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43: nel quale si augura una buona vita

La sala conferenze aveva il soffitto basso e il pavimento di marmo screziato sui toni dell'ocra e del rosso mattone. Era una stanza piccola e intima, priva di finestre, ma spoglia: vi era solo una sottile scrivania di legno e cinque sedie, quattro delle quali occupate. Kim avanzò verso il crocicchio di persone, respirando l'aria immota, calda, profumata di polvere e disinfettante al limone, nel più completo silenzio fino al momento in cui l'unica donna del gruppo notò la sua presenza, smise improvvisamente di parlare e scattò in piedi.

"Buongiorno, signorina Phan" disse cordiale, con un sorriso incantevole. Doveva avere all'incirca quarant'anni, ma ne dimostrava molti meno, forse a causa dei lucenti capelli biondi, perfettamente lisci e lunghi fino al seno, forse per via di quel sorriso smagliante, candido, che avrebbe sbaragliato le resistenze di chiunque. La dottoressa Farrell trasudava ottimismo, gentilezza e buone intenzioni. Kim avrebbe creduto senza riserve che a quel suo splendore esteriore corrispondesse una luce altrettanto potente all'interno, una volta. Le cose, però, erano cambiate. L'espressione radiosa di quella donna energica apparteneva alla portavoce della Crown Cruise, non a un'amica, non a una persona che voleva aiutarla. Era tutta scena, ora lo sapeva. Per questo si limitò a sollevare gli angoli della bocca nella parodia di un saluto silenzioso, zoppicò fino alla sedia rimasta libera dall'altra parte della scrivania e lì si sedette.

La donna la seguì con i suoi svegli occhi castani, dopodiché si accomodò con grazia davanti a lei. I tre uomini presenti fecero un cenno di saluto a Kim, mentre la dottoressa Farrell intrecciava le sue lunghe dita dalle unghie perfette di manicure francese su una cartelletta verde con il logo della compagnia.

Kim riconobbe l'avvocato della Crown, un americano dalla pelle rosa pesca, capelli rossicci e barba ben curata e il notaio che stava lavorando per loro, piccolo e rubizzo, dall'espressione intelligente, a labbra corrucciate.

La persona che Kim non aveva mai visto era il terzo uomo, seduto all'estrema destra della scrivania. Il suo aspetto la incuriosì: aveva un incarnato olivastro, naso affilato, spalle sottili e aguzze fasciate in una camicia color borgogna e lucidissimi capelli castano scuro. Per caso incrociò i suoi occhi e rimase affascinata dalla loro sfumatura ambrata, intensa come la tonalità del miele di lavanda. L'uomo contraccambiò la sua curiosità, continuando ad accarezzarsi il profilo del mento come aveva iniziato a fare subito dopo averla salutata. Tra tutti sembrava la persona più reale, meno costruita. Peccato non sapere chi fosse.

"Signorina Phan" la dottoressa Farrell la richiamò all'ordine. Probabilmente si era accorta del suo interesse per quel particolare ospite, tanto che aggiunse subito, per premura e per rendere chiaro che aveva notato tutto: "Già conosce il signor Garlock e il signor Kettle. Mi permetta di presentarle il signor Jayesh Bijju, proprietario del cantiere navale che serve la nostra compagnia".

L'interesse per quello strano uomo venne immediatamente ridimensionato: faceva parte della cricca.

"Piacere" disse meccanica. Lui le sorrise, con due file di denti bianchi e forti, ma solo per un attimo. Tornò quasi subito a dedicarsi alla sua osservazione.

"Abbiamo valutato le sue richieste" affermò la dottoressa Farrell, decisa a non perdere ulteriore tempo in sterili presentazioni. "Sono state tutte accolte".

Kim la guardò giusto in tempo per ritrovarsi sotto le dita un doppio foglio fittamente scritto in inglese. Era una sorta di contratto, se ne rese conto subito. C'erano diritti, doveri, clausole. Tutto quanto.

"Il risarcimento pecuniario" spiegò la portavoce, allungando una penna a indicare i primi punti presenti sul foglio. "L'appartamento. La reintroduzione nel lavoro. Così come aveva richiesto, corretto?".

Kim annuì. Qualche giorno prima era stato richiesto a ognuno di loro di presentare proposte, desideri e richieste, sostanzialmente per dare valore alla loro bocca chiusa. Era stato dato ampio margine di scelta, perché la compagnia preferiva pagare affitti per tutta la vita di ognuno di loro piuttosto che vedersi demolita su tutti i più importanti quotidiani del mondo. Sarebbe stato esoso, certo, ma non avrebbe determinato la rovina della carriera della Crown Cruise.

