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Cimitero di lacrime

L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Italo Calvino - Le città invisibili

Era stato il suo più grande errore.

Di quelli che mai dimenticherai, che restano tatuati al di sotto della pelle e dei muscoli, contratti nelle occlusioni di un respiro e l'altro, per germogliare e pizzicare i pensieri come una rosa di lische.

In un vortice di timori e paure quell'errore si era solidificato fra le sue mani, nella strettura di due linee rosse su un test di gravidanza.

Ed Edith aveva capito, allora, lo aveva capito come si capisce di essere giunti al mondo, con le mani impiastricciate e gli occhi chiusi, e un grido ancora acerbo a bucarti le labbra.

Nel tugurio immobile della sua eterna insoddisfazione, era stato piantato il primo seme della completezza: un germoglio che aveva prosciugato ogni tormento e condanna e che era lì per sbocciarle nel ventre e foderare tutti i suoi vuoti grazie ai propri boccioli.

Era stato il sospiro della primavera a donarle quello sbaglio, e durante l'orchestra delle cicale innamorate gli occhi di Edith, per la prima volta da tempo immemore, avevano fatto piovere ruscelli di lacrime con cui, finalmente, porre fine all'aradità della sua anima.

Anche le stelle avevano taciuto davanti al brivido di un simile miracolo, e nemmeno il buio di un cielo privo di luna era stato in grado di sporcare l'innocenza del suo pianto.

Edith era scivolata a terra, ginocchia flesse sul pavimento duro e spalle contratte dal terrore.

Ma nella catartica paura di quell'epifania, erano stati i suoi occhi ad ammorbidire i profili di un mondo che finora era sempre stato troppo ruvido per lei, troppo contorto.

Aveva stretto a sé la prova del suo reato e aveva giurato, in silenzio. Una promessa che era stata inguaiata nell'incarto di una ragnatela di stelle.

Giuro che ti amerò. Giuro che ti amerò per tutta la vita.

Aveva pianto, Edith, quel giorno.

Aveva pianto perché per la prima volta, il pellegrinaggio della sua insoddisfazione era finito.

Ti amerò, ti amerò per tutta la vita.

Come sempre aveva dimenticato la sua triste verità: il suo amore non era un soffio impalpabile, non medicava né abbelliva.

Edith amava e bruciava, non esisteva sollievo che potesse confinare l'ardità della sua maledizione - l'amore di Edith era cancro, epidemia, accresceva per torturare nuove cellule, diventava più grande a ogni morso, e più amava, più uccideva, più amava, più logorava i tessuti degli altri, li sfilacciava e rompeva.

Non c'era cura, nessuna medicina.

Tu porti solo morte con te.

Avrebbe dovuto saperlo, avrebbe dovuto comprenderlo da subito.

La morte non mente, la morte non piange.

La morte divora e lascia alle sue spalle un cimitero di lacrime.


«Non lo voglio» aveva detto lui, con le labbra squarciate dal disgusto. «Non è mio.»

Edith era rimasta in silenzio, immobile davanti a quell'uomo che per lei era come una mollica, un granello che aveva afferrato solo perché necessario.

«Non può essere mio.»

Lo aveva guardato disperarsi, struggersi per quel tormento, e di colpo tutta la bellezza che lui portava nel viso si era sciolta a terra, mostrando la vergogna di un uomo che aveva creduto di possedere il mondo.

«Come pretendi che creda che sia mio? Pensi che non sappia chi sei? Pensi che non sappia che sei solo una puttana?»

Di nuovo, era rimasta in silenzio. Cheta, Edith, labbra cucite. Non si era sentita scalfire, nemmeno un graffio nell'anima, nemmeno il battito timoroso di un ciglio. Lo aveva osservato con l'inesorabilità di un giudice imparziale, e di nuovo si era sorpresa di notare nella voce di quell'uomo il ronzare di un alveare pregno di disgusto e disprezzo.

«Scommetto che lo hai fatto apposta, non è così? Vuoi rovinarmi la vita? Hai idea di cosa farebbe mia moglie se lo scoprisse? Pensi che mi prenderò cura di te e di... di quell'essere, solo perché tu sei una puttana che mi ha ingannato?»

«Non voglio nulla da te» aveva infine detto Edith, le mani intrecciate sopra il ventre e gli occhi puliti, non più sporchi dall'acredine. «Te l'ho detto solo perché è giusto che tu lo sappia, in fondo sei il padre biologico. Ma se non vuoi averci nulla a che fare, prego, quella è la porta, vattene pure.»

Aveva sollevato lo sguardo dal grembo e aveva incontrato quello di lui: occhi rotti dalla vergogna e la disperazione, contratti in due spine di rabbia.

«Tu vuoi incastrarmi, lo hai fatto apposta, non è così? Sei rimasta incinta apposta.»

«Incastrarti, io?» Non aveva percepito niente, se non il vago sentore di star guardando un fantasma, un pezzo che aveva fatto entrare dentro di sé solo per tamponare uno dei suoi tanti pertugi. «Non provo nulla per te, così come tu non provi nulla per me. Sei una persona viscida e squallida, ti piace ingannare gli altri perché è l'unico modo che hai per poter dire di esser qualcuno. Pensavi forse che mi fossi innamorata di te? Che ti amassi? Immagino fosse quello il tuo intento iniziale. Mi spiace però dirti che non ha funzionato, l'unica cosa in cui eccelli è il sesso ed è stato solo questo tuo lato ad interessarmi ogni volta.»

