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42: in cui c'è odore di temporale

Ogni cosa bruciava: l'isola, l'aria, l'acqua.

Non rimaneva ossigeno da respirare: Kim soffocava. La barriera di fuoco alle sue spalle ruggiva. Riempiva ogni millimetro cubo della sua testa. C'erano solo quel roboante frastuono, quei vapori roventi che incendiavano i suoi polmoni.

Kim cercava una via d'uscita, aggrappata alle spire del serpente che l'aveva riportata in superficie, ma non c'era modo di allontanarsi dalle fiamme, dall'inferno in cui si era trasformata l'isola dei vapori.

Non potevano scappare. Attorno a loro si ergevano petali mortali. Lingue bollenti si tendevano verso la serpe. Un innocuo colubro precipitato nel covo di cobra reali.

Kim!

Kim si voltò: alle sue spalle c'era la Emerald. Riuscì nettamente a distinguere Siva, sul ponte di passeggiata: tendeva le mani verso di loro, invocando i serpenti, mentre una nube grigia si alzava in un mulinello dalla nave.

Kim!

Si girò di nuovo: ora si trovava all'ingresso della cabina di comando. Un giovane uomo dai capelli ricci e la divisa spiegazzata singhiozzava in ginocchio. Qualcuno urlava. Una mano si abbatté feroce sul suo volto.

Kim!

Persone a terra, sdraiate in pose grottesche. Liquido verde colava dall'angolo della loro bocca.

Kim!

Una testa bionda, un corpo di spalle. Il serpente si avvicinava. Kim urlava, chiamava il nome di Jozefien. Lei non rispondeva. Non si muoveva. Non respirava.

Kim!

Così tanto calore.

Kim!

Impossibile respirare.

Kim!

Gli occhi vuoti dei bambini. La fila di piccole, malvagie orbite bianche dei demoni.

Kim!

Il viso ribollente della Morte, all'improvviso.

"Ti sono debitrice".

Kim!

"A tempo debito".

Kim spalancò la bocca per emettere probabilmente l'urlo più straziante della sua vita, ma il movimento con cui si costrinse repentinamente seduta le svuotò i polmoni e tutto ciò che uscì dalle sue labbra fu un sottile, acutissimo pigolio. Non ricordò immediatamente dove fosse, la testa ancora avvolta dal fumo e dal terrore. Solo dopo un minuto i suoi occhi si abituarono alla poca luce e la stanza d'hotel riprese le sue innocue fattezze.

Era stato un incubo, ovviamente. Solo l'ennesimo incubo. Erano trascorse più di due settimane, eppure non era cambiato niente: poteva illudersi di sentirsi bene, ma ogni volta che spegneva la luce e chiudeva gli occhi non riusciva a impedire alla sua mente di rivivere tutto quello che era accaduto sulla Emerald. Poteva mentire a sé stessa ma non ingannare i ricordi.

Calmò il respiro e i battiti cardiaci impazziti focalizzando la sua attenzione sulla luce che pioveva sul materasso in sottili righe orizzontali dalle persiane chiuse. Faceva un gran caldo nella stanza, l'aria era irrespirabile, anche se sulla sua pelle il sudore aveva già iniziato ad asciugarsi. Kim rabbrividì per mille motivi diversi. Ora che era più calma e totalmente sveglia, la sofferenza aveva ripreso immediatamente il posto che si era conquistata con la forza nel giro di ventitré giorni. Smise di vedere davvero le striature di luce sulle sue gambe e si lasciò investire dal solito carico di dolore, che non aveva ancora imparato a gestire. Ci sarebbe riuscita, ne era certa. Ma era ancora troppo presto.

Rimase in quella posizione per quasi un quarto d'ora poi, faticosamente, si spostò verso il lato destro del grande e morbido letto matrimoniale e posò lentamente i piedi nudi a terra. Si alzò lenta, facendo una smorfia per il dolore alle tempie e per quello alla gamba, la cui ferita era stata finalmente curata a dovere ma che faceva ancora male. Si raddrizzò cercando di respirare a fondo e scacciare l'agonia che si ritrovava in testa. Si avvicinò alla finestra e aprì le persiane.

Un refolo carico di elettricità si insinuò immediatamente nella stanza, assieme alla poca luce perlacea che lasciava intendere l'arrivo di un temporale. Kim calcolò che dovessero essere più o meno le sette. Si sporse a osservare il canale sotto di sé e finalmente il suo udito, ultimo tra i sensi, parve risvegliarsi: lo sciabordio regolare delle onde contro i muri, il borbottio costante dei mezzi a motore, le risate stridule dei gabbiani e il lontano, persistente cicaleccio del brulicante e nutrito popolo di turisti e veneziani autoctoni la riportarono finalmente alla realtà. Kim inspirò l'aria salmastra e umida, lo strano sentore di azoto nel vento. Ignorò quasi con piacere i brividi di freddo. Cercò in modo automatico di individuare il Fondaco dei Turchi, da cui l'hotel non distava molto.

