Arrenditi
Capitolo sette
Arrenditi
Quando era bambina, aveva capito di non poter far altro che arrendersi.
Arrendersi alla vita che non poteva cambiare, alla sofferenza che le era stata buttata addosso e all'amore che non avrebbe mai ricevuto.
Lo aveva compreso quando forse non avrebbe dovuto. Ricordava ancora il sapore di quel dolore, le lacrime che le avevano riempito le guance e scavato le labbra e le preghiere rivolte a un Dio in cui presto avrebbe smesso di credere.
Giorni interi passati rannicchiata nel suo letto, mentre sperava di diventare abbastanza forte e coraggiosa da riottenere quel padre che l'alcool le aveva rubato; le notti insonni trascorse ad ascoltare i respiri pesanti di lui, il tintinnare cristallino delle bottiglie di vetro che rotolavano per terra, scontrandosi fra di loro, e le grida basse dell'uomo che un tempo le aveva baciato la fronte, per confortarla e rassicurarla durante i temporali che tanto la spaventavano.
Quanto tempo sprecato a sognare che il suo nome diventasse eco di speranza nella mente annebbiata di lui, che il suo volto fosse scorto nel fondo del bicchiere di whiskey da quegli occhi lucidi per l'alcool.
Così, alla fine, aveva ceduto.
Si era arresa.
Non avrebbe combattuto ancora, perché sapeva che mai avrebbe vinto quella guerra impari contro l'alcool. Avrebbe sempre perso, sarebbe sempre venuta dopo l'ebbrezza e la piacevolezza del non pensare.
Tu porti solo morte con te, Edith.
Edith aveva accolto anche quelle parole, le aveva fatte sue, le aveva intrappolate e custodite nei respiri e nei battiti; erano la sua unica certezza, l'unico dolore a cui aggrapparsi e dentro cui affogare. Le custodiva gelosamente, insieme alle altre sofferenze che si erano aggiunte col passare degli anni e che ora le implodevano nel petto, bruciandole il cuore.
Era stato solo in quel modo se era sopravvissuta anche alle altre tragedie, alle conseguenze della sua maledizione.
Quel giorno, tuttavia, il desiderio di lottare e combattere tornò prorompente a corroderle le vene. Avvenne all'improvviso, senza che potesse in alcun modo fermarlo: il suo sguardo cadde su quel giovane che tanto disprezzava e allora se ne accorse. Si accorse di tutto.
Il ragazzino l'aveva guardata e aveva capito: aveva capito il dolore che celava, la sofferenza che custodiva gelosamente, e se n'era in parte appropriato.
Si era intrufolato nei suoi occhi e le aveva rubato le lacrime che non si era concessa.
L'ira gonfiò il suo petto, il fumo soffocò i polmoni e lei si sentì nuda e spoglia, privata della sofferenza di cui si era rivestita per proteggersi e addormentarsi. Ladro! avrebbe voluto gridare, Sei un ladro! Solo un ladro! Ridammi ciò che mi hai sottratto!, ma la voce era consumata dalla paura.
«Miss Morrison...»
«Cosa diavolo vuoi?»
Non era sua intenzione urlare in quel modo, aggredirlo con quelle parole che credeva aver sigillato dentro di sé, eppure queste, incuranti del suo volere, erano esplose dalla bocca, deturpandole il viso.
Il ragazzo di fronte a lei sussultò, stringendo al suo petto il gattino che non aveva smesso di miagolare nemmeno per un istante. Edith strinse con forza la mascella, sentì lo stridere dei denti sibilarle nelle orecchie, ma, nonostante ciò, il dolore non scomparve, così come non scomparve il desiderio di lottare per riappropriarsi di ciò che le era stato sottratto.
Lui, così stupido e infantile, era ancora fermo, lì, del tutto ignaro della pugnalata che le aveva appena dato allo stomaco. Quel volto glabro e innocente la guardava ferendola a ogni battito di ciglia, perché dietro quelle palpebre tremule non si nascondeva la pietà che Edith tendeva a ignorare, bensì la comprensione che da sempre ripugnava.
«Timothy, Miss Morrison» balbettò alla fine il ragazzo, chinando il capo per terra mentre le sue guance si riempivano di fuoco, «mi chiamo Timothy Barlow, non ragazzino.»
Timothy.