Nemmeno lo aveva sentito arrivare, lo schiaffo con cui Scott le aveva colpito la guancia, ma altrettanto non avrebbe potuto dire per lo sputo che lui le aveva riservato l'attimo dopo, uno scatarro che si era appiccicato viscosamente alle sue sopracciglia.

«Come se tu fossi diversa da me. Puttana.»

E se ne era andato.

Senza sapere che Edith non avrebbe negato mai le sue ultime parole. Non era bugiarda lei, mai lo sarebbe stata: aveva sempre saputo di esser rotta, sbagliata, di saper solo modellarsi per rovinare gli altri.

Ma per una volta, per una volta soltanto, stava tentando in ciò in cui non aveva mai osato.

E per farlo, avrebbe dovuto imparare.

Persino ad amare.


Gli parlava spesso, Edith, molto più di quanto gli altri potessero credere.

Gli parlava anche quando non si poteva vedere e il suo stomaco era ancora piatto, asciutto, nessuna prova con cui dimostrare l'esistenza del suo più grande amore.

Ma Edith sapeva che c'era, sì, lei lo sapeva. Lei non avrebbe mai osato metter dubbio alla sua presenza - lo aveva dentro in un modo che è impossibile descrivere a parole. Erano incatenati, loro due, anime che si nutrivano a vicenda l'una dell'altra, un ricevere e dare continuo che le imporporava le guance, le limava il sorriso.

«Lo sai che sarai amato, vero?» diceva in continuazione. «Lo sai che la tua mamma ti amerà per sempre, vero?»

Lo mormorava con labbra contratte nel più abbagliante dei sogni, un disegno felice che ancora non sapeva esser stato trascritto da un gesso su una lavagna, pronto a sfaldarsi in una spuma bianca sulla tavola nera.

Ma all'epoca Edith era ancora troppo presa da tutta quella felicità per poter anche solo riflettere su quella condanna - mai nella vita le era capitato di aver così tanti boccioli di sorrisi a fiorire sulle sue labbra.

«Guarda» gli aveva detto un giorno, sdraiata sul letto della stanza che gli aveva appena preparato. Aveva indicato il soffitto, là dove aveva dipinto un mondo di fiabe: tulipani che sbocciavano negli spigoli e galassie sconosciute all'animo umano, pianeti divoratori di stelle e lenzuola d'universo a panneggiar loro le vesti. «Quando avrai paura, ogni volta che sarai spaventato, ti basterà sdraiarti sul letto e osservare il soffitto. Allora tutto scomparirà, sarete solo tu e il silenzio del mondo. Sarai felice, io ti renderò felice.»

Ma ad esser ancor più felice era lei, che sognava quel momento come se non avesse mai fatto altro per tutta la vita.

Ad esser felice era lei, che amava per la prima volta, che sorrideva e scherzava, che non sentiva più il buio, lo sporco di un animo omicida.

Ad esser felice era lei perché finalmente il grigio della noia era scomparso, il flagello della vergogna si era dissipato.

Ora erano solo Edith e il suo nuovo, grande e spazioso amore.

Nella tormenta estiva di quella notte, alle luci di un'alba che mai sarebbe tramontata nella sua memoria, Edith aveva chiuso gli occhi e aveva trovato il nome con cui poterlo amare ancora più fondo.

Aveva pensato ad Henry, le sue mani avvolte da guanti di rughe.

A lui e il suo sorriso che era sempre bizzarro, acciaccato dal tempo, incastrato nelle piaghe degli anni.

Aveva pensato ai baci sulla sua fronte, al modo in cui l'aveva stretta a sé il suo ultimo giorno di vita.

Ricordati di amare, Edith.

Edith aveva sorriso.

«Sì» aveva mormorato, ancorata al precipizio del sonno. «Credo che questo nome ti piacerà, è speciale, sai, tesoro? Proprio come te.»

Michelangelo.


Nove mesi non sono nulla per una vita già sbocciata.

Volano via, si sgretolano con l'eterno assassinio di una stagione che sussegue un'altra. A testimoniare l'omicidio della primavera vi sono i peduncoli di fiori che la lama dell'estate ha essiccato al suo passaggio, e quest'ultima a sua volta sbuffa il suo ultimo respiro abbandonano terre grulle che l'autunno, poco più tardi, provvederà a seppellire con le sue macchie di foglie screpolate.

Ma per Edith quei nove mesi erano stati immortali, si erano incastrati tra le pieghe di un tramonto e di un'alba per dilatarne il contorno - un riciclo di sogni che mai deterioravano, nemmeno davanti al solletico della primavera, l'austerità dell'estate e la fragilità dell'autunno.

Aveva sognato per nove mesi, una meraviglia e un incanto che avevano liquefatto ogni riverenziale timore, ed Edith si era sentita privare persino della paura, quando era suo figlio - suo figlio - a darle il coraggio crescendo, gonfiandole il ventre, ricordandole ogni giorno che lui stava facendo del suo meglio per poterla incontrare.

E come sognava, Edith! Quanto sperava! Lo immaginava nei silenzi delle notti più oscure, nel guazzabuglio arrossato del crepuscolo, persino durante la melodia della pioggia, il ticchettare funebre delle gocce lacrimanti.

Di che colore sarebbero stati i suoi occhi? Avrebbe avuto il volto asciutto come il suo? E i capelli? Sarebbero stati rossi come i suoi? Sarebbe stato gentile e pacato? O forse da lei avrebbe ereditato non l'aspetto bensì il carattere?

