Amare con parsimonia (parte uno)
Amelia arrivò nel giro di pochi minuti, ma la sorpresa di Timmy nel vederla giungere a villa Morrison così in fretta fu ben presto sovrastata da quella che lo travolse quando notò da chi era accompagnata l'anziana.
Il professor Sawyer.
Entrarono in un turbinio di pioggia, entrambi madidi di sudore, con gli occhi di chi sa prima ancora di aver visto. Amelia più di chiunque altro aveva il corpo affaticato, le rughe sul viso così contratte da sembrare un cespuglio.
«Dov'é?»
Raggiunse Timmy tra passi fiacchi e sguardi terrorizzati, con la mano agganciata al pomello del bastone per sostenersi. E tremava, Amelia, tremava e si rompeva dentro, dalle pupille scrosciavano fiumi di preoccupazioni che le stracciavano la pelle sgualcita.
«Dov'é la mia bambina?»
Timothy faticava a parlare, i suoi pensieri erano così incollati fra loro da impedirgli di individuarli. Non aveva voce né emozioni dentro di sé, a succhiargli il respiro erano le fauci di rancore di Edith, ancora attaccate viscidamente alla sua pelle - zanne incastrate nella carne, e il fiato come bruma arroventata nello stomaco.
«Signorino Barlow.»
Un tocco caldo, gentile, lo strappò via da quella tormenta. La mano del professor Sawyer giaceva flaccida sulla sua spalla, agganciata al tessuto della maglia con una presa da guanto, morbida, pacata.
«Signorino Barlow, si calmi, la prego.»
E nel maremoto di quella devastazione, la voce del professore parve l'unica cosa ancora ferma in quel mondo disastrato: sciolse i nodi che avevano inguaiato la sua voce, glieli slegò con la delicatezza di un bambino. Timmy lo guardò negli occhi, e vide Edith nel suo sguardo grigio, la vide seppellita sotto un animo di brace, caldo ma non ustionante, delicato ma non superfluo.
«Edith è... nella stanza... nella stanza... del bambino.»
Dal modo in cui reagirono, gli parve subito chiaro che entrambi avevano già immaginato quella risposta. Il corpo di Leonard si irrigidì, la presa della sua mano sembrò liquefarsi sulla spalla di Timmy, e l'uomo chiuse gli occhi con meccanicità, forse per ingoiare nella gola delle pupille tutto il dolore che non riusciva ad esprimere.
Amelia, al contrario, reagì d'impulso; aveva sangue al posto degli occhi, un'imbracatura di sofferenze addosso alla pelle del viso. Guardò Leonard in silenzio, sussurrandogli segreti inudibili a Timmy. «Vado io» disse, con voce da imperatrice. E il fuoco in ogni sillaba, ardente miasma di ansie.
Leonard annuí, in silenzio. «Non deve vedermi» fu la risposta che le diede. «Non dirle che sono qui.»
«Tu sei il primo che dovrebbe starle accanto.»
Non glielo rinfacciò con odio o disprezzo, glielo mormorò con rammarico, le palpebre socchiuse per guardarlo senza giudizi.
Leonard non si mosse, per qualche secondo, e solo dopo qualche istante Timothy realizzò che, adesso, la mano sulla sua spalla aveva iniziato a tremare. «Peggiorerebbe soltanto, se si accorgesse della mia presenza, lo sai.»
«La codardia l'ha presa tutta da te.»
Il professor Sawyer accusò simili parole senza rispondere, ma non nascose la vergogna che gli si incagliò fra le spalle, irrigidendogliele fino a spezzarle.
Amelia sospirò, senza aggiungere altro, e salì in fretta le scale che conducevano al primo piano. A Timothy, in realtà, quanto appena assistito non interessava, il nucleo di tutta la sua preoccupazione bruciava il nome di Edith, della donna che ancora adesso lanciava guaiti inumani dalla stanza proibita, versi animaleschi che nemmeno la porta chiusa riusciva a soffocare.
