Clessidre di memorie
Timothy era sempre stato una persona ubbidiente.
Aveva scelto lui di esser così. Una decisione rimpianta in molte occasioni, apprezzata in altrettante. Ci era diventato per forza di cose, ma soprattutto per la disperazione di poter in qualche modo rendere Audrey orgogliosa di lui, quand'era bambino.
Aveva sperato, infatti, che se si fosse comportato bene, se non avesse mai fallito in ciò che la donna gli chiedeva, un giorno sarebbe riuscito anche ad ottenere un suo abbraccio, o anche solo una carezza, lo schiocco della carne delle sue labbra contro la propria fronte.
Pulisci, ordinava Audrey, e Timmy puliva. Lavava e strofinava ogni più piccolo spazio, ogni recondito angolo, anche quando aveva braccia troppo corte per raggiungere certi scaffali, anche quando suo fratello Vincent ostacolava il suo lavoro abbellendogli la stanza con blatte e altri insetti presi dal giardino, una delle più grandi paure di Timmy.
Ma lui obbediva, obbediva sempre, aveva continuato a farlo anche dopo aver compreso che Audrey avrebbe per sempre trovato macchie laddove non ve ne era nessuna. Lo aveva fatto perché in questo modo poteva pur sempre dirsi di averci provato, di essere completamente esente da colpe. Ho fatto del mio meglio, gracchiava ogni volta a Patricia, ci ho provato, lo giuro, ci ho provato.
E quando sua nonna lo guardava, i suoi occhi come due spugne e le mani di pasta, pronte ad asciugargli ogni volta le lacrime, Timmy in qualche modo riusciva a smettere di sentirsi in errore.
Obbedisci, e anche se non sarai amato, non sarai poi così sbagliato. E lui obbediva, unica soluzione al tormento di fallire in tutto, specie nella conquista dell'affetto di sua madre.
Sorridi, TimTim, gli bisbigliava Patricia sottovoce all'orecchio, sussurro magico dal profumo di cannella, sorridi sempre, il tuo sorriso è il mio più grande tesoro.
Così lui sorrideva, sorrideva sempre, persino se di motivi per farlo non ne aveva nessuno; Audrey schioccava la lingua e lui sorrideva, Vincent lo spintonava a terra e lui sorrideva, suo padre che non era suo padre faticava a guardarlo negli occhi e lui sorrideva. Sorrideva perché così Patricia sarebbe stata felice, bastava questo, solo questo.
E si era detto che prima o poi tutto quanto avrebbe iniziato a fare meno male, in questo modo. Che magari a furia di sollevare le labbra il suo cuore avrebbe smesso di crollare a pezzi, ma più la bocca si arcuava più quella curva sembrava ricrearsi più larga e struggente nello strappo dell'anima.
Sorridi, TimTim, e Patricia lo amava.
Pulisci, Timothy, e Audrey lo odiava un po' di meno.
Fa' silenzio, sei fastidioso, e Vincent la smetteva di farlo cadere per terra.
Non entrare in quella stanza.
E Timothy era sempre stato certo che non lo avrebbe mai fatto. Perché lui era un ragazzo ubbidiente, lui sorrideva e provava in qualche modo ad accontentare tutti, anche a costo di piangere dentro.
Ma ecco che era sopraggiunto una nuova scoperta, una novità che lo aveva sconvolto per il suo arrivo improvviso.
Era bastato un rumore a farglielo comprendere. Un solo rumore, esploso nelle sue orecchie non appena era entrato in casa di Edith. Un boato spaventoso, che nemmeno la pioggia era riuscita a camuffare e soffocare, proveniente proprio da quella stanza.
Un solo rumore, e così Timmy aveva scoperto di esser capace di mandare in fumo tutta la sua obbedienza, quando si trattava della donna di rovi e di spine.
Aveva pensato al peggio, appena aveva udito quel grido ignoto. Aveva pensato ad Edith ferita là dentro, magari rovinata per terra, magari sanguinante dopo esser scivolata su qualcosa. L'aveva immaginata e tanto era servito per buttare via anni e anni di ubbidienza. E non lo aveva fatto solo perché di natura era un ragazzo ansioso e paranoico, lo aveva fatto perché lui conosceva Edith, e sapeva molto bene che effetto aveva quella stanza su di lei. Lui aveva visto l'ebbrezza che la intossicava ogni volta che usciva da lì, quell'assenza che le masticava la voce e le riempiva le labbra di un sorriso che non era ubbidiente e men che meno sincero.