Come sarebbe stato il suo sorriso? Lei non lo sapeva, ma era certa che avrebbe fatto impallidire persino una stella.

Era lì, nell'incanto della sua immaginazione, che il tempo si spegneva e la mente diventava vorace predatrice della memoria.

Persino lo sguardo più truce, persino gli occhi grigi di suo padre, diventavano effimeri, sciocche insolenze.

«Un maschio, eh?» aveva detto Amelia un pomeriggio, seduta sul divano al suo fianco, mentre scrutava la pancia ormai tesa. «Hai già deciso come chiamarlo?»

«Sì.»

«Oh, davvero? Non me lo hai detto.»

Edith aveva sorriso maliziosa. Anche quello era un suo sogno: sua nonna felice, che guardava un bambino neonato, con gli occhi dipinti d'orgoglio nello scoprire il suo nome.

«È un segreto.»

Non tutti erano stati felici di quella notizia.

Leonard, ad esempio. Sempre lui, d'altronde: occhi vitrei e rughe sulla fronte, quel volto continuamente arrugginito dalla disapprovazione.

Edith non si era aspettata nient'altro che questo da lui, in fondo, ma comunque, il giorno in cui era venuto a trovarla, aveva sentito le sue vene gridare in labirinti di fuoco, quando Leonard le aveva chiesto:

«Ne sei proprio sicura, Edith? Sei sicura di esser pronta?»

«Cosa intendi dire?»

Leonard aveva chinato lo sguardo, gli occhi improvvisamente macchiati da ombre ignote. «Edith, non dipendere da lui.»

Non aveva capito, non lo avrebbe mai fatto, aveva raschiato una risatina incolore, vuota da dentro e da fuori.

«Edith, non commettere il mio stesso errore.»

Era diventata tempesta, furia, per la prima volta da quando quella felicità incontaminata aveva medicato ogni sua ferita.

Aveva gridato, Edith, urlato ogni cosa, e nel singulto di un ringhio disgustato lo aveva guardato con occhi da boia.

«Non lo lascerei mai, io. Non lo abbandonerò mai come hai fatto tu con me» aveva sibilato fra le labbra, e allora gli occhi di Leonard si erano chiusi quasi con rassegnazione, come se fosse più facile accogliere quella condanna dopo aver spento le candele del mondo attorno a lui.

«Edith... L'unico modo in cui riesci ad essere felice è amandolo?»

Non aveva risposto a quella domanda, le era sembrata sciocca e retorica, talmente scontata e banale da non meritare alcuna risposta.

Ed era stato allora, sì, proprio allora, che le palpebre di Leonard si erano sollevate di nuovo - e nel grido grigio dei suoi occhi Edith aveva scorto l'ineluttabilità di una fiaba priva d'epilogo.

«Mi dispiace, Edith, mi dispiace tantissimo

Per cosa? avrebbe voluto chiedere lei, Perché piangi così? Perché disprezzi persino la mia gioia più grande? Perché non mi ami, anche se sei mio padre?

Ah, avrebbe pensato mesi più tardi, quando il sogno era mutato in omicidio, ora comprendo.

Hai sempre saputo che lo avrei ucciso.

Lo aveva capito subito, che qualcosa non andava.

Era stata il dubbio del serpente, la condanna di un mostro.

Se lo era sentito nella pelle, sotto le mezzelune delle unghie, un ruvido strascico d'assenza nel garbuglio dello stomaco, e così avuto inizio la sua più grande tragedia.

Coi vortici dell'oblio a cantare per lei una ninnananna funebre, si era svegliata sul suo letto e nella calca dei pensieri aveva percepito il vuoto delle sensazioni, la fatalità di un silenzio giunto nel ventre per sottrarre anche il più flebile movimento.

Non avrebbe ricordato il turbinio della paura, la frenetica corsa all'ospedale, o i volti dei medici che l'avevano guardata durante l'ecografia.

Avrebbe però per sempre conservato come tumore nella memoria le parole liquefatte che avevano sciolto ogni speranza, ogni miracolo, che le avrebbero incollato le labbra fino a costringere i suoi occhi a gridare per lei.

Non c'è battito.

Ed Edith aveva pensato che si riferissero al suo, di battito, perché non poteva crederci, si rifiutava di crederci. Tutto, ma non questo, ti prego. Tutto tranne che questo, ti scongiuro.

Ma non era il suo cuore ad esser stato svuotato, non era il suo petto a non possedere più alcuna sinfonia.

Non c'è battito.

Era giunto il silenzio della morte.

Piccolo.

«È bellissimo, signorina Morrison, suo figlio è bellissimo.»

Piccolo, così piccolo.

«È caldo, signorina Morrison. Lo vuole stringere a sé?»

Fra le sue braccia sembrava ancora più piccolo e fragile, ora che l'ostetrica gli aveva permesso di cullarlo.

Mani minuscole, dita come petali, un visetto tutto gonfio, con la pelle lucida e bianca, quasi di gomma, e uno sbuffo di ciocche rosse sul capo.

Avrebbe per sempre ricordato quel volto.

Quella bocca così gracile, una bozza di labbra serrate, e la delicatezza del peso sulle sue braccia, una culla in cui nessuna voce avrebbe mai gridato.

E occhi perennemente chiusi, serrati nel brivido di un fato crudele, dalle palpebre come tende che lei non avrebbe mai potuto scostare per scoprire il colore delle loro finestre.

Lo aveva stretto a sé come sempre aveva sognato di fare, ma l'incanto della speranza si era disgregato all'ombra di una pioggia immortale, tuoneggiante là fuori.

