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41: dove qualcuno si professa debitore

Quando Jo realizzò che Kim aveva costretto Diego a fermare la calata del motoscafo, era ormai troppo tardi: si voltò appena in tempo per vedere Kim arrampicata malamente sulla scaletta, un secondo prima che si lasciasse cadere sul sedile al suo fianco.

"Cosa stai facendo?" le domandò spaventata, ma la ragazza le rivolse uno sguardo infuocato, si voltò verso Diego e agitò un braccio. Lui tornò al suo posto, più pallido di prima, e la discesa della piccola imbarcazione verso l'acqua riprese.

"Kim... Kim, ti prego! Non era questo che volevo!".

Lei non rispose. Jozefien non avrebbe capito che in quel momento una rabbia testarda aveva saturato completamente la sua mente. Non c'era paura, non c'era preoccupazione e men che meno c'era pentimento. Solo ira, perché Jo aveva di nuovo deciso per entrambe e quella sarebbe stata l'ultima volta in cui glielo avrebbe permesso.

"Kim..." bisbigliò Jo, la gola chiusa da un nodo. "Kim, hai una famiglia".

"Tu no?" le rispose rabbiosa. "L'hai detto prima".

"Sì, ma...".

"Tu non sei sola, maledizione" sbottò Kim. "Tu hai me".

"Jo!" urlò Diego, affacciato al parapetto del ponte di passeggiata. Entrambe le ragazze alzarono il viso e il ragazzo gridò: "Devi avviare subito il motore, appena tocchi l'acqua! Se non ti allontani subito, rischierete di ribaltare!".

Era vero, questo lo capiva anche Kim, che non era mai salita su una barca così piccola: rischiavano di essere sbalzate via dall'urto con la parete della nave o di venire sommerse da un'onda. Normalmente le scialuppe non erano calate con la nave in moto, ma la situazione, in questo caso, non poteva essere evitata.

Jozefien parve arrendersi all'evidenza che Kim non sarebbe scesa. Rivolse le sue attenzioni alla chiave che teneva in mano, la inserì nel quadrante a fianco di quello che aveva tutta l'aria di essere un volante e la girò.

Il motore sputacchiò per secondi interminabili, ma alla fine il suo ruggito divenne stabile. Jo tirò un sospiro di sollievo, si piegò verso Kim e recuperò da sotto il suo sedile due giubbotti salvagente arancioni. Ne lasciò uno in grembo a lei.

"Mettilo" disse. "Se riusciamo a non schiantarci, dobbiamo evitare di affogare".

Kim ubbidì, più calma di prima. Una strana tranquillità stava lentamente trasformando la rabbia in qualcosa che somigliava alla pace interiore. Sentiva di star facendo qualcosa di giusto. Qualcosa di cui non si sarebbe pentita in futuro.

Per un secondo pensò di nuovo alla morte e si disse che, se fosse morta entro quei pochi minuti che ancora rimanevano loro, beh, sarebbe stata una fine molto diversa rispetto a quella che l'aveva tanto spaventata quando era imprigionata nell'ascensore come corpo sincero.

Mancavano ancora una decina di metri alla superficie dell'oceano, così Jo si voltò e le sorrise.

"Sapevo che mi sarebbe tornato utile".

"Cosa?" domandò altrettanto serenamente Kim. Era tutto così surreale da apparire meraviglioso.

"Aver avuto come unico mezzo di trasporto una barca". Jo si mise a ridacchiare, le mani posate sul timone, lo sguardo fisso davanti a sé come se fosse ferma al semaforo. "Grazie, Aruba".

Lo sciabordio improvviso delle fredde acque atlantiche contro lo scafo dell'imbarcazione ridestò entrambe da quell'improvviso attimo di impasse.

"Ora!" strillò Diego, ormai molto lontano.

"Stacca la fune" ordinò Jo a Kim, mentre lei delicatamente imprimeva un primo movimento alla grossa leva sul lato destro del quadrante. Kim lo fece subito, prima uno e poi l'altra, i cavi di metallo sibilarono attorno a loro e iniziarono a sbattere rumorosamente contro il corpo della Emerald, mentre il motoscafo, con uno scossone, si affidava alle onde. Kim si sedette nuovamente al suo posto, evitando per un secondo il colpo di frusta, ma si ritrovò immediatamente schiacciata contro il sedile quando Jo spinse la leva in avanti con la destra e girò il timone.