Situato sulla riva opposta del sestiere di Santa Croce, l'hotel Dandolo era un piccolo, accogliente, esclusivo quattro stelle che vantava, tra i molti suoi pregi, la garanzia di passare inosservato. Con un'anonima facciata esterna, dipinta di un rosso ormai slavato, nascondeva al suo interno la più pura, genuina opulenza veneziana, con stucchi, intonaci, colonne screziate e pavimenti venati d'oro. Kim immaginava che ogni notte trascorsa in quel luogo sarebbe equivalsa a un mese del proprio stipendio, ma quella era la minore delle sue preoccupazioni: in fondo non pagava lei.

Si voltò, continuando a respirare a fondo l'odore di tempesta in arrivo, e diede un'occhiata alla sua stanza. In un'altra occasione avrebbe sorriso, perché avrebbe trovato assurdo l'improvviso cambiamento, da una cuccetta soffocante a una camera grande quanto un monolocale, con un enorme letto matrimoniale dalla testata arzigogolata, poltroncine color crema disposte con gusto attorno a un basso tavolino ingentilito da fiori freschi e un largo tappeto persiano sui toni dello scarlatto. Due piccoli comodini dalle zampe arcuate sostenevano un telefono, una sveglia e tutti i suoi documenti. Dal soffitto, avorio come il resto delle pareti, pendeva un piccolo e complesso lampadario composto da calici di fiori di cristallo.

Kim rimase a guardare proprio quello, ancora una volta senza vederlo davvero.

Si sentiva vuota. Allo stesso tempo aveva come la sensazione di star marcendo dall'interno, di essere profondamente malata. Più di una volta si era chiesta se il cuore avrebbe potuto decidere così, semplicemente di fare sciopero per una giornata, e spegnersi. Forse sarebbe stato più facile. Per tutti.

La sveglia suonò all'improvviso, diffondendo una leggera melodia simile alla Primavera di Vivaldi e facendola trasalire.

Una profonda stanchezza, partorita dal velenoso concerto di sonno di pessima qualità, preoccupazioni, sensi di colpa e paura, si impossessò nuovamente del suo corpo. Abbandonò la finestra e tornò zoppicando al letto, vi sedette e chiuse gli occhi, sospirando.

Il giorno era arrivato.

Lo sapeva che sarebbe successo, certo. La faccenda doveva concludersi il più velocemente possibile. Prima fosse finito tutto, meglio sarebbe stato.

Prese un ampio respiro, si alzò e si diresse verso l'armadio a muro. Rimase a fissare i suoi vestiti per almeno dieci minuti, prima di scegliere un paio di pantaloni scuri e una camicetta bianca. Aveva volutamente evitato le gonne: le ricordavano quelle delle cameriere della cruiser. Non si sarebbe presentata davanti a loro con un abbigliamento da dipendente. Da sottomessa.

Impiegò tutta la calma del mondo per prepararsi a dovere: fece la doccia, si spazzolò i capelli, si vestì con cura. Dall'ampio specchio del bagno il viso stanco e provato di una giovane donna che vedeva quasi estraneo la squadrava di rimando, sospettoso e giallastro. Inorridì notando le borse sotto gli occhi e l'aspetto consumato della pelle, la frangia che ormai le accarezzava le ciglia e le piaghe che si erano formate ai lati della bocca, figlie di vesciche degenerate giorni prima. Avrebbe potuto truccarsi, ma si chiese a che scopo. Abbandonò il bagno dopo essersi legata i capelli in un severo chignon, tornò a sistemare le lenzuola disordinate e controllò l'orologio. Il suo appuntamento era alle otto e mezza. Avrebbe avuto tempo di mangiare qualcosa, ma le uniche cose che in quelle lunghe, penose giornate era riuscita a deglutire erano stati liquidi zuccherati, succhi di frutta e tè. Aveva vomitato un paio di volte quando aveva tentato di mangiare un piatto di pasta. Non ci aveva più provato.

Forse avrebbe fatto bene ad andare dallo psicologo che era stato messo a loro disposizione. Ci pensava da un po', anche se fino a quel momento aveva rifiutato l'offerta. Forse avrebbe potuto parlare semplicemente dei suoi incubi e dell'incapacità di mantenere nello stomaco del cibo solido per più di quindici minuti.

Sì, forse l'avrebbe fatto, si disse, mentre usciva dalla stanza e iniziava a camminare lenta, a testa alta, lungo il silenzioso corridoio che profumava di pulito. La morbida moquette rossa attutiva i suoi passi diseguali. Rendeva ovattato ogni suono.

Udì un lontano brontolio temporalesco girando l'angolo. La tempesta si avvicinava.

