Prologo: in cui si spiega come nasce un sogno
L'atrio Queen Victoria era la cosa più bella su cui i suoi occhi di undicenne si fossero mai posati.
Le luci dorate, gialle e rossastre delle lampade si infrangevano sulle sfaccettature del bancone del bar e sulle bottiglie di alcolici dietro di esso, dipingendo un'aurora fatta di penne di fenice, che danzava sulle pareti rivestite di cristallo, le quali salivano su, sempre più alte, fino al ponte Quattro, in uno sfavillio di galassia. Sulla sinistra cinque ascensori di vetro scendevano e salivano senza posa nel mezzo di statue sospese come ballerine di teatro. Sulla parete di destra, da scale del colore dell'arcobaleno, scendevano persone vestite con tinte sgargianti, mentre sull'enorme tappeto dinnanzi al bar altre, affondate in poltrone porpora, bevevano drink variopinti portati da impeccabili camerieri in divisa.
No, non aveva mai visto nulla di così splendido. Era un sogno che si avverava, concretizzava, senza perdere la sua essenza di irrealtà. Era tanto bello che per un secondo pensò di essere morta e in paradiso, perché doveva essere proprio così, il paradiso: un'ode ai colori, ai giochi di luce e al divertimento. Un uragano di aria calda e profumata di dolci, una girandola di sfumature diverse. Sarebbe stato possibile abitare lì in mezzo? A chi doveva chiedere quella concessione? Avrebbe rotto il suo salvadanaio a forma di coccinella per avere un angolino in paradiso. L'avrebbe fatto, davvero! Aveva risparmiato quasi 300.000 đ, un bel gruzzolo per una ragazzina! Li aveva guadagnati col sudore delle sue braccia, mentre toglieva le macchie di unto dalla cucina di tutte le signore del quartiere, ormai provviste di ginocchia bioniche che non permettevano i movimenti necessari allo sforzo. Li conservava gelosamente da più di un anno. Finalmente aveva trovato in quale saggia azione investirli.
"Kim!".
Un'acuta voce femminile fece ripiombare la bambina nella realtà, impedendo che prendesse davvero il volo tra i cristalli boreali. Si voltò nello stesso istante in cui una mano l'afferrava con energia per il braccio.
"Kim! Ti ho cercato per mezz'ora! Mi hai fatto prendere un colpo".
La signora era piuttosto giovane, indossava un grazioso abito estivo verde e aveva sottili occhi a mandorla, proprio come quelli della figlia.
"Mamma, hai visto?" ribatté la bambina, indicando i movimenti sinuosi delle luci nell'atrio. "Non sono bellissime?".
La donna lanciò un'occhiata, pensò a qualcosa e un piccolo sorriso diede luce al suo volto.
"Ti piace?".
"Sembra magico" rispose Kim, regalandole un'espressione allo stesso tempo stupita ed euforica. Sua madre si piegò sulle ginocchia, la voltò verso di sé e disse, con un sussurro complice: "Magari lo è".
La bambina si sentì pervadere da una solenne consapevolezza a quella considerazione. Aveva ragione: non sembrava magico, lo era.
"Forza, ora" la bella vietnamita si sollevò di nuovo, prendendo per mano la figlia. "Papà e An ci aspettano".
Kim iniziò a seguire la mamma per tornare dal resto della famiglia, ma prima di entrare nel corridoio che l'avrebbe condotta al ponte della sua cabina, lanciò un ultimo, innamorato sguardo all'atrio, giurando qualcosa: avrebbe fatto parte di quel mondo. Un giorno sarebbe stata coautrice di quella magia.
In un modo o nell'altro.
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