L'aveva odiata, quella pioggia.

L'aveva odiata ancora e ancora e ancora, con la condanna di dovere ascoltare il suo pianto quando era quello di lui che stava aspettando.

Svegliati.

Il primo bacio sull'occhio sinistro.

Piangi.

Il secondo sul destro.

Sarai felice, io ti renderò felice.

Il terzo sulla fronte.

Ti amo, ti amo, ti amerò per tutta la vita. Perciò svegliati, ti prego.

E l'ultimo, quello sul cuore, glielo aveva dato nella preghiera autunnale di un miracolo. Glielo aveva dato a occhi chiusi, supplicando persino il diavolo di trasformare quell'addio in un buon giorno, per poter scorgere le palpebre del suo piccolo fibrillare come ali di farfalle e potergli così dire "benvenuto, ti stavo aspettando".

«Piangi» gli aveva sussurrato, tra mille baci sul cuore e carezze da madre. «Piangi, ti prego, ti supplico, piangi

A stento aveva percepito le dita di Amelia levigare gli spigoli delle spalle contratte, o la voce dei medici che provavano a rianimare la sua coscienza smarrita.

«Piangi» aveva ripetuto, di nuovo, ancora, per sempre, «piangi, ti prego, piangi. Sarai felice, lo giuro, qui con me sarai felice, io ti renderò felice, perciò ti prego, piangi.» Singhiozzi ruvidi, ossa di vetro, e quando lo aveva guardato di nuovo si era sentita rompere dentro. «Sarò una brava mamma, ti amerò per sempre, sarò una mamma perfetta, lo giuro, perciò piangi. Perché? Perché non piangi

E aveva atteso, Edith, aveva atteso con la speranza di un moribondo che prega di possedere qualche briciola di secondo in più, qualche universo di vita in più.

«Sarai felice, lo giuro, qui con me sarai felice. Ti renderò felice.»

Ma lui non si era svegliato, lui non aveva parlato - solo il silenzio e l'assenza di un corpo ormai morto, il gracile peso di una creatura i cui occhi Edith non avrebbe mai potuto incontrare.

Amelia, al suo fianco, le aveva detto qualcosa, ma lei non aveva sentito, non aveva udito nulla che non fosse lo squarcio del vuoto, la risata grondante della pioggia là fuori che aveva ucciso la sua ultima preghiera.

Allora Edith aveva sollevato lo sguardo e le aveva viste, là, oltre la finestra della sua stanza, unico colore in quel mondo di bianchi: le biglie d'acqua che si erano infrante contro il vetro, il mosaico di foglie imbrunite e di pioggia trasparente che si era tessellato davanti ai suoi occhi.

Era bastato guardarlo, sentire i suoi latrati, il viscido rimbombo delle gocce che morivano a terra, e anche la sua ultima preghiera era perita, trascinata via dal pianto dell'autunno.

Aveva gridato.

Il grido di un mostro, di una belva che mai più sarebbe tornata umana, lo squarcio della bocca era stato attraversato da correnti di maledizioni e bestemmie, ed Edith lo aveva stretto a sé, cullandolo nell'inganno di una fiaba che non avrebbe mai posseduto un epilogo.

Sarai felice, te lo prometto.

«Va tutto bene, Edith, va tutto bene, tesoro» le aveva sussurrato Amelia, con le dita che raccoglievano pazientemente ogni sua lacrima. «Andrà tutto bene.»

Sarai felice, io ti renderò felice.

Per la prima volta, avrebbe voluto non aver mai mormorato una simile promessa.


Lui non c'era più.

Non c'era mai stato.

La condanna di quella morte aveva ammuffito la leggerezza dei giorni, glieli aveva appiccicati addosso in una veste di incubi, ed Edith aveva sentito tutto il suo corpo contrarsi, ringhiare e graffiare per farsi più piccolo ed indossare meglio quell'abito.

La dilatatura del sogno ora si era richiusa, rumori ovunque e silenzio nel cuore, un tormento che le circolava nel sangue, che bruciava e raschiava dentro il ventre nell'immortale memoria di colui che più non possedeva.

E rabbia, rabbia, rabbia.

E dolore, dolore, dolore.

Mischiati insieme, allacciati dalle manette che arrestavano il cuore e il cervello - Edith sapeva solo farsi divorare da loro, lasciarli muovere nel corpo, scoprirle le membra, mordere il cuscino, ingoiare piume e lacrime, tagliare squarci sul quadro del materasso.

I mesi che erano susseguiti alla fine erano stati a loro volta il prolungamento di quella stessa fine - immancabilmente le crollavano addosso, si sfracellavano nel corpo abbottonato alle lenzuola, un tintinnio che le prosciugava i respiri, le rubava la voce, le leccava le lacrime.

Avrebbe voluto esser forte come gli altri speravano che fosse, se solo ogni respiro non le avesse ricordato che un tempo era stato il cibo di una bocca non sua, se solo ogni battito avesse smesso di riecheggiare la pena di esser di nuovo l'unico a governare quel corpo. Se solo non avesse più avuto un ventre che ad ogni secondo supplicava di esser riempito e gonfiato, rotto da una nuova carne, scomodato da ossa altrui. Se solo ogni cellula avesse taciuto per non rammentarle più di esser diventata la sua nuova prigione, pelle come sbarre sotto cui ragliava il vuoto incarcerato.

Avrebbe voluto esser forte, ma quel desiderio appassiva ogni volta, quando si svegliava con la speranza di sentirlo dentro e ricordava di avere addosso solo l'inferno.