Un sorriso da morta.
Nemmeno quando aveva provato a convincersi che forse non si era fatta niente, che forse non era ancora tornata dal cimitero, era riuscito a sopprimere le sue paure. Era vero, lui non conosceva quanto le era successo in passato, ma sapeva che, di qualunque cosa si trattasse, la uccideva ancora adesso. Sapeva che quando era in quella stanza Edith non era in sé, non era più la donna arrogante e orgogliosa che lo rimproverava ogni volta, che si allontanava per non ferire ed essere ferita.
Edith entrava là dentro, e quando ne riusciva non era più nemmeno Edith. Era qualcun altro, una sconosciuta che Timothy non aveva mai potuto avvicinare, e che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, qualunque cosa.
Persino impazzire.
Persino farsi del male.
Il secondo frastuono aveva sgretolato tutta la sua indecisione. Le sue orecchie avevano sanguinato nel sentirlo e una colonia di incubi aveva iniziato a invadergli i pensieri: Edith ferita, Edith non più Edith, condannata a sfiorire in silenzio da sola.
Non entrare in quella stanza.
Lui era sempre stato sicuro che avrebbe seguito quell'ordine che per lei era un comandamento.
Ma quel giorno aveva scoperto di non essere poi così ubbidiente.
Quel giorno aveva scoperto di essere un blasfemo.
L'aveva chiamata, mentre saliva le scale tra l'affanno e la preoccupazione. Aveva battuto con forza e violenza il pugno contro la porta. Edith, stai bene? Edith, sei in casa? Edith, che cosa è successo?
Il silenzio che gli aveva risposto era stato un motivo sufficiente per rompere definitivamente la segreta promessa di non disobbedire mai a nessuno.
Anche se così sarebbe stato sbagliato, anche se così non avrebbe potuto essere amato, Timmy aveva aperto la porta, perché forse amare qualcuno vuol dire anche questo, forse amare implica anche ferire, peccare di insubordinazione.
Forse amare non è che un altro modo per incidersi nelle vite degli altri, senza sollievi né medicine. Solo il nostro nome per cicatrice tra le fibre del cuore di un'altra persona.
Aveva aperto la porta, e lì ancora stava, i piedi uniti e le braccia penzolanti.
Aveva aperto la porta, e ora tutto il suo corpo sembrava sfibrarsi, perder ognuno dei suoi filamenti, cadere a terra in una montagna di speranze avvelenate.
Non entrare in quella stanza.
Una parte di lui adesso desiderava non averlo mai fatto, ma l'altra, quella più vigliacca e infantile, quella più ingiusta, gli aveva incollato le gambe al suolo, come plastica sciolta, gli aveva rubato gli occhi solo per usarli a suo piacimento.
E lo costrinse a vedere tutta la pioggia che Edith finora gli aveva nascosto, tutta la pioggia della sua melanconia raccolta lì, in quella semplice stanza che di semplice in realtà non aveva nulla.
Era stato il diluvio del mattino a provocare quei rumori, insinuatosi tra le labbra aperte della finestra per rovesciare a terra, col suo soffio pungente, dei piccoli angioletti in ceramica, ora sparpagliati a frammenti su tutto il pavimento.
Non entrare in quella stanza, e ora che era entrato Timmy si sentì dilaniare da un dolore che non avrebbe mai creduto potesse esistere in quel mondo.
Capì che Killian aveva ragione, aveva sempre avuto ragione. Lui non l'aveva mai guardata per davvero.
Perché nel momento stesso in cui l'uscio della porta si era aperto, nell'esatto istante in cui le sue pupille avevano succhiato l'immagine che aveva davanti, Timothy aveva compreso che Edith non gli aveva mai nascosto nulla, nemmeno una volta, seppur ne fosse convinta.
L'hai mai guardata negli occhi?
Certo, si era detto, certo che l'aveva guardata negli occhi, lui l'aveva guardata sempre, e come il suo amico aveva creduto fossero gli occhi di una morta. Ma no, Killian aveva visto altro, un'ombra che lui più di tutti conosceva nel modo peggiore, ed era ovvio che Timmy non l'avesse riconosciuta, era ovvio che non avesse potuto identificarla.
