente il suo viso, facendosi investire a sua volta dal getto d'acqua ghiacciata.

Sotto quel tocco, Edith tremò.

«È una pessima idea» ripeté ancora, «io... io non sono una tipa paziente, Timothy.»

Era davvero bellissima.

I suoi occhi erano metallo liquido, bruciavano di una luce così genuina che quasi avrebbe voluto chiederle di dargliene un po', e i capelli colavano su di lei come lava fusa, addolcendo la spigolosità del viso, tutti i suoi tratti spaventati.

«Se mi baci... non saprò contenermi.»

«Non lo fare.»

Lei si spezzò in silenzio.

«Ti amo, Edith.»

Lo disse perché voleva farlo.

Lo disse perché bisognava farlo.

Per raccontarglielo sempre, ogni volta che lo dimenticava, ogni volta che si richiudeva nel suo personale inferno, vestendosi da boia e condannata.

Per rammentarle il sogno di averla dentro di sé, di cullarla anche là dove lei non voleva esser carezzata. Perché Timothy forse sapeva amare, sì, ma era Edith l'essenza di quell'amore: lei che gli si infilava sottopelle, ustionandolo di tutti i suoi sguardi, e che gli si infilava nella tasca del cuore, senza riverenze, senza avvisi. Solo la sua carne nella sua carne, sentimenti così crudi da vivere dentro i pensieri.

«Ti amo» ripeté, e le sopracciglia di lei tremarono, «ti amo» e lui le scivolò lentamente sopra, «ti amo», e non ci fu contegno né paura, le baciò il collo nudo, poi la spalla, poi le palpebre, poi le guance, poi la fronte, «ti amo», e amò anche il singhiozzò che le uscì dalle labbra, «ti amo», baciò la pelle scoperta, la curva della mascella, «ti amo» e ancora, e ancora, e ancora, «ti amo, ti amo, ti amo» fino a quando il mondo non sarebbe esploso, fino a quando il tempo non avrebbe smesso d'esistere, fino a quando le loro labbra non si sarebbero lasciate.

L'avrebbe amata e basta.

L'avrebbe baciata e basta.

«Ti amo» e unì le loro bocche.

Non ci fu necessità di attendere.

Furono le loro anime a cercarsi, in uno spietato bisogno che l'una aveva dell'altra, come fuoco e legna, come autunno e foglie. Si baciarono dentro quella vasca, lui la amò dentro quella vasca, lei si fece amare dentro quella vasca.

Stavolta la amò e basta,

e non ci fu pioggia più dolce di quella che cadde quel giorno, sul loro unico cuore.

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