Si staccò dal professore e seguì Amelia senza dire una parola, osservò l'anziana signora abbassare la maniglia e schiudere l'uscio con un coraggio da soldato. Ma subito scorse la guerra ucciderle l'anima, quando lo sguardo le cadde nella stanza.
Ed Edith era lì, inginocchiata per terra alla base del letto. Era lì, eppure non lo era, ciò che giaceva sul pavimento era un groviglio di carne e ossa, muscoli e nervi, acquattato addosso il cofanetto del peccato, agganciato ad esso come un polmone alla gola.
E non c'era niente d'umano, in quella creatura, nulla che potesse far pensare a una donna, solo una fragile essenza rinchiusa in un costume di carne, fonte di versi abominevoli, prodotti mentre si dondolava in su e in giù, in giù e in su, sempre, continuamente, ripetutamente.
Vederla così fu un'altra tortura, guardarla senza poterla trovare; non poterla riconoscere in nulla, nemmeno nella voce che ora strisciava fra le pareti, che gli segava il cuore.
Eppure Amelia entrò lo stesso nella stanza, entrò lo stesso e avanzò con calma. Timothy non aveva idea di come ci fosse riuscita, non aveva mai visto così tanto coraggio nel corso della sua intera vita. A fatica riusciva a reggersi in piedi, mentre fissava la tomba della donna di fuoco, e Amelia invece le andava incontro, benché sembrasse morire ad ogni passo che compieva, benché paresse sul punto di perdere il cuore quando si inginocchiò davanti alla creatura che più non era sua nipote.
«Bambina.»
La pioggia dell'inverno tamburellò sulla sua voce, bucò la stanza in una cascata di ombre a spillo, ma Amelia continuò, non si arrese nemmeno per un secondo, fissò la madre morta ai piedi del letto, quel bitorzulo moribondo così avvinghiato al cofanetto, e le sorrise. Un sorriso così sofferto che Timmy sentì di star guardando l'inferno.
«Bambina, ehi, piccola mia, mi senti?»
Edith però non rispose, continuava a dondolarsi, stretta in sé stessa, costruita soltanto per perdere pezzi.
«Tesoro, mi senti? Mi senti?»
Lei continuò a fare in su e in giù, in giù e in su, un'altalena di membra con occhi da bambola, così vuoti da sembrare di vetro.
«Me lo voleva portare via, me lo voleva portare via, me lo voleva portare via.»
Un bisbiglio ripetuto, il frammento di una voce talmente sottile da infilarsi con codardia nelle orecchie di Timmy, per poi esplodergli in testa quando realizzò che quel che era rimasto di Edith stava parlando proprio di lui.
«Shhh, va tutto bene, tesoro, shhh, sta' tranquilla.»
Edith non avrebbe mai potuto accorgersene, rotta com'era, non avrebbe mai potuto notare, come invece fece Timmy, il tremore delle dita di Amelia mentre le carezzavano il volto, o le lacrime che l'anziana nascose tra le ciglia, quando le baciò la fronte in silenzio.
Fa male, fa troppo male, pulsavano i sentimenti di Timmy, eppure lui non riusciva a smettere di guardare. Continuava a fissare quella scena e a sentirsi incancrenire ad ogni secondo che passava, e più Amelia provava a far rinascere Edith in quel cadavere, più Timothy deglutiva lacrime giganti quanto pianeti.
«Edith, tesoro, va tutto bene. Nessuno ti vuole portare via il tuo bambino.»
«Lo ha fatto piangere, lo ha fatto piangere, sta piangendo, sta piangendo.»
Amelia sorrise, ancora, di nuovo, sorriso da angelo della morte, ormai abituato ad abbracciare solo cadaveri. «Ma no, bambina, cosa dici? Guarda, sta dormendo. Il bambino sta dormendo. Lo hai cullato così tanto che ora si è addormentato. Non piange più, vedi?»
E fu lì che Timmy comprese perché Amelia non fosse sembrata così sorpresa nel sapere ciò che era successo, perché sorridesse in quel modo.
