4: dove si creano situazioni sgradite
I ponti esterni divennero fin da subito i suoi preferiti. Direttamente dal ponte Nove si poteva accedere alla piscina interna, una vasca celeste piena di acqua cristallina dal tenue odore di cloro. Attorno, in quello che Jo aveva definito Lido di Titania, c'erano ordinate file di sdraio verdi e, ai quattro angoli, altrettante jacuzzi rialzate. Un'ampia area vuota dinnanzi a un maxischermo lasciò presupporre alla ragazza che buona parte delle attività di gruppo si sarebbero tenute lì, mentre un portico su tre lati del Lido offriva, con i suoi tavolini, una seconda e più ariosa sistemazione ai clienti del buffet.
"Quando piove, il tetto viene chiuso." Spiegò Jozefien, indicando una copertura di vetro e metallo completamente ritirata sul lato opposto. "Così le persone possono continuare a stare in piscina anche quando c'è brutto tempo, anche se fa un caldo pazzesco."
"Tu lavori qui?" domandò Kim, indicando lo spazio vuoto. Respirò a fondo e il profumo di salsedine, assieme a quello del cloro e del pavimento di assi di legno scaldate dal sole, le riempì i polmoni, facendole improvvisamente prendere coscienza di quanto fosse corporea la realtà.
"Quando ci sono i giochi. Al mattino presto sono un paio di ponti sopra" rispose Jo, indicando la balaustra del ponte Dieci aggettante sul Lido e la ringhiera del ponte Undici.
"Al Lido di Miranda?".
Jo si aprì in un sorriso. "Esattamente quello. Dai, vieni. Te lo faccio vedere".
Salirono le larghe scale a chiocciola che attraversavano il ponte Dieci e sbucarono finalmente in cima alla nave. A Kim mancò il fiato: era come stare sul tetto di un palazzo a quindici piani piantato nel canale della Giudecca. Allungò lo sguardo fin dove le era consentito e studiò la distesa di tetti grigi e rossi della città, le sue cupole e i suoi campanili. Da qualche parte si nascondevano il Palazzo Ducale e Piazza San Marco, i preziosi orecchini d'oro di quella splendida signora incipriata. Individuò la piccola Isola delle Tresse poco fuori il terminal e la grande isola di Giudecca, seguendo la cui sinuosa bellezza sarebbero usciti dal canale. Spirava una leggera brezza e l'odore del mare penetrò nei polmoni della ragazza, facendo calare su di lei un'improvvisa quiete.
Ce l'aveva fatta. Aveva vinto. Era sulla nave che sognava da quindici anni e osservava l'incantata città lagunare dal suo ponte. Il suo obiettivo era raggiunto. Qualcosa dentro di lei si mise a ridere, ballare e gridare al mondo la propria gioia, mentre lei rimaneva impassibile, l'ombra di un sorriso sulle labbra, gli occhi quasi chiusi a causa della forte luce.
"Ehi!".
Jozefien la riportò alla realtà con il suo solito modo poco discreto. Kim si voltò e la vide che si sbracciava sul bordo di una seconda piscina rialzata, molto più grande di quella dei ponti inferiori. Aveva la forma di un'enorme conchiglia a pettine e ai suoi lati si trovavano jacuzzi a due piani. Tutto attorno, se ne rese conto solo in quel momento, c'era un enorme solarium. Almeno cento tra sdraio, poltroncine e sedie da regista erano sistemate in modo ordinato vicino ai bordi del ponte, in posizioni adatte per godersi abbronzatura e panorama. Piccoli ombrelloni impilati come stecche di ghiaccioli attendevano che un passeggero li richiedesse per difendere il proprio pallore regale. Verso poppa, sotto l'imponente presenza dei fumaioli, la terrazza scoperta ospitava un'altra piscina, questa volta munita di scivolo acquatico verde e bianco, i colori della nave.
"È un bel posto" disse Jo. "Il mio preferito". Sorrise convinta a Kim con tutti i suoi denti bianchi e si mise a ridere da sola. "Mi prenderai per pazza, con tutta la figaggine che c'è su questa nave!".
"No" disse Kim, tranquilla. "È un bel posto. Si respira".
"Là in alto" disse Jo, indicando un ponte più piccolo che, in confronto alla lunghezza della nave, sembrava minuscolo. "C'è il campo da pallavolo, da basket e da calcetto. E il percorso di jogging mattutino. Mi occupo di quello, alle sei del mattino". Tese un braccio a comprendere anche il solarium. "A volte, quando mi stanco di quei pochi metri, li faccio correre anche qui. Anche se non è molto permesso".