L'aveva notata? Sì, ma non aveva mai saputo darle un nome. L'aveva intravista nell'atelier, quando si era ritrovato a contemplare la bellezza del suo quadro: la goccia trasparente che recideva il pallore della tela, la culla acquosa in cui lui aveva visto giacere...
In quella goccia giaceva...
L'hai mai guardata negli occhi?
Si era sbagliato.
Gli occhi di Edith non erano semplicemente gli occhi di una morta.
Edith non aveva occhi da anima infranta.
Edith aveva occhi da madre perduta.
E la goccia, oh, quella dannata goccia. Ora tutto assumeva un senso, ora tutto trovava posto nel puzzle che era quella donna. La goccia, la lacrima...
Un pianto nascosto in cui aveva potuto vedere un bambino.
Un piccolo, minuscolo neonato.
E come avrebbe mai potuto comprenderlo? Come avrebbe potuto capirlo, se non scoprendolo per sbaglio in quella camera?
Lui non era come Killian, lui non aveva mai avuto una famiglia al di fuori di Patricia.
Lui non aveva mai avuto una madre.
Eppure, ora che era dentro quella stanza, sentiva la sofferenza di una madre che più non era tale, un genitore orfano del proprio figlio. Quel dolore pungeva e assuefava i respiri, era rancido e si incollava alle pareti, strisciava come un serpente per avvolgere i mobili colorati, la culla vuota, i peluche accatastati sopra l'armadio, intossicava persino il mondo fiabesco che era stato pitturato sul soffitto: l'universo che vi era stato dipinto, un uragano di pianeti e fiori, strillava perdita e abbandono assieme alla pioggia, bagnava il pavimento con le gocce d'acqua, fino a far diventare la stanza un sottomarino sperduto in un passato grande e crudele quanto un oceano.
Non entrare in quella stanza.
Perché lì era dove si trovava il suo bambino.
Lì Edith aveva fermato il tempo, lo aveva sospeso tra le piaghe del suo personale inferno, e adesso quel mondo non era nient'altro che una clessidra di memorie.
Ogni granello, ogni più piccolo ricordo, rimaneva sospeso nei giorni, fermo e immobile, nelle stesse condizioni in cui era stato creato.
Lì il domani non esisteva, c'era solo una culla ancora pronta per esser ben presto dondolata, giostrine appese al soffitto le cui campanelle sussurravano rintocchi cristallini grazie al tocco del vento, e un letto minuscolo, con orsacchiotti stampati sulle lenzuola turchine.
E quando vide quanto era curato quel letto, quanta attenzione la sua proprietaria vi aveva riservato per tenerlo al meglio e renderlo il più bello e accogliente di tutti, al punto da decorarne la testata con adesivi a forma di macchinine, Timmy si accorse di star piangendo.
Faceva male, faceva troppo male, avrebbe dovuto essere illegale sentire in quel modo il dolore di un'altra persona, averlo così dentro da credere fosse il proprio. Più guardava quella stanza più le sue lacrime cadevano, più la pioggia ruggiva dalla finestra e più lui avrebbe soltanto voluto chiudere gli occhi e fingere di non aver mai visto niente, di non aver mai sentito niente.
E non osava immaginare quanto immenso fosse il dolore che Edith provava, consapevole che quello nel suo petto era soltanto un frammento di ciò che lei sigillava nel cuore.
Avrebbe dovuto andarsene, forse, ma non ne fu in grado. Anche se quella sofferenza sembrava aver incendiato ogni arteria, anche se ogni granello di quella clessidra gli bucava un altro po' l'anima, Timmy non ebbe la forza di voltarsi e richiudere la porta.
Avanzò, invece, pian piano. Avanzò e si lasciò ferire ad ogni passo, ad ogni occhiata. Chiuse la finestra che Edith aveva lasciato aperta e per qualche secondo rimase così, incastrato nella sabbia di un passato di cui non faceva parte.
I suoi polmoni lo scongiuravano di ridar loro aria, eppure le gambe del ragazzo rimasero ferme. E tutto di lì spingeva e cadeva, tutto si rovesciava in lui lasciando lividi che la pelle dell'anima non avrebbe mai potuto assorbire. Tutto gridava e latrava, la pioggia tuonava anche se nascosta dal vetro.
Ma poi si voltò, e lo vide.
Sulla coperta con le stampe degli orsacchiotti, abbandonato sopra il gigantesco cuscino.
Un cofanetto.
Non si disse nemmeno di fermarsi, stavolta.