Perché non esisteva salvezza per Edith, non esisteva redenzione, lei affogava e s'inabissava nell'oceano della propria follia, lo faceva da chissà quanti anni, lo faceva da chissà quanto tempo.
Non esisteva salvezza per Edith, lei non l'avrebbe mai chiesta, e l'unico modo per poterle stare accanto era entrare nel suo stesso inferno, accettare i miraggi che lo infervoravano, mischiarli nella propria realtà fino a vederli di persona.
Suicidare la propria anima assieme a quella di lei, un sacrificio necessario per poterla stringere ancora una volta.
Timothy aveva voglia di vomitare, adesso, o forse di gridare, o forse ancora di correre da Edith e stringerla e supplicarla di tornare indietro, di riprendere ad odiare e ad odiarsi, perché tutto sarebbe stato meglio piuttosto che non averla affatto.
Tuttavia, tacque. Rimase immobile, paralizzato lì all'ingresso della porta. Tacque senza poter fare nulla, tacque e la guardò in quegli occhi da anima squarciata, la guardò mentre sollevava lo sguardo e lo rivolgeva ad Amelia, con una nuova, ennesima luce di follia ad implodere nelle nuvole grigie.
«L'ho fatto addormentare?»
Pose quella domanda con voce trepidante e un sorriso da bambina, felicità nel cuore e morte dentro la carne.
E Amelia sorrise di nuovo, le carezzò ancora il viso, buttando dentro il tornado di sussulti che ora travolgeva anche Timmy, nascondendo alla nipote tutta la paura inabissata dentro le spalle. «Sì, bambina, ora dorme, vedi? Non piange più. Lo hai fatto addormentare. Sei una brava mamma, sei una mamma bravissima.»
La luce che agghindò il viso di Edith poteva appartenere solo al demonio.
Non è normale, latravano le ansie di Timothy, e lui la fissò ancora, non è normale, ed Edith gioì e brillò come una stella, non è normale, e baciò il cofanetto, travolta da una felicità da bambina, non sta bene, e Amelia la strinse a sé, quella non è Edith.
Non era che una madre ancora incatenata al miraggio di poter crescere il proprio bambino.
«Sono una brava mamma, vero?» Voce da bambola. «Sì, io sono una brava mamma, vero?» Voce da fantasma. «Io lo rendo felice, lo giuro, io sono una brava mamma, lo rendo felice, perciò non me lo portate via di nuovo, per favore. Non portatemelo via, perché lo renderò felice. Giuro che lo renderò felice.»
«Ma certo che non te lo porteremo via, tesoro.» Amelia la baciò di nuovo sulla fronte, e chissà quante lacrime stava consumando ora il suo cuore, perché Edith non le notasse negli occhi. «Il bambino è felice e sta dormendo. Non sei una mamma cattiva, non lo sei mai stata.»
Edith sorrise, il sorriso di una belva, di una bambina che più non sapeva distinguere la fantasia dalla realtà.
«Però, tesoro, seduta qui ti ammalerai. Perché non ti sdrai un po' sul letto?»
«Non posso, no, no, no. Non posso. Lo sveglierei.»
«No, tesoro, non lo sveglierai. E inoltre, se ti ammalassi, poi rischierebbe anche lui di star male. Riposa un po' sul letto, dormite assieme. A te piace dormire con lui, no?»
Edith annuí, Timmy crollò dentro, Edith sorrise, Timmy bruciò in un incendio.
Poi di nuovo una mano sulla sua spalla, e quando si voltò realizzò di star piangendo.
Il professor Sawyer era di nuovo accanto a lui, la faccia di latta, intraducibile, eppure negli occhi strisciavano incubi bui, nutriti dalla visione di sua figlia che si sollevava e si sdraiava sul letto a fatica.
«Vieni, ragazzo» lo sentì dire Timmy, «non dovresti guardare.»
Timothy non aveva idea di cosa dirgli, ma non riuscì a controbattere. Il suo corpo seguí quello del professore prima ancora che potesse domandarsi se fosse la cosa più giusta da fare.