Il motoscafo si inclinò pericolosamente quando la perturbazione data dal movimento della nave più grande lo fece impennare, ma Jozefien si era mossa abbastanza rapidamente: in men che non si dica il piccolo ma potente natante si era allontanato di una ventina di metri e rombava tranquillo, come se fossero impegnate in una semplice gita al mare. Kim si voltò e vide il faccino di Diego, che le guardava dal ponte di passeggiata. Alzò un braccio per salutarlo e poi si girò, quando una mano di Jo si posò sul suo braccio.

"Da qui non si torna indietro" le disse a bassa voce. Kim cercò di dare un nome al grande turbine di sentimenti nella sua testa, ma preferì posticipare il problema a tempi meno agitati. Si limitò a sorridere, senza rispondere.

Jozefien rimase a fissarla in silenzio per qualche istante, poi capì che niente le avrebbe fatto cambiare idea. Si voltò di tre quarti e indicò velocemente la grande giara di vetro alle loro spalle.

"Quando te lo dico, incendia la stoffa" disse a Kim, dandole l'accendino azzurro che chissà dove avevano trovato. "Non ti preoccupare se è piccolo, è impregnata di kerosene".

"E poi?" domandò Kim.

"E poi vediamo".

Jozefien riprese il comando della leva, il motoscafo si mosse, iniziando a prendere velocità. La nave da crociera stava per superarle, ma Jo, a debita distanza, si mise in parallelo e velocemente riguadagnò terreno. L'aria impregnata di iodio era uno schiaffo violento in faccia ad entrambe, ma Kim respirava quelle boccate gelide e salmastre con gusto, come se non avesse mai sentito odore più gradito. Chiuse gli occhi, si permise di far scorrere nella sua mente i volti delle persone che amava. Pensò a sua madre, a suo padre, ad An. Rammentò il sorriso sdentato di sua nonna e delle sue amiche, il suono delle risate delle sue compagne di università, il sapore dell'alcol bevuto alla prima festa del crew. Ripensò agli sciocchi, innocenti commenti di Diego a Palma, alla calda bontà di Rex, alla gentilezza della signora Eugenie e poi ancora a quella serata bellissima, quella del party, quando lei e Jo avevano parlato sul ponte di passeggiata.

Capì, in un lampo di meraviglia e terrore, che la sua vita non era stata tanto brutta, scialba e noiosa. Aveva conosciuto persone incredibili, aveva imparato a provare cento sentimenti diversi. Aveva scoperto sé stessa.

"Kim" le disse Jo, sempre con quel tono di voce appassionato, "vai".

Kim aprì gli occhi, vide la prima carcassa metallica a non più di mille metri. Si voltò subito, mise una mano a coppa vicino alla bocchetta dell'accendino e fece scattare la rotellina. La minuscola fiammella gialla si trasformò immediatamente in un vorace lembo infuocato di tessuto. La vampata di calore si erse spavalda contro il vento, così ben nutrita da essere incapace di spegnersi.

"Ci siamo" disse a denti stretti Jo. Kim si voltò, vide sfilare accanto a sé lo scheletro ligneo incrostato di cenere di un vascello, poi il motoscafo diede uno scossone e lei cadde in ginocchio.

Era sorto un improvviso problema.

Non c'erano imboccature libere verso la spiaggia.

"Guarda là!" esclamò Kim.

Davanti a loro, nel punto in cui avevano calcolato di lanciare il motoscafo, si trovava spiaggiata un'enorme petroliera, ancora parzialmente intatta. Dietro di lei si ergevano enormi comignoli sulfurei, tanto che l'odore dell'aria era cambiato.

Non sarebbero mai arrivate a colpire quello che volevano.