L'ho ucciso io, si diceva, e quel pensiero bastava per farla sentire di spine, sangue sugli aculei, carne marcia nel letto. L'ho ucciso io, balbettava la sua mente, senza che i suoi occhi potessero trovare sollievo nel pianto, come se la morte le avesse sbranato anche quello. L'ho ucciso io, e lacrime come chiodi avvitati nel cuore, fermi lì a bucare le arterie, li ho uccisi tutti io, e gridava in segreto, pietrificava quella condanna tra le trame dei suoi organi interni, ho ucciso il mio bambino.

Non si era più alzata da quel letto, neppure per il fibrillo di un respiro - accovacciata lì, mantide vedova, gli arti intrecciati e la pelle di sabbia, frebile e secca.

Non erano servite a nulla le voci di Amelia e Lily, nemmeno le braccia con cui tentavano di alzarla - su quel letto giaceva la sua anima sporca, intossicata dall'insensatezza di una vita ormai sciolta.

«Edith, ti prego, ti prego, bambina mia...» piangeva Amelia sul suo letto di morte, gli occhi spenti e le dita rafferme, il rimprovero di non poterla guarire da una malattia che non possedeva nome.

«Ce la puoi fare, Edith, ce la puoi fare...» ma persino la voce di Lily abbandonava ogni sua sicurezza, quando entrava nella stanza e a investirla era l'olezzo di pipì e sudore, la visione del suo cadavere abbandonato sul letto come un'isola di detriti sull'orizzonte dell'oceano.

In certe occasioni le sembrava persino di non respirare.

In altre, invece, di aria ne aveva fin troppa - ed era così che Edith tornava a impazzire: mine di rabbia e dolore a esploderle nella testa, la morbidezza del materasso che si dilaniava sotto gli squarci delle unghie.

E il pugno d'asfissia che le esplodeva ogni volta in bocca, quand'erano i suoi denti a ricercare conforto nelle piume del cuscino; sapore di bava e di urla, l'effluvio di una putrefazione che Edith masticava nel proprio letto, bucherellando le federe con il latrato di un mostro - denti e piume, morsi da belva, perché ascoltare le sue stesse urla l'avrebbe soltanto uccisa ancora più a fondo.

Allora Edith si sigillava da sola, chiudeva ogni spiraglio da cui avrebbe potuto grondare la voce - prigioniera nella sua stessa carne, guardia e detenuta della propria coscienza; sviscerava il materasso con le zannate delle labbra, deglutiva e inghiottiva ogni bestemmia, ma tutte quelle grida non avevano fatto altro che agglomerarsi dentro il suo corpo, e graffiavano, pizzicavano, la dilaniavano cercando di uscire, le azzannavano le interiora, le rivoltavano i polmoni da dentro a fuori, si divertivano a bruciare il sangue nelle sue arterie per rendere il suo corpo un inviluppo di fuoco.

«Passerà, Edith, vedrai che passerà» gracchiava Amelia, quando provava a contenerla, a impedirle di uccidersi ancora e nutrirsi delle imbottiture del letto. «Starai bene, bambina, un giorno starai bene.»

Ma era una bugia, o forse un sogno abbandonato agli angoli delle sue labbra rotte dalla preoccupazione.

Edith non stava bene, non lo sarebbe mai stata - Edith aveva una pioggia nel cuore che nessun grido avrebbe mai potuto ammutolire, e cadeva, la pioggia, tormentava la carne, scioglieva le ossa, bucava a pois l'anima e si accumulava nel pianeta vuoto che lui le aveva lasciato nel grembo.

Non avrebbe mai smesso di sentirsi sporca, da quel momento. Un lerciume che lei avrebbe soltanto voluto liberare, per poter accogliere di nuovo la purezza e il lindore con cui lui le era scivolato dentro.

Ma nell'accozzaglia di errori e di macchie, trovava sempre un fungo così tossico da rattrappire lo sporco e renderlo ancor più viscoso, farlo colare dagli occhi, dal naso, dalla bocca, dalle orecchie, per renderla cieca, sorda e morta.

Possedeva un'unica certezza, tanto sola quanto agonizzante.

Sulle sue spalle gravava la più terribile delle condanne:

Esistere in un mondo dove lui non avrebbe mai pianto.

Solo il nauseabondo diluvio di una pioggia che avrebbe scrosciato in eterno nel suo cuore.

La storia di una preghiera in autunno per cui non sarebbe mai arrivata nessuna primavera.

«Mi dispiace» bisbigliava ogni notte, tra intrecci di lenzuola sporche e di arti sudati, «mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace

«Non ho potuto amarti

«Non ho potuto renderti felice

L'ultima volta che aveva visto suo padre era stato quando lui era andato a trovarla, quattro mesi dopo l'inferno.

Edith nemmeno lo aveva sentito arrivare, fossilizzata com'era sul letto della propria stanza, le membra ancora suturate alle lenzuola e le orecchie che sapevano udire solo gli sghignazzi del cielo piangente, la voracità di un lenzuolo di lacrime steso sul mondo.

Era entrato in silenzio, Leonard, volto di ferro anche in un simile momento, ma Edith, presa com'era a morire un po' più a lungo, all'inizio non era nemmeno riuscita a riconoscerlo.

Si era seduto sul bordo del suo letto, non aveva mostrato alcun cambiamento nello scorgere quel viluppo di carne, lenzuola, urina e feci. Fermo, Leonard, silenzioso e austero come sempre, le dita intrecciate e il mento inclinato verso di lei.