Quel nome le spalancò le labbra sigillate e irruppe in esse, scivolò lungo la gola, cadde nello stomaco e lì rimase, umiliandola con gli echi con cui faceva risuonare le sillabe che andavano a comporlo.
Avrebbe preferito non saperlo, non udirlo mai. Lei, che di vite ne aveva recise fin troppe, era terrorizzata all'idea di spezzare di nuovo qualcuno, di conoscerlo quel tanto che bastava per distruggerlo come aveva fatto in passato. Non voleva attribuire un nome a quel volto tondo, non voleva un legame che la vincolasse a quell'essere umano, il suo unico desiderio era smettere di far tutto, dimenticare chiunque tranne lui.
Così fece l'unica cosa che poteva e sapeva fare: odiò, con tutta se stessa, con lo sguardo e con le parole. Fra sghignazzi che le vennero terribilmente naturali domandò, infine: «Timothy? Non ti chiamavi Pandino?»
Sapeva di aver colpito un punto debole, di aver scoccato la freccia della rabbia su una ferita ancora aperta. Era evidente a occhio nudo il motivo per cui quel ragazzino era chiamato in quel modo dagli amici: era basso, tarchiato e la sua dolce espressione ricordava quella di un panda. Probabilmente quel soprannome gli era stato dato per enfatizzare la sua dolcezza, ma Edith, che di gentilezza non possedeva più niente, lo usò come arma per umiliarlo e disprezzarlo e di questo lui se ne accorse.
Timothy incassò il colpo stringendosi nelle spalle, il gattino fra le sue braccia si aggrappava quasi con furia, con le sue unghiette, al maglione a quadretti di lui. Quel micio miagolava più che mai, la guardava con gli occhi disperati, quasi a volerla reclamare a sé affinché lei lo cullasse e coccolasse.
La nausea risalì nella sua gola, ebbe voglia di vomitare per l'ingiustizia di una simile situazione.
«I miei... I miei amici mi chiamano così, ma preferirei che lei mi chi-»
«Ah, quindi hai davvero degli amici oltre a quel pervertito che mi ha dato della vecchietta?» Perché? Perché parlava in quel modo? Da quando era diventata una persona capace di spaventare così tanto un povero e ingenuo ragazzino? Non lo sapeva, non se lo ricordava più. «Sono sconvolta.»
Non voleva che la guardasse in quel modo, doveva smetterla di frugare dentro di lei per ricercare quel lato umano che Edith stessa stava disperatamente cercando di perdere. «Miss Morrison...»
«Non devi iniziare a lavorare, ragazzino?» Buttò il mozzicone della sigaretta per terra, ormai stanca di stringerlo fra le labbra se non poteva più consumarlo. Lui sussultò, Edith scosse ancora il capo. «Per la bestia troverai tutte le indicazioni del veterinario sull'isola della cucina, quindi muovi quel culo.»
«Miss Morrison, aspetti, la prego» gracchiò lui, l'ira collimò ancora, annebbiandole i pensieri. Edith si domandò se fossero queste le emozioni che suo padre aveva provato ogni volta che lei si era approcciata a lui; quando scorse il riflesso del suo viso sulle vetrate appannate del soggiorno, si rese conto che sì, era proprio così. Il suo ero lo sguardo che l'uomo le aveva riversato addosso quel fatidico giorno, nei suoi occhi ritrovò lo stesso disgusto e la stessa rabbia.
Tutto ciò rischiò di farla crollare ancora.
Tu porti solo morte con te, Edith.
«Miss Morrison, non mi ha detto niente a proposito di questo lavoro. Quante ore al giorno dovrò rimanere? In quanto tempo vuole la casa pulita? E come...»
«Ah?» Edith si voltò verso le scale che conducevano al primo piano. Avrebbe voluto fiondarsi su di esse, raggiungere il luogo in cui lui la stava aspettando, ma sapeva di non poterlo fare. Non poteva permettere a quel ragazzino di scoprire l'esistenza di quel posto. Lui era solo e soltanto suo. «Non lo so, ragazzino, che vuoi che me ne freghi di quanto tempo ci impieghi? A me basta che la casa ritorni pulita.»
«Ho capito, ma non c'è un minimo di organizzazione...»
«Ehi, bamboccio, penso che tu sia intelligente quel poco che basta per capire che io, di organizzazione, non ci capisco un cazzo. Non ti è bastato vedere le condizioni in cui vivo per intuirlo? O sei davvero così stupido?»