Kim non aveva pensato molto ai sacrifici che stava loro richiedendo. Un risarcimento su conto corrente, una casa e un aiuto nel trovare un nuovo posto di lavoro le sembravano il minimo sindacale per tentare di tornare a una vita normale. Pensava addirittura di meritarselo, in alcuni momenti di euforia mentale, quando il dolore non la sconvolgeva troppo.

"La preghiamo di leggere attentamente le clausole di questo contratto" disse la dottoressa Farrell, sorridendo come una bambola di porcellana. "Sono necessarie a che il nostro accordo rimanga valido".

Kim si prese più di cinque minuti per valutare tutto quanto. In realtà non era nulla di inaspettato: non avere contatti con la stampa, non appoggiarsi a psicologi che non fossero scelti dalla compagnia, non scrivere articoli o libri riguardo quanto successo. In poche parole: non tradire il patto. Se così fosse successo, la Crown Cruise si sarebbe riservata il diritto di cessare immediatamente l'erogazione del risarcimento, nonché di denunciare per diffamazione.

Era tutto scritto su quel piccolo contratto, più o meno velatamente. A Kim non importava più di tanto: non aveva alcun interesse a svendere l'incubo che aveva vissuto. Men che meno a renderlo un libro.

Firmò in silenzio, quando la dottoressa Farrell le ebbe teso la penna, dopodiché spinse verso di lei il foglio.

"Questione risolta?" domandò, senza riuscire a non apparire fredda. La portavoce controllò la firma e così fecero anche avvocato e notaio. Quando i due uomini annuirono, anche la signorina Farrell lo fece. Divise i due fogli, consegnò una copia a Kim e sorrise. Ancora.

"Sarà contattata per l'appartamento a breve. Nel frattempo le auguro una buona permanenza e un buon riposo. Si avvalga dei nostri psicologi nel caso ne sentisse la necessità".

Probabilmente era una formula che la dottoressa aveva sfruttato per chiunque fosse passato per quella sala ricevimenti. Poco importava. Kim fece un cenno, si alzò dalla sedia e strinse la mano a tutti e quattro i presenti. Il signor Bijju non distolse lo sguardo da lei per tutto il tempo, tanto che la ragazza iniziò a sentirsi a disagio. Salutò educatamente e senza attendere oltre, si voltò e uscì dal locale.

Aveva bisogno di aria. Chiudendo la porta alle sue spalle, si era resa conto di quanto si stesse sentendo soffocare. Rimase un attimo immobile a occhi chiusi, poi si lasciò guidare dal rumore della pioggia battente, dirigendosi verso l'entrata dell'hotel che dava sul piccolo molo privato. Superò la reception e la stupita receptionist, spalancò il battente di vetro e si lasciò investire dal vento carico di umidità e salsedine. La porta si chiuse lentamente e Kim rimase lì, in piedi, con la mente rannuvolata tanto quanto il cielo, ad ammirare la cortina d'acqua che scendeva dalle nubi temporalesche. Per un secondo pensò di aver finalmente anestetizzato il dolore, ma non appena quel misero pensiero si formò tra i suoi occhi, fu subito sostituito da una nuova ondata di sofferenza.

Perché era diventato tanto difficile vivere? Perché provare emozioni era così insostenibile? Kim ricordava i ventisei anni prima della crociera come un sogno, qualcosa di argenteo e confuso, in cui non aveva provato altro che deboli sentimenti. Poi era cambiato tutto. Ogni cosa si era colorata a tinte forti, accecanti, su uno sfondo del color del carbone lucido. Le pennellate vivaci erano così poche che potevano essere contate su una mano, ma aveva amato ognuna di loro. Ognuna. Anche se ora lo negava o almeno ci provava.

Con la sofferenza affiorò anche il viso di Jozefien. Kim lo ricacciò nel mare di pensieri ribollenti, senza attendere che il suo sorriso o i suoi occhi azzurri attecchissero nella sua mente. Doveva togliersela dalla testa e andare avanti. Voleva solo tornare a quando il mondo era semplice, le emozioni soffuse e deboli come la luce d'inverno e l'amore qualcosa di astratto, non in grado di fare tutto quel male. Doveva dimenticare la pennellata più intensa.

Il dolore le chiuse la gola, accelerò i suoi battiti cardiaci. Per un secondo fu così straziante il pensiero di andare avanti, di vivere sopportando tutte quelle consapevolezze, che Kim pensò che gettarsi nel canale e lasciarsi affondare nelle sue acque verdi sarebbe stata davvero la soluzione a tutto. La Morte era stata gentile con lei, le aveva offerto una seconda opportunità, ma Kim non ne vedeva la ragione. Non c'era speranza, non c'era futuro. C'era solo quella pena ridicola, inesprimibile, che le impediva di respirare.

"Signorina Phan?".