"Sei una ribelle" ribatté Kim. Subito si rese conto di quanto sembrasse sciocco il suo commento, ma guardando Jozefien capì che anche lei era sul punto di ridere. Risero assieme e Kim si disse che forse non sarebbe stato così terribile vivere con lei.
"Allora, Vietnam" iniziò Jo. Spalancò le braccia con forza e per poco non parve perdere l'equilibrio. "Che ne dici? Ti piacerà come casa?".
Kim diede un'ultima occhiata a tutto quello che la circondava – il mare, il cielo azzurro, il pavimento di legno del ponte Bronte, le numerose sdraio – e infine tornò a guardare Jo. Si aprì in un sorriso convinto e rispose: "Sì".
In quel momento di magia che poche cose avrebbero potuto turbare, si alzò una voce maschile, profonda e irritata. Kim non capì che cosa blaterasse, ma prima ancora di voltare il viso di quarantacinque gradi per individuare la persona che aveva appena finito di salire le scale, notò che le guance di Jozefien avevano perso colore.
"Jozefien! Ecco dove cazzo eri finita!" esclamò l'uomo appena comparso, un nerboruto bianco bruciato dal sole con corti capelli castani, un viso rettangolare con una fossetta nel mento e la bocca sottile come un taglio. Indossava lo stesso completo di Jo – maglietta verde, pantaloncini bianchi – ma aveva aggiunto un paio di grandi occhiali da sole all'outfit di base. A Kim ricordò, molto violentemente, quegli europei che venivano in Vietnam alla ricerca di sesso facile lontano dalle loro famiglie. Aveva la stessa boria, mentre camminava verso di loro, proprio come quegli schifosi passeggiavano per la sua città, fissando solo la povera ragazza olandese, che improvvisamente sembrava molto meno vivace di prima.
"Ciao, Sunday" disse lei, aprendosi in un sorriso da colica. "Mi cercavi?".
"A te cosa sembra, rincoglionita?" l'aggredì il capo dell'animazione, a cui Kim finalmente diede un volto. "Ti stavamo aspettando nel mio ufficio. Dovevamo decidere l'orario delle nuove attività".
"Ma avevamo già...".
"Stai zitta, mi fai venire il mal di testa. Cosa cazzo stai facendo qui?".
Kim classificò immediatamente il signor Byrd come in quella categoria d'uomo da cui era sempre stata disgustata. Con non poca fatica si costrinse ad accennare un'espressione di scuse e dire: "Mi dispiace, signor Byrd. Ho chiesto io a Jozefien di farmi fare un giro della nave".
Il viso dell'uomo troppo abbronzato ruotò sul collo e lo sguardo dietro gli occhialoni si posò su di lei. Ebbe come l'impressione – o il brivido – di essere un po' troppo studiata da occhi che non poteva vedere direttamente. Terribilmente sgradevole.
"E tu saresti?".
"Phan Kim. Sono la nuova insegnante di yoga".
Era un americano. Kim lo capì a pelle. Nel suo Paese di americani se n'erano visti parecchi prima della sua nascita, ma ormai erano creature di turismo e bagordi. I vietnamiti non amavano dare soprannomi dispregiativi agli altri, ma fu quasi con soddisfazione che Kim pensò: Tây. Uomo bianco, occidentale. Non era un insulto, ma nella sua testa lo divenne.
L'attenzione del signor Byrd tornò quasi subito a concentrarsi su Jozefien.
"Come cazzo ti è saltato in testa di portarla in giro? Avresti dovuto portarla con te, per la riunione!" l'aggredì nuovamente. "Sei sempre la solita cretina".
Jo non rispose. Si limitò a stringere le labbra, rivolgere un'occhiata alla sua collega. Solo alla fine replicò: "Hai ragione. Scusa".
"Certo che ho ragione". Questa volta c'era una vena di soddisfazione nella voce di Byrd. "Ci mancherebbe. Muovete quel vostro culo e seguitemi".
***
Tre quarti d'ora dopo, Kim si ritrovò nella sua cabina, intenta a studiare attentamente un catalogo di orari e attività che avrebbe dovuto svolgere nei giorni a venire. Aveva già letto e riletto quel foglio ancora fresco di stampante, ma ancora non si capacitava di alcune cose scritte lì sopra. Era stata assunta come insegnante di yoga, no? Aveva studiato per quello. Aveva imparato tre lingue per farsi capire da almeno metà dei passeggeri di una nave da crociera. Perché vedeva altro? Perché si erano aggiunti altri lavori? La faccenda cominciava a piacerle assai poco: in qualche modo si sentiva truffata.