Eppure, nell'abisso di quell'incubo, proprio mentre si stava muovendo, Timmy assistette a quello che, ai suoi occhi, apparve come un miracolo.
Vide un batuffolo bianco, una nuvola a quattro zampe, comparire da chissà dove. Scivolò sinuoso lungo le scale, leggiadro più del silenzio, o forse lui stesso silenzio.
Il gattino non miagolò, non disse una parola, quasi sapesse, quasi avesse da sempre saputo, e corse a zampe acquattate dentro la stanza come uno sbuffo di vento.
E in una magia dal sapore materno, Timothy lo vide balzare sul letto su cui ora Edith giaceva come un corpo di spazzatura.
Lo vide come un figlio che, dopo aver a lungo ricercato la madre, gioiva in silenzio per averla finalmente trovata.
Lo guardò addormentarsi sopra i piedi di lei, con una delicatezza tale da uccidere il mostro che ora la stava divorando.
E di colpo Edith smise di tremare.
***
Per una buona mezz'ora, Timothy non parlò.
Rimase a fissare la tazza ora non più fumante di cioccolata calda, materializzatasi chissà quando davanti ai suoi occhi.
Faticava persino a ricordare come ci era arrivato, in quella tavola calda, se con la sua macchina, quella del professor Sawyer o a piedi.
Sapeva solo di essere lì, seduto davanti a un tavolo di legno, a fissare una stupida tazza di cioccolata calda e ad esser fissato a propria volta dal suo professore di filosofia contemporanea.
Dentro lo stomaco avvertiva l'oscurità, un intero universo sconosciuto che gli strappava via le emozioni, che lo ammanettava sulla sedia, tremante e confuso.
«È stata colpa mia.»
Quelle parole gli uscirono di getto, in un graffio di lacrime negli occhi, e quando chinò lo sguardo, sentì il volto glaciarsi sotto il getto del pianto.
«È... È stata colpa mia» ripeté, e la voce sboccò dalla gola con uno zampillo di fuoco. «Mi aveva detto... mi aveva detto di non entrare in quella stanza, e... e io... l'ho fatto lo stesso, io non-»
«Togliti quel pensiero dalla testa prima di subito.»
Un ordine grezzo, quello del professor Sawyer, violento e spaventoso. Colpì Timmy come uno schiaffo sulla guancia, bruciò sotto la pelle e lì rimase, ad affumicare ogni vergogna.
«Timothy, Edith non sta bene.»
Era la prima volta che lo chiamava per nome. Mai, mai lo aveva fatto prima d'ora. Il professor Sawyer era ben noto a tutti per mantenere la professionalità in qualsiasi contesto, era tanto rigido quanto signore, rispettoso di fronte a qualunque persona, che fosse uno studente o un suo collega.
Eppure, adesso, lo aveva chiamato per nome, e non per tranciare quella forma di sacrale decoro che avrebbe riservato a chiunque, al contrario fu quasi per reguardirlo, per dimostrargli che era ormai così inguaiato tra le trame della vita di Edith che nemmeno lui poteva più ignorarlo.
«Non sta bene da tanti, tanti anni. Non è colpa tua, sarebbe successo comunque, prima o poi.»
Eppure una parte di Timmy rifiutava di crederci, una parte di Timmy avrebbe voluto davvero potersi colpevolizzare, perché, almeno così, avrebbe anche potuto rimediare.
«Da come stai reagendo, intuisco che Edith non ti aveva mai detto nulla in merito a ciò.»
Non rispose, non ne era in grado, non aveva nemmeno la forza di guardarlo negli occhi.
«Posso solo immaginare quanto tu ti senta confuso adesso, ragazzo mio.» Con un cenno della mano, l'uomo richiamò il cameriere, per chiedere un'altra tazza di cioccolata calda per Timmy. Quest'ultimo tacque ancora, per poi sentirsi traballare quando, una volta giunta l'ordinazione, il professore gli disse: «Se hai qualcosa da chiedermi, fallo pure.»