«Edith.»

L'aveva chiamata, ma lei non aveva saputo riconoscersi né in quel nome né in quella voce.

«Non puoi continuare a vivere così. Hai bisogno di aiuto.»

Aiuto.

Quella parola le era rimasta incollata alle ciglia, un detrito fastidioso che le inquinava la vista. Aveva provato a scacciarla da sei, ma la macchia con cui le aveva sporcato gli occhi si era sparsa ancora di più, fino a farle vedere soltanto il gigante della memoria.

Tu porti solo morte con te.

«Ti odio» aveva gracchiato alla fine, senza mai guardarlo, senza mai neanche sbirciare nei suoi occhi che, senz'altro, l'avrebbero di nuovo condannata. «Tu sei morto per me. Vattene via.»

«Edith, hai bisogno di aiuto.»

«Vattene.»

Un sospiro da parte di Leonard, nulla di più, e l'istante dopo il suo peso aveva smesso di affossare il materasso.

«Edith, mi dispiace, mi dispiace tantissimo.»

Era stato come morire di nuovo, si era stretta le spalle, aveva lasciato che fosse il cuscino a rubarle le grida, e nel flebile sussurro che aveva preceduto quell'addio aveva mormorato:

«Non avresti mai dovuto mettermi al mondo.»

Lo aveva conservato perché era necessario.

I medici non si erano opposti a quella sua bizzarra richiesta, occhi colmi di pietà, i loro, liquefatti da un moto di tristezza che lei si era sentita colare addosso in una fontana di rimpianti.

Edith nemmeno sapeva perché lo aveva fatto, da quando era tornata dall'ospedale non una volta aveva trovato il coraggio di sfiorarlo o toccarlo. Ancora incatenata alle lenzuola, vincolata da un buio che le stringeva i muscoli ai tendini, che sfrigolava sulla sua pelle secca, si era semplicemente lasciata travolgere dal terrore.

E mai nessuno avrebbe potuto comprendere che tormento fosse per lei, averlo così vicino e al tempo stesso così lontano, in un sottile vincolo onirico che si sfaldava all'ombra di un respiro sconsiderato.

Perché l'inferno per Edith era proprio quello: il residuo abbandonato nel cofanetto; l'atroce incubo di possedere la memoria del loro legame senza però poterla concretizzare.

Eppure, non era riuscita a buttar via quel pezzo. Forse perché ormai la pazzia aveva preso il sopravvento, Edith aveva comunque lasciato il cofanetto nella loro stanza. Non se n'era mai disfatta, nonostante più volte fosse arrivata a pregarlo, come un'anima in pena aveva strisciato e rantolato sulla scia del proprio cadavere.

E non c'era fine a quel tormento, nessun sollievo per la morte da cui era stata rivestita, al contrario lo scorrere del tempo aveva rinvigorito la secchezza della propria esistenza; si era sentita avvizzire come una carcassa sotto il sole cocente, e pian piano aveva iniziato a perdere tutto ciò che le era rimasto.

Non provava più fame, sete, nemmeno la stanchezza. In lei accresceva solamente una creatura fatta di vuoti, che si incastrava e bruciava le arterie, che divorava i capillari, le consumava la voce, le rubava persino il respiro. Masticava, quel mostro, masticava da dentro, la rendeva preda di una follia così pura da riuscire a succhiarle persino i pensieri - l'unico modo che possedeva per ottenere un po' di sollievo era arrendersi a lui e lasciarsi portar via tutto dalla voracità di uno stormo di graffi nel ventre, che urlava morte e torture.

La sua anima era così a pezzi che in tutto ciò che guardava sapeva scorgerne unicamente le lacerazioni.

Solo nella quiete del sogno, quand'erano i suoi occhi a chiudersi moribondi, riusciva a trovare un po' di pace; lo scarto di un sogno che ammutoliva la bestia per qualche secondo.

E sognava lui, lo sognava in un luogo in cui la pioggia non era mai esistita e la speranza aveva baciato il miracolo, sognava di possedere la veste della vita, trovava sollievo nel piccolo bozzo in cui lo aveva lasciato, sotto il tumulto cheto di una favola che aveva ottenuto un finale solo nelle pagine delle sue palpebre chiuse.

Ti amo, ti amerò per sempre.

Sarai felice, lo giuro.

Lui sorrideva, nei suoi sogni. Lui era felice, quando lo trovava nell'abisso della propria immaginazione; non esistevano più limiti né mostri che le impedissero di stringerlo a sé, Edith lo scorgeva lì, smarrito in una fiaba che sospirava miracoli, e fra le radici di tutto il suo sporco finalmente riusciva ad abbracciare il bocciolo incontaminato che le regalava di nuovo il dono del pianto. Tornava a sentirsi di pelle e di carne, ogni volta che lui la guardava con gli occhi del mondo, e di colpo le vene riprendevano ad essere semplici vene, il sangue smetteva di guaire incubi dal gusto di morte - il sorriso di lui guariva ogni squarcio, suturava gli arabeschi delle ferite, non esisteva male che non potesse esser smentito dai bisbigli delle sue labbra.

E com'era bello, lui, com'era meraviglioso dentro i suoi sogni; alto e basso, magro e grasso, dolce e gentile. Era tutto, era niente, era il sorriso che Edith stentava a ricordare. Com'era bello stringerlo a sé, sentire la primavera fiorirle in cuore, com'era paradiso guardarlo negli occhi e scorgere in essi una preghiera fruttata in miracolo.