Una voce maschile calda e roca la riportò bruscamente alla realtà, strappandola dal baratro nero in cui era stata risucchiata. Kim si voltò e sgranò gli occhi quando si trovò davanti il signor Bijju. Scoprì con un certo sconcerto che era molto più basso di quanto avesse creduto, la superava di dieci centimetri scarsi. Era un uomo esile e sottile che emanava una strana energia. Le sorrise e fece un cenno verso il canale.

"È pericoloso sporgersi" mormorò, prendendo posto su una piccola panchina di ferro battuto appoggiata al muro esterno dell'hotel. Kim rimase in piedi a guardarlo, rabbrividendo per il freddo e la sorpresa.

"Cosa vuole?" chiese senza farsi problemi. Il signor Bijju continuò a sorriderle. Lo faceva in modo molto diverso rispetto alla dottoressa Farrell. Con stupore Kim si accorse che sotto i suoi occhi ambrati correva un sottilissimo filo di eyeliner. Era uno degli elementi che contribuiva al contesto generale di esoticità. Non riusciva a inquadrarlo in nessun gruppo sociale umano. Un nome indiano, ma un aspetto particolare... e poi con quegli occhi.

"Chiederle una cosa" rispose, gentile.

"Ha sentito la dottoressa, prima. Non ho il permesso di parlare di nulla".

"Stia tranquilla, signorina Phan. Ho visto anche io foto e video. So cosa è successo, più o meno".

Kim rimase in silenzio. Gli stava lanciando una sfida? Nemmeno lei lo sapeva.

"La mia famiglia" continuò il signor Bijju, senza lasciarsi scoraggiare da quell'insolente mutismo, "Conosce gli oceani da più di quattrocento anni. Ciò che normalmente rappresenta un ostacolo all'uomo, per i Bijju è sempre stato un mezzo per comunicare, per espandersi. Ho parenti sparsi in tutti i continenti, grazie alle navi. Ed è per questo che non mi capacito di non aver mai sentito parlare della vostra isola dei vapori".

"Non è nostra" lo corresse subito Kim.

"Ha capito cosa intendo".

"Non capisco dove lei voglia andare a parare".

Negli occhi di miele e topazio del signor Bijju vibrava una luce intensa. Kim aveva pensato che fosse cupidigia, ma cominciava ad avere il sospetto che si stesse sbagliando. Forse non era altro che morbosa curiosità.

"Lei crede che sia rimasto qualcosa dell'isola, signorina Phan?".

Kim scosse la testa. Quando l'incendio si era spento, dell'isola, sventrata da successive esplosioni di gas, non rimaneva altro che piccole zolle brulle, solo parzialmente emerse.

"Qualcosa dei bambini?".

Un altro cenno di diniego. I bambini di Vita-in-Morte si erano trasformati in cenere finissima e la nube composta dai loro resti si era alzava in un mulinello, che era scomparso una volta sfiorata l'acqua color acciaio dell'oceano.

"Perché mi fa queste domande, signor Bijju?".

"Sono un uomo curioso".

"Dimentichi quello che ha visto. Sarà meglio per lei e per la sua famiglia" rispose Kim.

Jayesh Bijju scosse la testa, sorrise.

"Lei ha fatto esperienza di sovrannaturalità, signorina Phan".

"Mi creda, ne avrei volentieri fatto a meno".

"Questa esperienza, però, porterà benefici sia a lei sia a me".

Kim lo guardò confusa e sospettosa.

"Che intende dire?".

"Io costruisco navi. D'ora in poi starò molto più attento alle scelte che potrebbero determinare la perdita di un componente della mia flotta. Per quanto riguarda lei, Kim... lei ora sa che il mondo non è composto da una sequenza di cieche casualità".

Il signor Bijju si interruppe e osservò per qualche istante le acque ingrossate del canale. Un lento brontolio temporalesco spense il silenzio tra loro, fino a quando l'uomo non riprese a parlare: "Non so cosa lei abbia visto là, sotto tutta quell'acqua gelida. Molti suoi colleghi mi hanno detto di aver gridato al miracolo nel momento in cui è riemersa, dopo più di mezz'ora. Davvero non ho idea di come lei ci sia riuscita e di cosa abbia vissuto in quegli attimi, ma mi conceda l'onore di darle un consiglio: quale che sia la divinità che abbia deciso per il proseguimento della sua vita, la ascolti".

Kim rimase in silenzio, profondamente scossa dal fatto che quell'uomo sconosciuto fosse arrivato a conclusioni tanto giuste su quanto successo. Non sapeva come rispondere, ma fortunatamente non ce ne fu bisogno. Il signor Bijju si alzò, si spolverò i pantaloni scuri e le tese una mano.

"Buona fortuna, signorina Phan" mormorò, sorridendo anche con quei suoi occhi intelligenti. "Buona vita".

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