"Ta ki koño!" imprecò Jo, rallentando un poco per imboccare una strettoia tra due enormi frammenti di metallo. Lanciò uno sguardo alla loro molotov fiammeggiante, che assomigliava ridicolmente a una torcia olimpica. Poi spostò di nuovo lo sguardo sull'oceano.

"Okay, piano B" urlò contro il rumore del motore e del ruggito delle fiamme. Staccò una mano dal timone e indicò una grande falla nella carena della petroliera. Kim seguì il movimento, individuò la profonda lacerazione e dopo un secondo comprese cosa stava guardando.

"È ancora piena di petrolio" gridò, sconvolta.

"Sì" rispose Jo e Kim faticò a udire quello che disse dopo: "Non faremo kaboom".

"E quindi?".

"E quindi...".

Jozefien schiacciò la leva sul quadrante, lanciando il motoscafo ad altissima velocità proprio verso quell'apertura.

"Jo! È una follia!" gridò Kim. La ragazza non l'ascoltò: era concentrata a mantenere la direzione, tesa verso il cruscotto della barca. Non si poteva sbagliare: era la loro unica possibilità.

Kim comprese all'improvviso. Ma si rese anche conto che Jo non stava considerando l'idea di staccarsi dal timone. Si alzò in piedi, contrastando l'aria, si guardò attorno.

Era il momento.

"Alzati!" strillò. Jozefien ubbidì, senza staccare occhi e mani dalla guida.

Kim capì che toccava a lei aiutarla.

Attese ancora un attimo e poi, alla distanza di meno novecento metri, diede uno spintone a Jo, che lasciò il comando appena in tempo, prima di cadere fuori dal motoscafo come una pallottola. Kim si voltò a guardare il loro obiettivo. Ci stavano andando contro, come previsto.

"Forza, Kim" sussurrò a sé stessa.

Quattrocento metri. Forse meno.

Kim si sporse verso il bordo del natante velocissimo, ricontrollò la rotta.

Si accorse che c'era qualcosa che non andava. Qualcosa luccicava appena sotto l'acqua, a pochi metri davanti a lei.

Si gettò al posto di guida, scansò la nave sommersa che avrebbe potuto aprire uno squarcio nella chiglia del motoscafo, tornò sulla linea di attacco.

Ma mancavano meno di cento metri.

Kim non pensò oltre, non c'era più tempo: si gettò sulla scaletta, spiccò un balzo disperato.

E tutto, improvvisamente, si fece nero.


***

Oscurità, suoni ovattati, freddo.

Lenti movimenti di medusa, tenere carezze di polipi di corallo.

Non c'era niente all'infuori della vastità dello spazio che annullava sé stesso, dell'infinità di un oceano nero come inchiostro.

Kim galleggiava in quella serena, gelida contrada acquea. Aveva gli occhi aperti, ma non percepiva il fastidio del sale. Non sentiva nemmeno il freddo che si stringeva sulle sue braccia e gambe nude, che le accarezzava il viso e la baciava sulla bocca.

Nulla.

L'unica cosa su cui la sua mente riusciva a concentrarsi, era lo strano, paradisiaco senso di pace che aveva abbracciato ogni suo senso, che la rendeva cieca e sorda. Non vedeva le sue mani oscillare pigramente sopra la sua testa, non udiva il terribile rombare del fuoco che stava divorando l'isola dei vapori.

Non provava altro che una dolce, estatica serenità.

Se quella era la morte, valeva la pena dirsi addio. Sarebbe stato come chiudere gli occhi dopo una brutta giornata. In fondo non era quello che aveva vissuto fino a quel momento? Una lunga, stancante giornata. Kim era esausta.

Non notò le tre delicate, graziose bollicine sfuggite da naso e bocca, composte da quell'aria che cavallerescamente lasciava il posto a centilitri di acqua di mare, che abbandonavano celeri i suoi polmoni per muoversi veloci verso l'alto, verso quello specchio di luce a più di dieci metri da lei.

Il giubbotto salvagente era andato perso, così come le scarpe. Le aveva perse quando si era tuffata. Per questo stava affondando.

Ma è così bello, pensò di nuovo, anche se non era certa che lo stesse davvero facendo da viva. Così bello. Potrei stare qui per sempre.