Ma bastava il sospiro delle palpebre, il tremito delle ciglia che scivolavano in alto, e il mostro ritornava a graffiarle e a mangiarle i pensieri, sfaldare le ferite che lui le aveva cicatrizzato, con più violenza e rancore di prima; perché più i sogni di Edith pulivano e illuminavano le macchie dell'incubo, più la bestia si premurava di sporcarle ancora e ancora e ancora, le inghiottiva e impeciava, le imputridiva fino a far colare da tutti quei graffi una colonia di vermi pronti a divorare la poca carne rimasta della sua carcassa.

Allora Edith aveva pregato, si era lasciata abbandonare dal folle bisogno di vedere il proprio sogno mutare in realtà. Aveva supplicato nel grido muto delle proprie labbra che una volta aver aperto gli occhi lui fosse ancora lì, per baciare tutti i suoi vuoti e foderarli con la propria felicità.

Non avrebbe mai immaginato che un simile e sciocco desiderio sarebbe davvero divenuto reale.

Una notte, una volta che il mostro era tornato a imbeversi di lei, Edith aveva chiuso gli occhi e allora lo aveva sentito.

Pianto, pianto, pianto.

Lacrime, grida, lacrime.

Una voragine che aveva azzittito persino la bestia, un grido neonato che mai le sarebbe appartenuto.

Le era bastato ascoltarlo, solo ascoltarlo, per risentire di nuovo il respiro dar sollievo a tutti i graffi che sanguinavano dentro di lei. Si era sollevata dal letto e tutto il mondo aveva taciuto, l'intero universo di dolori che si era generato nel suo ventre era improvvisamente perito, non appena gli occhi di Edith erano crollati a terra e si erano incatenati al cofanetto.

Lo aveva udito, Edith, lo aveva udito così a fondo che era stato il suo cuore a tremare e a reclamare quel pianto. Se lo era sentito dentro, aveva percepito quelle lacrime caderle in segreto nel petto, bonificare la palude vomitata dalla bestia per renderla un'oasi di sorrisi.

Era scivolata dal letto, ma le sue gambe, abituate a non esser più utilizzate, l'avevano sfracellata per terra; eppure, nonostante questo, lei non si era lasciata frenare. Aveva strisciato, moribonda, le dita aggrappate alle fughe del pavimento, si era arrampicata in quella salita come una balena spiaggiata che tenta di ritornare al suo amato mare, e infine...

Infine le sue mani lo avevano stretto a sé.

E aveva capito, allora.

Aveva capito.

Lui era lì.

Era sempre stato lì.

Lì, nel mondo reale, lì, in mezzo a tutte le ombre e le luci.

Lì, come germoglio fiorito dal livido della morte.

Sono qui, guaiva col suo pianto, sono ancora qui.

Sono qui, mamma.

Mamma.

Edith aveva sorriso.

Aveva sorriso perché finalmente era riuscita a percepirlo, finalmente era tornata ad ascoltarlo. E quanto sciocca era stata a credere che fosse finita, che lui non avrebbe mai più fatto ritorno!

Il pianto del suo bambino, le lacrime che non aveva potuto scorgere il giorno in cui si erano incontrati, finalmente cadevano a pioggia nel suo cuore, rotolavano e strillavano per ricordarle il giuramento segreto che aveva sigillato mesi addietro.

Ti amerò, ti amerò per tutta la vita.

Edith aveva sollevato il coperchio e lo aveva guardato, le labbra martoriate da un sorriso che avrebbe sempre decapitato il mostro, da quel momento in poi.

Ti amerò, ti amerò per tutta la vita.

Non avrebbe potuto esserci nient'altro, se non lui, e ciò che ora giaceva nei palmi delle sue mani ne era la prova più concreta: l'ultimo segreto rimasto, la memoria di un vincolo che andava oltre il sogno, oltre il fruscio di una preghiera abbandonata all'autunno.

Era la catena di carne che li aveva sempre collegati l'una all'altra, quel cordone intrecciato con cui avevano festeggiato l'arrivo di lui, il legame che gli aveva permesso di nutrirsi di lei dal ventre, di mangiare ciò che Edith mangiava, di guardare ciò che Edith guardava, di vivere ciò che Edith viveva.

«Shh» aveva sussurrato lei, dopo aver chiuso il cofanetto ed esserselo stretta al petto. I guaiti del suo bambino, le lacrime che le stava concedendo... la mente di Edith stava trovando il respiro in mezzo all'oceano in cui era stata annegata. «Shhh, va tutto bene, non piangere, amore. Non piangere. Va tutto bene, ora, la tua mamma è qui.»

Il pianto di Michelangelo, il pianto del suo più grande tesoro. Lo aveva sognato così a lungo che ora, nell'udirlo, aveva compreso di esser dentro le sue lacrime.

«Ti amo, ti amo, ti amerò per sempre.»

Non lo avrebbe mai più dimenticato, lei.

Era l'ultima scelta, l'ultima possibilità prima di perderlo ancora una volta: lo avrebbe lasciato entrare così a fondo non poterlo smarrire mai più. Lui avrebbe pulito ogni graffio, medicato ogni ferita, rattoppato ogni vuoto.

Il suo pianto era tutto ciò di cui aveva bisogno, sarebbe grondato su tutte le macchie fino a farla sentire di nuovo pulita.

Nemmeno la morte avrebbe potuto separarli di nuovo.

Sarai felice.

Sarai felice, io ti renderò felice.

Anche a costo di perdere tutto il resto del mondo.

Anche al prezzo di esistere solo per lui.

