1. Terrore
La ragazza andò verso la finestra e con il cuore in gola guardò una foglia staccarsi lentamente dal ramo e volteggiare in aria, fino a posarsi delicatamente al terreno.
Come accadeva spesso in quegli ultimi giorni, la paura iniziò ad insinuarsi in lei e gli effetti sul suo corpo furono ben evidenti. A cominciare da quel fastidioso ed improvviso tremore; volle illudersi che fosse per il freddo ma in realtà conosceva fin troppo bene il turbinio di emozioni che la travolgeva .
L'estate stava lasciando il posto all'autunno, teatro di una delle sfide più ardue che potessero esistere: l'inizio della scuola. Il solo pensiero di mettere piede in quel posto pieno di persone pronte a giudicare era terrificante per lei. Non voleva ricevere compassione né essere presa in giro. Non voleva niente.
Quanto bella sembrava quella parola, quanto insignificante nella sua dura importanza. Niente. Vuota, quanto era il suono che riverberava nella sua testa ogni volta che la ragazza se la ripeteva. Ma non l'avrebbe assaporata, non avrebbe sentito il bisogno di percepire il suo sapore dolce amaro sulla lingua; era da tempo che un bisogno del genere l'aveva abbandonata.
Una parola, però, non doveva essere pronunciata per acquisire importanza. Era il suo stato d'animo, ciò che racchiudeva il suo cuore da quando si era svegliata, un giorno, ed aveva scoperto di come era riuscita a togliersi ogni speranza per il futuro, a conferirgliela.
Ciò che sperava più d'ogni altra cosa, era il dono dell'invisibilità. Non le importava che le dessero importanza, che la confortassero, che la elevassero ad eroina: non lo era. Non aveva fatto qualcosa per meritarsi un tale trattamento. I medici, i primi soccorritori potevano essere definiti eroi. Lei era solo la stupida ragazzina piena d'immaturità, che si era procurata da sola il suo male. Perciò non voleva attenzioni e, soprattutto, non voleva essere compatita. Non perché l'avrebbe infastidita pensare che quelle persone, in un certo senso, si reputassero superiori a lei. Ma perché non meritava nemmeno quello.
L'unica cosa che meritava era il vuoto, intorno a sé. Essere invisibile, vagare per i corridoi della sua grigia scuola non notata.
E invece sapeva che il suo desiderio sarebbe stato negato; tutti al suo passaggio avrebbero iniziato a bisbigliare, ad indicarla, ed ogni discorso si sarebbe fermato alla sua comparsa in un'aula. Gli studenti avrebbero sentito il rumore delle gomme che improvvisamente stridevano sul pavimento lucido, i professori avrebbero avuto ogni accortezza perché si reputasse allo stesso livello degli altri. Come se non avesse perso nulla, come se fosse ancora la stessa Aika di sempre. Non era ancora iniziato l'anno scolastico, ma aveva il presentimento che ogni sua preveggenza sul comportamento di chi la circondava era tristemente accurata. E fin troppo plausibile: mancava poco perché le sue certezze divenissero realtà, e non aveva né il coraggio né la forza di affrontare tutto ciò.
Ma sapeva bene che nulla sarebbe stato più come prima. Al solo pensarci, iniziò a tremare ancora più violentemente.
Era passato un po' di tempo dall'incidente. Due mesi e tredici giorni; settantatré giorni, millesettecentocinquantadue ore in totale. Non ricordava per davvero cosa fosse successo; per una volta, i film si rivelavano più veritieri di quanto non apparissero nella realtà; eppure, non avrebbe mai voluto scoprirlo.
È una sensazione travolgente, arrivare improvvisamente a sapere cose del genere. Come reagisce il cervello, in particolar modo il proprio, in una situazione di enorme stress; come la mente riesce ad acquisire solo dei frammenti d'immagini molto confuse, che in un primo momento fanno davvero fatica a ricollegarsi tra loro. E poi, la persistente sensazione di un liquido che scivola via dal corpo e lo ricopre, viscoso, caldo. Fuori posto. L'impotenza viscerale che accoglie i momenti successivi, quando i pensieri sono intrappolati in sé stessi e nulla ha più controllo.
Lo scivolare via, il lasciarsi andare.
Non ricordava molto da quel momento in poi. Solo le forti luci dei corridoi ospedalieri che l'avevano momentaneamente risvegliata da quello stato di torpore in cui si trovava da molto tempo. E probabilmente era meglio non ricordare almeno quella parte; come le avevano spiegato successivamente, lo stato di shock l'aveva protetta dal dolore. Cosa che non era successa dopo, purtroppo.
L'inizio era stato, ironicamente, la parte più bella. Il dolore era troppo perché i suoi nervi riuscissero a gestirlo? Il corpo l'avrebbe semplicemente rigettato. Non riusciva a capacitarsi ella realtà di quella situazione? Dunque l'avrebbe rifiutata, evitando anche il panico. L'inizio era formato solo da grida passeggere, quasi inconsistenti, confuse e prive di significato. Lei, in quello stato di semi-coscienza, senza alcun tipo di dolore, era in un limbo di ignara beatitudine; decisamente, se avesse potuto decidere avrebbe scelto di tornare a quel momento anche se solo per qualche attimo. Non prima e di sicuro non dopo. Era quell'anestesia naturale ad attirarla così tanto, la tregua che aveva provato prima ancora di dichiarare sconfitta.
