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3: in cui c'è un Atrio e si infrange qualche ricordo

Jozefien la guidò agli ascensori.

"Questi portano dovunque tu voglia andare" le disse, con uno dei suoi larghi sorrisi. "Saliamo al terzo ponte. C'è l'Atrio, che è davvero bello".

Kim si sentì percorrere da un brivido. L'Atrio. Il luogo che, sulla Diamond, le aveva fatto perdere la testa per le navi da crociera. Improvvisamente sentì le mani formicolare e la testa girare deliziosamente. Era quello che attendeva da quindici anni e solo ora lo comprendeva: rivedere l'Atrio avrebbe dato senso a ogni cosa avesse fatto, detto e programmato dagli undici anni in poi. Si riscosse violentemente quando Jo le posò una mano dal palmo largo sulla spalla.

"Ehi, sicura di stare bene?" le domandò. Questa volta non c'era voglia di scherzare nella voce dallo strano accento di Jozefien. Kim la guardò stupita, poi si sbrigò ad annuire e sorridere.

"Sì, sono solo emozionata".

"Mai salita su una nave da crociera?".

"Solo una volta".

Jo ammiccò verso di lei. "Allora capisco l'emozione. A me cominciano a far venire il voltastomaco".

Le porte dell'ascensore dinnanzi a loro si aprirono emettendo un tintinnio di avviso. La calda luce al suo interno investì piacevolmente Kim, che si ritrovò a sorridere a uno specchio. Le altre due pareti erano rivestite di legno damascato. I decori brillavano perché all'interno delle sagome floreali erano stati sistemati vetri riflettenti. C'era profumo di pulito e una musichetta d'ambiente riempiva l'aria fresca del minuscolo locale semovente.

"Allora andiamo al terzo? Aggiudicato?" chiese Jo, pigiando allo stesso tempo il numero. Kim annuì e contrasse le dita di mani e piedi - con fatica, a causa delle scarpe da tennis – per l'emozione. Se fosse stata più chiacchierona, avrebbe probabilmente già spiegato alla sua accompagnatrice il motivo del suo sorriso da bambina per la prima volta al luna park, ma non era mai stata molto loquace, soprattutto con le persone conosciute da poco.

"Il terzo ponte si chiama Tennyson" disse invece. Tipico: quando era nervosa o agitata, diceva qualcosa che potesse passare per un'informazione utile. In realtà era un meccanismo per evitare di cadere in un silenzio imbarazzante col proprio ospite. I fatti casuali potevano apparire divertenti o interessanti e impedivano ai presenti di pensare che Kim avesse qualche problema di socializzazione. Non li aveva: era solo introversa e di poche parole. La gente trovava spesso la faccenda difficile da digerire.

"Sì, esatto!" rispose vivacemente Jo. "Bravissima! Io ne so tipo due di nomi, sai. Li chiamo con il loro numero. Non mi ricordo mai tutti quei nomi yankee".

Kim fece un mezzo sorriso, pensando che Jozefien non avesse ben capito che i ponti della Emerald portavano nomi di poeti inglesi, non americani. Forse glielo avrebbe anche detto, se l'ascensore non le avesse avvertite di essere arrivato.

"Eccoci" disse la ragazzona olandese, con un sorriso da un orecchio all'altro. "Pronta?".

"Pronta" confermò Kim. Il cuore le batteva nella testa. Avrebbe ritrovato l'antica magia o sarebbe rimasta delusa, perché agli occhi ingenui di una bambina si erano sostituiti quelli di una giovane donna?

Mise un piede fuori dall'ascensore e pregò che fosse la prima opzione. Si ritrovarono in un corridoio arioso illuminato da luci gialle racchiuse in lampade a muro a forma di stella a molte punte. Il pavimento era di marmo, a rombi verde scuro e bianco e subito a sinistra dell'ascensore si apriva una nicchia di moquette marrone a fiori con due tavolini, un piccolo divano e tre poltroncine verdi. Jozefien le picchiettò su una spalla e le fece un cenno. Dovevano seguire quella strada per arrivare all'Atrio. Kim ubbidì, provando una sensazione di irrealtà mentre le sue scarpe risuonavano sul pavimento lustro e lucidato tanto da riflettere le luci delle pareti.

"Eccoci" disse Jo e spalancò le braccia ad abbracciare l'ambiente che improvvisamente si era aperto davanti a loro. "L'Atrio degli Smeraldi".