Non provò neppure a desistere da quell'intenzione; aveva capito che per quanto facesse male tutto quel dolore, lui lo voleva, lo desiderava. Sognava di ingoiarlo nello stomaco, di lasciarsi flaggellarle da tutte quelle cicatrici non sue, perché in fondo conoscere Edith implicava anche questo, in fondo lo aveva sempre saputo che una donna di rovi e di spine non la puoi amare senza lasciarti ferire.
Si avvicinò al lettino, le dita tremarono quando strinsero con delicatezza il cofanetto e lo custodirono tra i palmi.
Capì subito di avere in mano il granello più importante di tutti, la memoria che ad Edith era più cara, e per questo motivo, per qualche istante, il suo cuore esitò, essicandosi e perdendo tutto il suo sangue.
Ma fu la nausea a farlo battere, quando scoperchiò il cofanetto, fu disgusto, disperazione, amore ad attraversargli le vene.
Smise d'esistere nel momento in cui lo vide, tutto morì in lui in silenzio, senza produrre rumore, solo lo scatto degli occhi terrorizzati, l'effluvio della bile mentre scartavetrava la carne in gola.
Timmy si coprì la bocca con la mano, inghiottì il sapore dell'acido che gli aveva stritolato la lingua. Sentì le lacrime ammuffirsi sulle sue palpebre, creare cornici di muschio tra le ciglia.
E quando tornò a guardare, il cordone ombelicale che stringeva in mano gli apparve ancor più crudo e struggente di prima.
«Cosa stai facendo?»
La paura gli ruppe i pensieri non appena sentì quella voce.
Faticò a sollevare lo sguardo all'inizio, ma non per il timore di averla fatta arrabbiare o la vergogna di aver disubbidito.
Bensì per il terrore di guardarla e vedere i suoi occhi divorati dalle braci della follia.
E così erano, quando finalmente trovò il coraggio di farlo, così era tutta Edith, tutto il suo corpo e l'anima, tutto la sua faccia contratta, le labbra tremanti, le palpebre incollate alla pelle del viso, e le pupille divoratrici, mostri dalle fauci invincibili.
La guardò, ma non seppe che dire. La guardò, ma non seppe vederla davvero. Ciò che aveva davanti non era Edith, non era la donna che conosceva ormai da mesi. Era una madre senza più nome, il fantasma di un genitore che non aveva alcun figlio da poter cullare.
Respirava bruscamente, lei, e anche il più piccolo osso le bucava la carne, sgusciava fuori dal proprio posto per smagrirle il fisico e la ragionevolezza, recidere entrambi così da ingabbiarle la pazzia nello scheletro.
«Cosa. Stai. Facendo.»
Lo ripeté tra i denti, le labbra così contratte da essere a stento visibili, e la superficie del collo si aggrovigliò, creò catene montuose di pelle e abissi di muscoli, tessendo disperazione nelle cellule.
Infine, gli occhi le caddero sul cofanetto che Timmy stringeva ancora in mano.
Morì, Edith, semplicemente, e Timmy morì assieme a lei.
«Gli stai facendo male!» Quella non era Edith, quella non era lei. Quella voce non era la sua, quegli occhi distrutti non erano i suoi. «Gli stai facendo male! Gli stai facendo male! Sta piangendo per colpa tua!»
Non era vero, a piangere erano solo Timothy e la pioggia, ma lei sembrava vivere in un'altra dimensione, esistere in un luogo dove da quel cofanetto provenivano vagiti e singhiozzi umani. Guardava quella custodia come solo una madre può guardare il proprio figlio, con la preoccupazione che solo chi ama l'anima che ha messo al mondo può possedere.
«Edith...»
«Lo hai fatto piangere! Lo hai fatto piangere! Non lo toccare! Non lo toccare! Gli stai facendo male!»
Le unghie di lei nel tessuto della sua maglia, rovi e spine e zanne al posto degli occhi.
«Edith...»
«Ladro!»
Lo assalì in un turbinio di mani e graffi.
«Ladro! Ladro! Ladro! Ridammello! Ridammelo! Gli stai facendo male!»
Pelle contro pelle, ossa contro ossa, e rabbia e dolore mischiate assieme mentre lo spintonava, mentre lo colpiva sul petto tra pugni e latrati inumani, mentre gli strappava via di mano il cofanetto.
«Edith, ti prego...»
«Tu non me lo porterai via. Nessuno me lo porterà via di nuovo.»