Poi era iniziata la tortura. Non tanto fisica, visti gli antidolorifici che le davano continuamente, quanto mentale; le innocenti e pacifiche grida del suo sonno avevano iniziato a perseguitarla, piene di parole che non riusciva a distinguere, e sentimenti che l'aggredivano in continuazione.
Le tartassavano la testa, più di quanto le luci ospedaliere, bianche, non avessero iniziato ad accecarla.
Scosse la testa. Ripensarci non le faceva mai bene. Piuttosto, doveva prepararsi per bene a ciò che l'aspettava: imparare ad ignorare le occhiate ed i commenti, i tentativi delle persone di avvicinarsi. Non le avrebbero fatto bene. Dovevano starle tutti alla larga, e lei doveva trovare un modo perché ciò accadesse.
Si mise a giocare con i capelli, mentre osservava sprazzi di vita passarle sotto gli occhi. Non quella umana, quello era certo.
La villa in cui tendeva a rinchiudersi, aveva un enorme giardino ed un piccolo tratto di sterrato che separava la sua famiglia dalla strada principale e le altre abitazioni. Se anche avesse voluto rubare frammenti di vissuto dei suoi vicini, non avrebbe potuto.
Ma le andava bene, perché le persone le avrebbero solo ricordato la sua felicità passata e ciò che aveva perso; invece, gli animali erano molto più interessanti da osservare. Si muovevano con grazia molti di essi, passando dal bosco oltre i piccoli buchi della recinzione di legno che circondava la casa. Quei conigli, quei piccoli serpenti, gli uccelli, tutti gli animali erano i benvenuti da quando la madre di Aika si era accorta che la figlia di sentiva meglio, solo ad osservarli. Prima c'era una faida aperta tra loro, con la madre nemica indiscussa che cercava di allontanarli dal suo regno di splendente igiene.
Ora, invece, si limitava a tenerli ad almeno cinque metri dalla casa.
Il frinire dei grilli, i canti ovattati degli uccellini... tutto ciò le dava conforto.
Ma quando posò il suo sguardo sul grosso albero di cedro al centro del giardino, i ricordi l'assalirono nuovamente. Ripensò ai tempi felici, quando i genitori potevano ancora portarla ai parchi acquatici e salire sui tronchi per scendere le cascate, colpiti da getti d'acqua dai pirati. Ma proprio come quando aveva provato ad alzarsi ed uscire da quella giostra divertente, senza grandi risultati, così aveva fatto mentre il panico l'assaliva su un letto d'ospedale; solo che, quella volta, non c'era la mano del padre ad afferrarla a sé per aiutarla prima che ripartisse un nuovo giro dei tronchi e lei fosse trascinata via.
Ed anche se quella mano fosse stata lì pronta, ad aspettare solo che lei vi si aggrappasse, non avrebbe potuto fare alcuna differenza, perché Aika non si sarebbe retta in piedi.
Aveva tentato di alzarsi, scombussolata, accorgendosi di essere in movimento, mentre pian piano la consapevolezza si era fatta strada dentro di lei; poi, era riuscita solo a sollevare di poco la testa per vedere dove la stessero portando, finché non era stata distratta dalla vista del suo corpo. Le era venuto quasi da ridere vedendo le gambe in una posizione tanto innaturale, poi però la vista del sangue l'aveva fatta piangere. Dopo mesi, ormai, aveva finito le forze addirittura per quello.
Quando era uscita dalla sala operatoria, ci erano voluti giorni prima che potesse risvegliarsi da quell'incubo per entrarne in uno ancora peggiore. Non avrebbe più potuto camminare, questo le era stato detto.
E per lei, che amava la sensazione di libertà mentre correva, saltava a ritmo di danza e girava da una parte all'altra della città senza alcun controllore, sarebbe stata una vera tortura. L'Aika del presente aveva ricominciato a tremare, ma una voce preoccupata la scosse dai ricordi.
"Aika, tesoro, calmati. Stai bene?". La ragazza fece un cenno di assenso e s'impose di smettere di tremare, sebbene non stesse per niente bene. "Come va, oggi?".
Lei aprì la bocca per rispondere, sforzandosi con tutta la sua volontà, ma poi lasciò perdere e si strinse nelle spalle. Un lampo di dolore passò negli occhi della madre, ma fu immediatamente sostituito da un sorriso forzato; dopo giorni passati in silenzio, la ragazza aveva iniziato a comprendere meglio altri sensi. Ed ora, finalmente, iniziava a capire l'importanza di ogni minima espressione, perché la maschera che le persone si costruivano potesse cadere ai suoi piedi, a pezzi; sua madre non era da meno. Non serviva che le dicesse che ormai sapeva fin troppo bene quando mentiva o se diceva la verità.
Ed in quel caso stava mentendo spudoratamente; dal canto suo, Aika si trattenne dall'alzare gli occhi al cielo, accorgendosi sempre di più di come stesse vivendo in una campana di vetro. Non c'era bisogno che la madre spiegasse alcunché, dopo che aveva letto nel suo sguardo la delusione per l'ennesimo rifiuto, anche se solo per un attimo.
Ma, presto, avrebbe incontrato nuovamente il mondo reale. Quello che, se non lo conosci, ti fa a pezzi, rabbioso della tua stessa esistenza.
Si sarebbe scontrata con esso. Un terrore sempre più denso minacciava di assalirla.
Amici che non sentiva da mesi, persone antipatiche, piene di sé stesse ed altezzose, egoiste. Tutto questo l'aspettava. Con un moto d'orrore fece guizzare gli occhi verso l'orologio elettronico vicino al letto.
Mancavano solo due giorni.
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