Timothy lo guardò con occhi lacerati, stentò a riconoscerlo nella figura dell'uomo che aveva sempre provocato timore tra gli studenti. «È... è morto tre anni fa, vero? Il bambino, intendo.»
Il professor Sawyer annuì, lentamente, il ragazzo si domandò come riuscisse a mantenere il suo viso granitico persino in un momento del genere. «Lo hanno ucciso?»
«In che senso?»
«Quando Edith... mi ha visto... con il cofanetto... continuava...» Faticava a respirare, gli sembrava di avere uno sciame di vespe al posto dei pensieri. «A chiamarmi ladro e... ho pensato che...»
Il professore sospirò, scuotendo lentamente la testa. «Temo ci sia stato un fraintendimento, ragazzo. La nostra famiglia è costellata da tragedie, ma gran parte di esse sono tragedie naturali. Non c'è stato nessun assassinio. Il bambino è nato morto.»
È nato morto.
Una frase così contraddittoria, nascita e morte allacciate insieme, in un ossimoro che avrebbe dovuto restare reale solo nelle poesie. «Morto?»
«Morte fetale. Sì. A poche settimane dalla fine della gestazione.» L'uomo chiuse gli occhi di nuovo, in un silenzio catartico che deturpò ancor più le sue rughe. «Può capitare, a volte, e non sempre i medici sanno dirne il motivo.»
Non poteva comprenderlo.
Non voleva comprenderlo.
Non osava nemmeno immaginare cosa implicasse tutto ciò: crescere e nutrire una vita nel proprio corpo, farla diventare parte di sé stessi al punto da percepirla nella carne, per poi sentirla di colpo avvizzire, diventare cadavere là dove avrebbe dovuto germogliare una nuova creatura.
«Per quanto riguarda il tuo essere un ladro, temo che sia per lo più dovuto al fatto che, per Edith, chiunque provi soltanto a citare il bambino è un ladro che glielo vuole portare via.» Ammutolì per un secondo. «Credo che non ti abbia nemmeno riconosciuto in quel momento. Quando entra in quella fase, lei...» si bloccò di nuovo. «Lei non si ricorda più di nessuno.»
Timothy si morse le labbra, il respiro come un serpente in gola. «Che... che fine ha fatto... il padre del bambino?»
Era una delle domande che adesso più lo martoriavano.
«Non ne ho idea.»
Sollevò il capo e lo fissò sbigottito, di risposta il professor Sawyer si limitò a sospirare di nuovo. «Nemmeno all'epoca avevo chissà quale grande rapporto con mia figlia, temo. Certo, era migliore rispetto ad ora, ma...» schioccò la lingua, e per un istante il suo sguardo si perse, smarrito in dei ricordi intangibili. «Non andavamo... molto d'accordo. Io so solo che Edith è rimasta incinta. Di chi? Non ne ho idea. Non c'è mai stato nessun uomo ad affiancarla, nessuno si è mai presentato come padre del bambino. E a lei non sembrava particolarmente interessare.»
I pensieri continuavano a grattare nella sua testa, lasciando tagli che bruciavano e sanguinavano. «Io...» si bloccò, «sapevo che non stava bene, l'ho sempre saputo, ma...»
«Ma non pensavi fino a questo punto?» concluse il professor Sawyer, con un sorriso amaro, e Timmy annuì, affranto. «Non te ne devi vergognare, figliolo. Edith non è mai stata particolarmente avvezza a condividere il suo dolore con gli altri.»
«Lo so, ma...»
Inghiottì di nuovo, senza sapere che dire. Il professore, a quel punto, allungò la mano e tamburellò le dita sulla sua tazza di cioccolata calda. «Bevi, figliolo, ti aiuterà un po'.»
Forse per tutto quello che era appena successo, forse per la macchia di paure che ora gli stava impeciando il cuore, quel semplice gesto, così umano, così paterno, bastò per far annegare i suoi occhi in un oceano di lacrime. Trattenne con la diga delle palpebre quei pozzi di lacrime, e cercò di affogarne il loro sapore acidulo sotto una cascata di cioccolata.