Una spinta violenta, una forza che nessuno si sarebbe mai aspettato da parte di una donna gracile come lei, e Timmy cadde per terra, si rovesciò sul pavimento di schiena.
La pioggia tuonò assieme al cielo, e quando lui sollevò lo sguardo vide tutti i suoi chicchi bruciare nella sguardo di lei. Lo sguardo di chi la pioggia ce l'ha sempre nel cuore, occhi da creatura in preda agli istinti, senza più coscienza o anima umana.
Solo Edith e la fragilità di una rabbia da madre smarrita, ora troneggiante davanti a Timothy.
«Edith» la chiamò ancora, e nel sibilo dell'inverno supplicò che la sua voce la raggiungesse, che trovasse spazio nei corridoi della sua mente ebbra di dolore. «Edith, non volevo portartelo via. Credevo ti fossi fatta male, avevo sentito un rumore... Non sapevo se eri tornata, avevo paura che...»
Ma lei lo ignorò, le mani chiuse a conchiglia attorno il cofanetto; la luce del mattino ghiacciò il suo viso, lo verniciò dei colori del ghiaccio, inspessendone le rotture.
«Edith...» Timmy si rialzò a fatica, e lei indietreggiò ancora. «Edith, va tutto bene...»
Aveva l'impressione di star provando a calmare un orso ferito. No, era molto più di questo. Un'anima come quella di lei andava oltre il semplice orgoglio di un'animale; l'anima di Edith aveva talmente tanti pertugi da non riuscire più ad essere unita, e ora i suoi frammenti si imbevevano della coscienza della donna, gliela rubavano tutta.
«Edith, non ti voglio far male, non voglio far male nemmeno a...» Timmy inspirò. «Nemmeno al tuo bambino. Va tutto bene, è tutto...»
«Sta piangendo.»
Ma non era vero.
«Sta piangendo per colpa tua.»
Non esisteva alcun pianto.
«Gli hai fatto male, gli hai fatto tanto male.»
Non c'era più nessuno a cui far male, non c'era più alcun bambino.
Eppure Edith cullava il cofanetto come se ci fosse davvero.
Gli parlava come se fosse molto più di una custodia per il cordone ombelicale.
Lo amava come se avesse un corpo, braccia, gambe, labbra e occhi da baciare.
E Timothy avrebbe solo voluto stringerla a sé in quel momento, abbracciarla fino a quando tutto non fosse passato. Avrebbe voluto vederla tornare in sé, ma lei non era più da nessuna parte.
L'unico, vero ladro presente in quel luogo era proprio quel cofanetto.
Il ladro di Edith Morrison.
«Vattene via.»
«Edith...»
«Vattene via! Vattene via! Vattene via!» gli ripeté, una litania funebre che gli serrò il cuore.
«Edith, ti prego...»
«Vattene via! Mi hai capito? Devi andartene via. Vattene via, lui è mio, lui è mio. Lui. È. Mio.»
L'hai mai guardata negli occhi?
Adesso sì, adesso la stava guardando davvero negli occhi.
La vide sul serio.
La vide e vedendola imparò che non esiste sofferenza che non rubi tutti i colori di un'anima. Guardandola capì che non vi era più il rubino dei suoi capelli, o il biancore della pelle sottile, le gemme infiammate come mosaici sulla sua faccia.
C'era solo la fragilità di un mondo nero, il corpo di Edith cadavere, un disegno a matita, carboncino su pelle e fumo negli occhi.
Gli unici colori rimasti erano ormai lacrime che lei non osava mostrare.
Ma che Timmy si sentì addosso, sulla pelle, un arcobaleno a forma di pianto.
Piovvero colori dentro di lui, acquerelli sciolti rigarono il suo cuore lacerato.
Scoprì un'altra cosa, guardandola ora.
Alcuni arcobaleni possono macchiare più della pioggia.
«Ho capito. Me ne vado.»
Non sapeva nemmeno da dove avesse trovato la forza per dirlo. Lo disse e basta, e in qualche modo percepì di aver fatto la cosa giusta, quando lei sembrò rilassarsi nell'udire le sue parole.
Gli sembrò strano essere all'improvviso così calmo, il modo in cui il suo corpo si muoveva era del tutto naturale, ogni rumore adesso taceva nel guazzabuglio dello stomaco.