Il miagolio di quel gatto era il ronzare di un'ape vicino all'orecchio, la infastidiva, le dava sui nervi, non riusciva a tollerare quel verso così disperato, le squarciava il petto; più lo ascoltava più sentiva il respiro corroderle i polmoni. «Fa' tacere quella bestia, subito!» strillò alla fine, non riuscendo più a trattenersi.
«Ma, Miss Morrison...».
Arrenditi, le gridava il cuore, arrenditi a questo dolore, accettalo come sempre hai fatto.
Forse, se avesse ceduto ancora, suo padre sarebbe stato orgoglioso di lei. Forse, nel vederla in quello stato, avrebbe riso e si sarebbe sentito soddisfatto.
«Miss Morrison...»
«Ancora? Si può sapere cos'altro vuoi?»
Il ragazzino sobbalzò ancora, quando lei si voltò a guardarlo, pronta per sputargli contro tutto il veleno che la stava uccidendo. Fu allora che lo vide e la realtà dei fatti le si abbatté contro, travolgendola in un mare di sensi di colpa che mai, mai avrebbe voluto conoscere.
Lui era così timido, così impacciato nel suo corpo basso e grassottello. Le guance paffute, pulite e lucide, tremavano per l'insicurezza che stava provando in quel momento; le braccia stringevano con affetto materno quel gattino che, ancora adesso, cercava di uscire fuori dalla stretta del giovane per gettarsi a capofitto su di Edith.
Odiava Timothy così tanto che quasi se ne spaventò. L'invidia che l'accecava la rendeva stupida e maledetta, una strega che non meritava più mani con cui esser guarita.
«Ascolta» gracchiò alla fine, chiudendo gli occhi. Le palpebre le vibravano per la furia con cui stava cercando di non guardare quelle due figure, per lei così dolorose anche solo da percepire vicino. «Francamente parlando, non voglio avere nulla a che fare con te o con quella bestia. Meno ti vedo e più sarò contenta. Fidati, è meglio anche per te. Non me ne frega niente di come gestirai questa casa, te l'ho già detto.»
Era ovvio che il bambino fosse così timoroso nei confronti di quell'incarico: la sua dimora era un castello di sporcizia e lei era la peggior datrice di lavoro del mondo. Non poteva certo biasimarlo se ora, in quegli occhi così caldi, intravedesse incertezze e terrori. «Ascolta, ragazzino, vedila così: se entro la fine del mese la casa avrà di nuovo un aspetto decente, potrei persino considerare la possibilità di aumentare lo stipendio a milleduecento dollari.»
Aveva colpito nel segno, lo sapeva, lo intuì dal modo in cui lui sollevò lo sguardo, finora rimasto per terra per colpa dell'imbarazzo.
Quel ragazzino era alla disperata ricerca di soldi, non ne comprendeva il motivo, non le interessava nemmeno, ma per convincerlo a lavorare per lei era disposta a tutto. Aveva bisogno di allontanare Amelia dalla sua vita, una volta per tutte, e lui era l'unico a cui avrebbe potuto offrire quel lavoro con la certezza che non vi si sarebbe mai affezionata.
«Può assicurarmi che me li darà?»
Quella domanda la sorprese, il bambino era senz'altro in grado di rispondere quando si trattava di argomenti che lo interessavano.
«Certo che te li darò» rispose lei alla fine, scrollando le spalle. «Ragazzino, una delle poche cose su cui puoi star certo è che non mi mancano i soldi. Sono sempre stata una schifosa, ricca viziata.» Pronunciare quelle parole provocò tremende fitte al suo stomaco già dolorante, Edith sigillò le braccia al petto, si sentì sporca dentro quanto lo era fuori. «Perché non facciamo così, allora? Se a fine giornata la cucina tornerà ad avere un aspetto decente, otterrai cinquecento dollari in contanti come premio. Così tu sarai sicuro che io dispongo dei soldi che ti servono, mentre io potrò esser tranquilla sul fatto che te la cavi con le pulizie. Allora?»
Si domandò se fosse questo ciò che provava un diavolo tentatore, mentre suggeriva malignità alla sua vittima designata.
Timothy Barlow deglutì rumorosamente, il suono di quel singhiozzo spezzato riecheggiò fra le pareti insieme ai piagnistei di quell'inutile gattino. Edith odiò il modo in cui i suoi occhi si aggrapparono al volto di lui, andando a cercarne l'innocenza, invidiandone il sorriso con cui l'altro le rispose. Un sorriso gentile, delicato.