«Edith ha bisogno di un aiuto psicologico, Timothy» proseguì infine l'uomo, quando lui finì di bere dalla tazza. «Amelia forse riuscirà a calmarla, a farla ritornare in sé, ma non basterà. Solo uno specialista potrà mai aiutarla a guarire.»
Lo disse con una serietà quasi ammirevole, nulla traspariva nella sua voce, né il rimpianto né lo sconforto di affermare ciò su sua figlia. Aveva occhi di marmo, l'uomo, scolpiti in una severità che, però, sembrava screpolarsi insieme alle rughe sul suo viso.
«Ma lei si rifiuta, non è così?»
Leonard intrecciò le mani tra le dita e in quella culla di falangi posò il suo mento. «Mia suocera ha ragione, la codardia l'ha presa tutta da me.»
«Perché? Perché non accetta di-»
«Non tutti vogliono guarire, Timmy.» Lo bloccò lui. «Devi capire che Edith ragiona in modo diverso dagli altri. Per Edith soffrire equivale ad amare.»
«Non... Non capisco.»
«Tenere aperta una ferita» mormorò l'uomo, «vuol dire protrarne il dolore, sì, ma per Edith... per Edith è anche altro. Per Edith significa anche poter continuare ad amare chi gliel'ha inferta. È una condanna d'amore eterno: una salvezza per lei, un incubo per il resto del mondo.»
Timmy ammutolì di nuovo, e nella sua testa echeggiò ciò che Edith stessa gli aveva detto sotto la neve. Questo dolore è tutto ciò che mi rimane di lui.
«Lei si crede maledetta.»
Gli occhi del professore si paralizzarono per un istante, le palpebre a mezz'aria, le labbra contratte.
Timmy non sapeva dire quale fosse il motivo di quella reazione, quella frase gli era uscita d'istinto, senza un perché, ma ora, nel vedere quanto aveva provocato nell'uomo che aveva davanti, percepì l'urgenza di ribadirla ancora. «Me lo dice ogni volta» sussurrò, «mi dice sempre: che lei porta solo morte con sé.»
Furono le mani dell'uomo a tremare, dopo quella confessione, e Timmy, per la prima volta in vita sua, scoprì che forma assumeva il suo viso quando veniva solcato da un'emozione, scoprì che, quando il professor Sawyer si spezzava di dolore, diventava il ritratto identico di Edith.
«Questa sua convinzione...» lo sentì mormorare, prima di vederlo chiudere gli occhi e ingoiare tutti i suoi tremiti dentro le spalle, «è colpa mia.»
«In... in che senso?»
«Sono stato io a dirglielo, anni fa, quand'era una bambina.»
La bocca di Timothy si spalancò da sola. «Lei ha...»
«È il mio rimpianto più grande.»
E lo era davvero, chiunque lo avrebbe potuto capire ad occhio nudo. Ma Timothy, per la prima volta, non riuscì a comprendere. Benché avesse sempre avuto un cuore capace di riciclare qualsiasi emozione, persino la più sporca, per la prima volta si ritrovò a rifiutare quella che ora il suo professore gli stava donando. «Lei... ha detto a sua figlia... che porta solo morte con sé?»
Era così disgustato, così ferito da quella consapevolezza, che non riuscì a frenarsi, e l'orrore gli si dipinse in viso in un telaio di rughe d'espressione.
«Sai qual è il difetto più grande della nostra famiglia, Timmy?»
Silenzio, il rumore soffuso del vociare delle persone, il tintinnio della tazza di caffé del professore che ora rotolava, vuota, sul tavolino di legno.
«Amiamo troppo.»
Non capiva, e Sawyer non sembrò sorpreso da ciò.
«Timothy, ragazzo mio.»
La tazza vuota sputacchiò un po' di caffé, mentre continuava a rotolare.
«Ti andrebbe di ascoltare una storia?»
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