Si allontanò camminando, lento e preciso, un mare cheto ad asciugare tutte le sue cicatrici, e l'unico suono che udí fino a quando non chiuse la porta fu il graffio del respiro di Edith, il ronfo animalesco che le sviscerava i polmoni.
Timothy inspirò di nuovo, silenzio e ancora silenzio, infilò la mano nella tasca dei pantaloni, silenzio da tempesta in arrivo, estrasse il biglietto da visita che da mesi si portava ovunque, silenzio dal gusto d'impotenza, e digitò il numero che sopra vi era impresso.
«Amelia... Sì, sono io. Timothy Barlow.»
Silenzio e lacrime nei suoi occhi e tra le sue labbra.
E si ritrovò a pregare di riuscire a fare rumore, a rompersi ed esplodere in una macchia di errori e rimpianti.
«Per favore... vieni qui. Edith... Edith è impazzita.»
Perché a tutto avrebbe voluto tornare ad ubbidire, tranne che al silenzio delle sue stesse lacrime.
Nota autrice:
TADÀ! Sorpresa! Big aggiornamento!
*scansa le uova*
*rifugge dalle mitragliatrici*
*si nasconde sotto il tavolo*
Lo so, lo so che volete uccidermi. Insomma, mi rendo conto che questo libro sta diventando più disgraziato del mio criceto quando fece la cacca in testa a mia nonna dopo che era appena tornata dal parrucchiere...
PERÒ
Vi giuro, lo giuro sulla caponata e i panzerotti fritti, che a tutto c'è un motivo. Lo so che adesso siete lì lì per lanciarmi contro ventordici scrivanie, ma lasciatemi spiegare prima di uccidermi.
*coff coff*
*parte musichetta di Super Quark*
*si camuffa da Alberto Angela*
Come ben sapete, il rapporto di Edith e Timmy è piuttosto particolare. Prima di tutto, per quanto possa apparire banale, non dovete dimenticare che Timmy ed Edith hanno avuto due vite completamente diverse prima di incontrarsi, e anche due tipi di sofferenza molto diversi. E io ho sempre ritenuto necessario, affinché potessero zumzummare 'nsomma, che per entrambi sia fondamentale poter conoscere rispettivamente l'uno i dolori dell' altra.
Detta in maniera semplice, il loro rapporto non avrebbe potuto andare ancora a lungo, se Timmy non avesse compreso qual è il dolore di Edith, e viceversa.
Parlando per l'appunto del dolore di Edith... Già in molti avevano teorizzato in merito al contenuto del cofanetto, e alcuni di voi ci avevano pure azzeccato, ma finora non avevo dato conferme a nessuna ipotesi, proprio perché volevo che fosse Timothy a scoprirlo. Non volevo rendere il passato di Edith un mistero top secret, né era mia intenzione renderlo inimmaginabile fin quando non fosse stato rivelato, al contrario volevo lasciarlo scivolare nella storia pian piano, affinché di capitolo in capitolo apparisse sempre più evidente, per esplodere poi in questo punto.
Ora, piccola nota necessaria. Il comportamento di Edith è stato molto... crudele. Me ne rendo conto. Mi rendo conto che la ferocia da lei utilizzata, la rabbia con cui ha trattato Timmy, è tutt'altro che gradevole, ma vi chiedo... Vi chiedo di attendere, per capire. Edith non è un personaggio giustificabile, non è mai stata mia intenzione renderlo tale, ma vorrei che fosse un personaggio comprensibile. Se sono riuscita nel mio intento, già fino a qui traspare il modo in cui lei sia legata al proprio dolore. Ma nel prossimo capitolo vi verrà rivelato in tutta la sua complessità e spero... spero di potervi mostrare quanto Edith nasconda dentro di sé, quanto la sua rabbia sia in realtà fragile.
Vi confesso che questi ultimi capitoli mi stanno lacerando dentro, perché ho sempre questo orrendo terrore di non esser stata in grado di veicolare ciò che invece sogno di farvi vedere. Soprattutto per Edith.
Il prossimo aggiornamento arriverà la settimana prossima, non so ancora in che giorno, ma arriverà, lo prometto.
Come sempre, grazie per seguire questa storia, vi sarò sempre immensamente grata per questo ❤️ e se vi va, lasciatemi pure un parere su cosa ne pensate di questa capitolo, così che possa sapere dove e in cosa posso migliorare e dove invece sto andando per la strada giusta.
Alla prossima settimana!
Simona ❤️
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