Un sorriso stupido.
«Accetto.»
Avrebbe dovuto voltarsi, rivolgersi verso la porta vicino alle scale e entrare nell'atelier dove avrebbe ucciso i suoi demoni con le pennellate di colore, ma rimase, invece. Il suo corpo era bloccato nel soggiorno, incastrato fra le dune di spazzature e i tappeti di sigarette consumate.
«Molto bene» gracchiò infine, la sua voce il rumore della ghiaia calpestata. Si sgranchì le braccia, girò il capo, osservò tutto fuorché lui, dubitava di riuscire a incontrare ancora quegli occhi così caldi senza impazzire o esplodere. «Io dormirò qua in soggiorno. Mi raccomando, ammutolisci quel gatto. Se mi sveglio per colpa dei suoi stupidi miagolii, non avrò pietà né per la bestia né per te.»
Percepì il corpo di lui sussultare per l'ennesima volta, sconvolto, ma non si lasciò trascinare da quelle emozioni. Osservò il divano in pelle nera, un divano sopra cui, un tempo, aveva rimbalzato insieme a Henry e Amalia; era il luogo sopra cui aveva celebrato il suo primo quadro, circondata da quelle due figure che erano riuscite a riempire il vuoto lasciatole dall'abbandono di suo padre.
Ora, in quel frammento di vita, c'era solo la sepoltura dei suoi vecchi vestiti.
Li scansò, li gettò sul pavimento già sporco con la furia che le incideva il cuore, rivelando il lenzuolo di polvere che ricopriva quel mobile, la cui pelle nera era ormai rovinata dalla trascuratezza degli anni.
«Qui? Vuole dormire qui? A quest'ora?»
La voce del ragazzino era piena di preoccupazione, così timidamente insicura, le riecheggiava in testa e le divorava i respiri. Avrebbe voluto solamente silenziarla, cancellarla per sempre dalla sua vita.
«Bamboccio, questa è casa mia se non sbaglio. Faccio quello che mi pare. Chi diavolo credi essere per pensare di potermi fare la paternale?»
Gli dava le spalle, ma riuscì comunque a immaginarsi la vergogna che sicuramente aveva scavato gli occhi di lui. Lei intrappolò il fiato nella gola, impedendogli di uscire e di entrare. Desiderava con tutta se stessa smaltire quell'aria per assaporare, anche se solo per un istante, il sollievo di non dover più esistere.
Timothy Barlow non parlò più, Edith si sdraiò con difficoltà su quel divano. Quel mobile era ormai troppo grande per lei e le dolci memorie che conteneva troppo piccole perché compensassero le lacrime asciutte della donna.
Reclinò la testa sul bracciolo, percepì la polvere sfiorare la pelle della guancia, un tocco quasi vellutato su quella carne che avrebbe solo voluto strapparsi di dosso.
Quel sofà profumava ancora dei momenti che avevano trascorso insieme. A ogni respiro Edith riusciva a percepire il calore di Henry, le carezze di Amelia, le risate di entrambi mentre lei, con orgoglio, mostrava loro il suo primo schizzo.
"Arrenditi", le sussurrava il cuore, voce della verità perduta. "Non lottare, non combattere, ormai è inutile. La maledizione vincerà sempre. Arrenditi."
Con gli occhi socchiusi osservò ciò che aveva davanti: un ragazzino spaventato che si guardava attorno. Com'era innocente, com'era pacato, persino in quel vestiario ridicolo che indossava sembrava un bambino alle prese col suo primo compito in classe. Il volto sudato e gli occhi confusi, e quel gattino, quella maledetta creatura, che non la smetteva di volgere lo sguardo nella sua direzione, alla ricerca delle carezze che lei mai gli avrebbe concesso.
Chiuse gli occhi, si privò di nuovo del respiro, così da dimenticare e ignorare per sempre.
Dimenticò, Edith, dimenticò tutto e lasciò che del vestito della sua memoria ne rimanesse solo il drappeggio.
Si arrese, proprio come sempre aveva fatto. Si arrese alla vita che non desiderava e alla realtà che le era stata concessa. Si arrese e non pianse, si arrese e neanche gridò.
Non aveva più posto per le lacrime, la pioggia le aveva portato via anche quelle.
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