In fondo al corridoio c'era qualcuno. Kim si avvicinò e riconobbe il signor Cornelis, di spalle, intento a parlare a bassa voce al cellulare, nel dialetto che in quei giorni aveva scoperto essere brabantino. Quando fu abbastanza vicina da essere notata, il signor Cornelis si voltò e la salutò con un sorriso gentile.

A Kim risultava difficile ammettere di essere stata testimone del mezzo pestaggio di cui il capo della sicurezza si era reso protagonista. Aveva ancora dinnanzi agli occhi la scena: il gruppo di sopravvissuti, lei compresa, che apriva finalmente le porte della cabina di comando, l'improvviso movimento che per poco non aveva indotto Delia a sparare a bruciapelo a quello che si era rivelato essere un giovane ufficiale, l'ammissione del giovane, tale Enrico Paganin, comandante in seconda della nave, di essere rimasto nascosto all'interno della cabina per tutto il tempo, cosciente e senziente, dopo aver notato la presenza dei bambini dagli occhi cavi e infine lo scoppio di rabbia del signor Cornelis, che si era gettato addosso all'uomo, intenzionato a sfigurarlo a colpi di schiaffi, urlando frasi sconnesse riguardo la codardia, la vergogna e il disonore.

Kim era stata molto colpita da quell'improvvisa e feroce aggressione, ma non aveva potuto dare torto al povero signor Cornelis, che sentiva su di sé tutta la colpa della morte accertata di una cinquantina di persone, tra equipaggio e croceristi. Se il signor Paganin avesse dimostrato più coraggio, rispondendo all'iniziale appello di interfono del signor Cornelis, forse non si sarebbe giunti a quelle terribili conclusioni.

Tuttavia con i se e con i ma non si guarda al futuro. Kim rispose al gentile sorriso di quell'uomo nervoso ma buono, sperò che i suoi due bambini stessero bene e tornò a zoppicare lungo il corridoio, prese un ascensore e scese fino al pianoterra dove si trovava la piccola e sicura sala conferenze in cui si erano svolti tutti i colloqui – o meglio, gli interrogatori – a cui erano stati sottoposti.

Una bufera mediatica aveva investito la Emerald dal primo momento in cui la nave era attraccata al porto di Flores, nelle Azzorre, semidistrutta e zeppa di persone incoscienti, dai cui naso e bocca colava come sangue uno strano liquido verde chiaro. I primi soccorsi erano stati prestati immediatamente, ma subito dopo il timore di una possibile epidemia aveva costretto la cruiser, scortata da navi da guerra portoghesi, a lasciare le Azzorre con tutto il suo carico umano e spostarsi fino a Porto.

Lì era scoppiata la vera tempesta. Kim aveva ancora i brividi per quello che aveva rischiato, quando era stata praticamente sequestrata, assieme agli altri, dalla commissione di inchiesta per il disastro. All'inizio la situazione si era presentata disperata e Kim si era vista accusata di terrorismo internazionale e di pluriomicidio ma, proprio quando tutto sembrava versare nelle peggiori condizioni, i portavoce della Crown Cruise si erano trovati dinnanzi a una sequela di interrogatori che davano la stessa versione dei fatti, a prove fotografiche scattate da Kerli e perfino ad alcuni video registrati dalle molte telecamere presenti sulla nave, che non avevano mai smesso di funzionare.

Kim ricordava i loro volti. Erano spaventati o meglio, terrorizzati. Avevano voluto che esperti di grafica e animazione valutassero la qualità delle prove, ma ogni loro dubbio era stato smentito: tutto ciò che avevano visto era reale.

A quel punto il vento aveva iniziato a tirare in direzione totalmente opposta. La Crown si era trovata dinnanzi a un bivio irto di rovi: da una parte la verità, che avrebbe comportato lo scagionamento ma probabilmente anche il fallimento della compagnia – chi mai sarebbe più andato in crociera? Chi si sarebbe fidato del mare? In fondo chi poteva sapere quante isole come quella dei vapori ci fossero in mezzo all'Atlantico? – e dall'altra l'accettazione coatta di un errore umano mai esistito, che però avrebbe ridimensionato la paura della gente.

Ovviamente la Crown Cruise aveva scelto il male minore. E per farlo era dovuta arrivare a patti con i molti testimoni che si ritrovava tra i piedi.

Aveva comprato il loro silenzio, Kim lo ammetteva senza particolari sensi di colpa. Il fatto che la compagnia che le aveva rovinato la vita stesse tentando in tutti i modi di ingraziarsela con un risarcimento le dava una gioia feroce e infantile.

Arrivò dinnanzi alla piccola sala riunioni. Osservò il proprio riflesso nel vetro e si disse che sarebbe andato tutto bene, se avesse mosso un passo per volta.

Respirò a fondo, alzò una mano. Aprì la porta della sala proprio nel momento in cui un tuono vero e proprio segnava l'inizio del temporale.

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