Kim era molto più che esausta. Voleva solo chiudere gli occhi per un secondo, perché erano passati giorni da quando aveva seriamente riposato.

Solo cinque minuti, si disse, come quando si era svegliata il giorno dopo la festa del crew. Cinque minuti, poi basta.

Socchiuse gli occhi, mentre altre bolle scappavano dalle sue labbra dischiuse e la sua mente provata iniziava a farsi affogare, come un capitano che non abbandona la sua nave.

Sarebbe andato tutto a posto. Avrebbe dormito qualche istante, avrebbe trovato la forza di risalire in superficie. Senza accorgersene, quasi priva di conoscenza, si trovò a sorridere. Era andato tutto bene. Era stata brava. Sì, molto brava. E ora si meritava un po' di riposo.

"Kim".

Una voce familiare la costrinse a sbattere le palpebre, anche se involontariamente. Non riconobbe immediatamente il viso che a pochi metri da lei fluttuava nel grande oceano oscuro, ma una sottile lama di luce colpiva il suo corpo, così da rendere nitida la sua figura.

"Eugenie?" bisbigliò Kim.

L'anziana signora sorrise, muovendo delicatamente le sue gambe sottili e allungando una mano verso di lei, nello spazio infinito che correva tra le particelle d'acqua e sale.

"È ancora presto" disse la signora De Mercy, senza la voce della signora De Mercy, ma piuttosto con un concerto di tante tonalità, lingue e timbri differenti. Kim la fissò, ma qualcosa cambiò improvvisamente in lei quando la lama di luce, per un qualche motivo, tremolò: la sua immagine sbiadì e il sorriso che comparve subito dopo non assomigliava più a quello dell'anziana francese.

Era suo nonno. Suo nonno era morto due anni prima per un aneurisma cerebrale. E ora la guardava fiducioso, vestito con la sua impeccabile camicia bianca dei giorni di festa.

"Non sei destinata a questo" le disse in vietnamita, nuovamente con uno strano coro di voci, appena prima che la sua figura si tramutasse in quella di una persona che aveva visto solo nelle vecchie foto: il primo An, il fratello scomparso nella guerra.

"Non è questo che voglio" mormorò. An sorrise e il suo viso si allungò, i suoi occhi si ingrandirono. Di nuovo un cambiamento: la sciocca Audrey, i capelli biondi oscillanti come alghe, il volto contratto in un sorriso cavallino.

"Perché ti sono debitrice".

Kim non capiva cosa stesse succedendo: forse erano allucinazioni, forse...

Un coro di voci. I visi.

Il debito.

Fu improvviso, brutale, terrorizzante.

La Morte.

La Morte era lì, con lei.

La Morte le stava parlando, probabilmente in un limbo tra i due mondi.

L'apparizione di Audrey sembrò leggerle nel pensiero perché il suo sorriso si fece luminoso, così come il raggio di luce. La figura smise di avere una forma definita: iniziò a brulicare di volti, corporature, lineamenti totalmente diversi. Milioni di miliardi di morti, conosciuti e sconosciuti, passati e presenti, buoni e cattivi, riuniti nell'imperturbabile, imperscrutabile figura della Morte.

L'unica dea.

"Ti sono debitrice" ripeté il coro. "Mia cara, buona bambina".

Kim avrebbe voluto dissentire, terrorizzata, ma la Morte le fece segno di non parlare con una mano che per una frazione di secondo era quella con le unghie smaltate di una ragazza, priva di indice e medio di un soldato, piena di tagli di carta di un bambino dalla pelle scura.

"A tempo debito" disse semplicemente e per un attimo a Kim parve di cogliere un sorriso che non apparteneva a nessuno se non a lei, alla Morte in persona.

Subito dopo qualcosa di caldo, enorme e in movimento colpì i suoi piedi, facendole fare una mezza piroetta in acqua e scontrandosi infine con la sua pancia e la sua testa. Kim dimenticò all'istante la Morte e si abbarbicò a quel corpo tiepido, liscio e squamoso con braccia e gambe, come un cucciolo, e si lasciò trasportare verso l'alto, verso la luce.

Verso la vita.  

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