Aveva pensato che la pioggia può esistere ovunque, scavare nel ventre, lapidare le ossa, ma che ci sarebbe sempre stato un luogo in cui non l'avrebbe mai raggiunta - lacrime che non avrebbe potuto nascondere, nemmeno ad Edith che più non ne possedeva.

Perché alcune lacrime possiedono nomi, li custodiscono nella culla della loro trasparenza, per pulirli dallo sporco della vita che li ha contaminati.

Alcune lacrime possiedono nomi, e l'unico modo che Edith aveva di ricordare il proprio era riscoprendolo dentro il pianto del suo bambino.

E mai più, mai più, qualcuno glielo avrebbe rubato, mai più avrebbe permesso che glielo portassero via ancora una volta.

Lei non era più niente, lei non sarebbe più stata niente - lei viveva per lui e per il suo dolore, lei tornava ad essere di carne e di ossa solo quando era lui a chiamarla col suo vagito neonato.

Sarebbe marcita, si sarebbe consumata sempre un po' più, di lacrima in lacrima, di pianto in pianto; il suo nome sarebbe sbiadito pian piano in mezzo al nubifragio di quel singhiozzo, pulito così a fondo da non possedere più lettere.

E lo sapeva bene che quel gesto era pura follia. Lo sapeva bene che aggrapparsi a quell'inganno avrebbe soltanto rallentato il deterioramento dei suoi pensieri, ma era tutto ciò di cui aveva bisogno. Che l'avvelenasse pure, quel sogno. Che quelle lacrime la intossicassero pure come gocce di cianuro, ad ogni modo lei non le avrebbe più abbandonate, le avrebbe cullate in punta di dita, lasciando che le marcissero la carne e la pelle, che scivolassero nelle ossa in corridoi d'echi suicidi.

Ma non importava, non le sarebbe mai più importato.

Pur di tenerselo dentro, pur di poterlo conservare ancora una volta nel cuore pulsante, da lui si sarebbe fatta portar via volentieri, da sillaba a sillaba.

Lei che nemmeno riusciva più a piangere.

Lei che non possedeva più due occhi con cui sentirsi umana.

Se per averlo al suo fianco avrebbe dovuto rinunciare al mondo intero, lo avrebbe fatto. Se l'unico modo per non uccidere ancora era che fosse lei e soltanto lei a morire, allora si sarebbe lasciata mangiare volentieri dal veleno di quell'illusione, per non perire da sola, per avere il pianto di Michelangelo a ricordarla fino a quando non avesse smesso d'esistere.

Era l'unico modo, la sua ultima possibilità di potersi sottrarre alla maledizione.

Lo avrebbe lasciato cadere così dentro di sé che nemmeno la morte avrebbe più saputo dove trovarlo.

Non esisteva paradiso migliore per Edith di una lacrima in cui avrebbe potuto svanire, sciolta dal canto del proprio figlio.

«Va tutto bene, amore mio, va tutto bene. La tua mamma è qui ora.»

«La tua mamma ti amerà per tutta la vita.»

«Non piangere amore, non piangere più. Te lo prometto, sarai felice, qui con me sarai felice, io ti renderò felice






Nota autrice

Perdonatemi, questo capitolo è lunghissimo, ma non ho avuto cuore di dividerlo, avevo la sensazione che facendolo ne avrei rovinato la natura.

Non ci sono stati sviluppi di trama a livello narrativo, ma questo capitolo è forse il più importante di tutti all'interno della storia. Qui ho voluto - almeno, ho tentato di - mostrare la fragilità di Edith, il mostro di dolore che lei tiene stresso, come unica prova dell'amore che la lega al suo bambino.

Uno dei punti principali di questa storia, uno dei fulcri più essenziali, è l'analisi di come ognuno di noi affronta il dolore a proprio modo. Non esiste né giusto né sbagliato, in questo caso, ma solo anime che si spezzano in modi diversi.

Edith è quel genere di persona che non rinuncia alla propria sofferenza, benché sia consapevole che sia sbagliato. Lei sa che aggrapparsi così al passato la può solo rovinare, sa che avvinghiarsi in questo modo a un fantasma non è che un veleno, eppure ha deciso di farlo lo stesso.

Credo che ognuno di noi abbia dei dolori che fatica a mostrare, sofferenze così segrete da non riuscire a rivelarle ad altri. Perché per quanto ci possano far star male, per quanto ci facciano soffrire, quelle sofferenze sono l'unica chiave con cui riuscire a ricordare l'amore che le ha provocate.

E così è Edith, Edith che non si arrende alla morte, che decide anzi di accettarla così dentro da non poterla più nemmeno sentire.

Scrivo questo capitolo da mesi, dagli inizi della storia, perché sin da subito avevo compreso quanto sarebbe stato rilevante per poter capire fino in fondo Edith. Perché lei non è semplicemente una donna egoista e arrogante, è sì squallida per certi versi, così come è iraconda, ma lei è... molto più, oltre che questo.

Spero... Spero davvero, con tutto il cuore, di esser riuscita a mostrare questo suo altro lato, questa sua fragilità. Spero che sia riuscita anche a spiegarvi perché Edith abbia reagito con Timmy in quel modo, quando lo ha visto stringere il cofanetto.

Ricordate?

Alcune lacrime possiedono nomi.

Ed Edith non ha più un pianto con cui poter ricordare il proprio.

P.s.

Nei file multimediali ho aggiunto la canzone 'hurts like hell'. È la colonna sonora perfetta per scoprire l'amore e la sofferenza di Edith.

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