Ma non era solo a causa dei nuovi compiti assegnatile: la verità era che non aveva gradito in alcun modo la scenata del suo nuovo capo, scenata che si era protratta per tutto il loro viaggio verso il suo ufficio e anche all'interno di esso. Non aveva trovato professionale il modo in cui la guardava – come un cane legato alla catena che osserva un osso – e a dir poco offensivi gli appellativi con cui si era rivolto a Jozefien. Jozefien... povera Jozefien. Appena tornate in cabina si era chiusa in bagno accusando crampi da mestruazione. Kim non dubitava che fossero crampi, ma di ben altra natura.
Con un sospiro, lasciò cadere a terra il foglio che Sunday Byrd le aveva consegnato – Spero che sarà tutto di tuo gradimento, dolcezza! – e scivolò sul cuscino del suo letto. Si mise a fissare le doghe del letto soprastante e per la prima volta da quando era partita, sentì nostalgia di casa. Male: era un sintomo di disagio. Solitamente non sentiva mai la necessità di tornare a casa, a meno che si trovasse in una condizione scomoda. Aggrottò la fronte e ripensò alle molte cose successe in poche ore. Forse stava esagerando, stava giudicando con occhio fin troppo critico tutto quello che era accaduto. La Emerald l'aveva messa a disagio? Beh, normale: non era più una passeggera ma una dipendente e poi i ricordi, si sa, con il tempo prendono sempre una sfumatura di irrealtà. Forse la Diamond non era stata così bella. Probabilmente era più brutta della Emerald, avendo quasi quindici anni di differenza. Era una delle maledizioni della crescita: si rimaneva troppo con i piedi piantati per terra. Kim sapeva di aver perso la capacità di vedere la magia in ogni dove. Inoltre, quello era un lavoro vero e proprio, non come le ripetizioni che le avevano fruttato i soldi per comprare i libri scolastici o i lavoretti in casa delle vecchiette del suo quartiere. Era normale che ci fossero alti e bassi, che non tutti i colleghi fossero simpatici. Si disse che era già stata fortunata a trovare una compagna di stanza come Jozefien, forse sarebbe stato un po' esagerato chiedere anche un capo gentile.
Sì, forse stava davvero esagerando. Era una donna forte, se lo era ripetuto sempre, fino alla nausea. Era una donna forte, fortissima. Non sarebbe stato un pallone gonfiato americano a farle paura o a farle desiderare di tornare a casa.
"Non hai i vestiti per il lavoro" disse Jo. Kim spostò lo sguardo dalle doghe a lei e la vide sulla soglia del bagno. Sembrava tranquilla e quando incrociò i suoi occhi le sorrise.
"Come stai?" le domandò Kim, non lasciandosi ingannare dalla sua espressione. "Non ti ha trattato molto bene".
"Fa sempre così. Ha un pessimo carattere. Ci mette poco a entrare sufficientemente in confidenza e ancora meno per iniziare a insultarti".
"Perché ce l'ha con te?".
"Fa così con tutti. Anche con Alicia, l'insegnante di ballo. Solo che lei è una tosta e lo mette al suo posto, mica come me...".
Jo si rattristò, ma prima che Kim potesse dire o fare qualcosa, tornò a sorridere come se non fosse successo nulla.
"Dobbiamo prenderti dei vestiti per il lavoro" disse. "E poi fare un salto alla mensa dei dipendenti. Alle quattro i passeggeri si imbarcheranno e noi dovremo essere pronte. Per oggi ho già sentito urlare troppo Sunday".
"Ma non esiste un sindacato dei lavoratori da cui lamentarsi? Non so, un superiore del signor Byrd a cui dire come si comporta".
Jozefien la guardò stranita. Poi scoppiò a ridere. "Kim, siamo su una nave da crociera".
"Sì. Allora?".
"Queste cose non esistono qui. O se esistono, non funzionano. Sunday fa quello che vuole perché è lui il capo di sé stesso. Fin quando non va a disturbare un passeggero, con lo staff fa quello che vuole".
Kim trovò quella spiegazione un po' troppo apocalittica, fece per ribattere ma Jo la anticipò dicendo: "Pensi che la Emerald non avesse un'insegnante di yoga prima di te?".
All'improvviso fu tutto molto chiaro e la ragazza capì. Non fece altre domande: si limitò a pizzicarsi la radice del naso con due dita, pensosamente. Sunday Byrd forse le avrebbe causato qualche problema, ma quello era pur sempre il sogno della sua vita. No, decisamente: quel dannato americano non avrebbe rovinato ogni cosa. Glielo avrebbe impedito.
Non è di certo legale rovinare i sogni altrui.
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