Non era come Kim lo aveva sempre sognato: era molto di più. L'Atrio della Diamond era bello, ma questo le generò immediatamente un sentimento più intenso. Era arioso, luccicante, onirico. Dal punto dal quale erano giunte, vide a destra un lungo bancone da bar ad arco completamente tempestato di piccoli vetri a forma di cristallo, verdi, azzurri e bianchi e illuminato da luci verdognole nascoste all'interno di lampade stellate. Sopra il bar correvano due scalinate che curvavano a destra per scendere alle sue spalle e tracciarne la parete di fondo. Le pareti di vetro del corrimano erano decorate da piccole sculture di stelle a sette punte illuminate di luce verde smeraldo e lo stesso motivo si ritrovava nelle balaustre dei due ponti che si affacciavano sull'Atrio, dietro cui negozi, angoli relax e luminose porte a finestra aumentavano il riverbero dei luccichii. Sulla sinistra del bar, sopra una piattaforma di parquet a decoro romboidale di legno e vetro verde, una decina di coppie di piccole poltrone marezzate, affiancate ciascuna da un tavolo ovale, costituivano il pubblico di un solitario pianoforte a coda, nero e lucido come un insetto, posizionato proprio al centro di quella che doveva essere la pista da ballo. Completavano il quadro le luci, anch'esse verdi e azzurre, dei magici ascensori di cristallo, sei in tutto, che potevano probabilmente salire fino al sesto o al settimo ponte.

Nella testa di Kim si fece largo un pensiero strano, che in fondo non era affatto un pensiero, ma un suono: un lieve tintinnio, come quello di uno scacciapensieri di conchiglie e perline, lo stesso che sua nonna aveva sempre avuto appeso davanti alla porta della sua veranda. Era questo che le veniva in mente, notando come lo sfavillio di ogni cosa cambiasse muovendo anche solo di una frazione di secondo gli occhi.

Alla fine riuscì a trovare un nome al sentimento che le aveva stretto lo stomaco fin dall'inizio: turbamento. L'Atrio della Diamond era bello e faceva sognare, ma aveva comunque una dimensione terrena. Quello della Emerald... non avrebbe saputo descrivere cosa generava in lei lo sgomento che provava, ma era comunque certa di sentirlo. Forse era per via delle sua fredda e aliena bellezza: tutte quelle luci verdi e azzurre davano l'idea che ogni cristallo presente nel grande salone fosse fatto di ghiaccio. La bellezza dell'Atrio degli Smeraldi si reggeva su un'ammirazione venata di riverente e istintivo timore. Kim lo capì subito: non era stata ideato e costruito con l'intento di far sentire a proprio agio gli ospiti, ma di stupirli, di inquietarli, di far provare loro un sentimento di turbata sorpresa. 

Sublime. La parola risuonò tra i cinguettii dello scacciapensieri. L'aveva già sentita da qualche parte, ma non ricordava dove. Sublime, però, era l'unico modo in cui avrebbe potuto descrivere quello che vedeva.

"Bello. Inquietante". 

Jozefien la risvegliò dai suoi sogni e occhi aperti. Kim le lanciò uno sguardo e notò che annuiva tra sé e sé.

"A me non piace particolarmente" aggiunse. "Cioè, è roba bella, non dico il contrario. Ma a me i colori così non piacciono molto. Mi sembra di stare in una di quelle stanze dei colori... come si chiama...".

"Cromoterapia?" tentò timidamente Kim. Jo batté le mani e le sorrise.

"Esatto! E io non credo nemmeno in quella roba. Tutte cazzate per gente che ha bisogno di alleggerirsi le tasche".

Kim non rispose. Non ci aveva mai riflettuto e non le interessava particolarmente. Quello che la lasciava stupita era la scelta peculiare dell'architetto o del designer che si era occupato del salone. Esattamente come aveva fatto per Venezia, Kim non poté fare a meno di trasformare l'Atrio in una persona. Era una delle sue abitudini, era un modo per razionalizzare il mondo attorno a lei. Questa volta si trovò davanti ad una incantevole regina-bambina della neve e del ghiaccio, un'altera adolescente con una corona di cristalli e la pelle diafana, a tratti verdognola. Giovanissima, ma in grado di incutere il dovuto rispetto. Un po' come tutta la Emerald, no? Era stata varata un anno prima, l'ultimo gioiello della compagnia già proprietaria di navi famose come la Ruby e la Opal, la nave che aveva ospitato contemporaneamente un Festival del Cinema e un matrimonio tra rampolli di mecenati indiani.

"Sei soddisfatta? Ti aspettavi qualcosa di diverso?" domandò Jozefien. Kim scosse la testa, senza distogliere lo sguardo. No, lo spettacolo era stato anche al di sopra delle proprie aspettative. Eppure perché non si sentiva davvero contenta? Cercò di non lasciarsi prendere da quello strano sentimento, così sorrise a Jo e le disse: "Saliamo a vedere il resto?".

"Ma certo".

Tornarono all'ascensore e ci salirono nuovamente sopra. Kim si rese conto di non aver visto molte persone. Ne chiese il motivo a Jozefien, che era sicuramente più esperta di lei.

"Stanno facendo le ultime pulizie e gli altri, quelli che non fanno le pulizie, si stanno prendendo qualche ora di riposo" spiegò lei, pigiando il tasto che le avrebbe portate al ponte Nove, o meglio, al ponte Shelley. Si voltò verso Kim con le braccia abbronzate arrovesciate sui fianchi e aggiunse: "Ti voglio portare a vedere i ponti esterni, dove lavoriamo entrambe. Nei ponti in mezzo al Tre e al Nove c'è di tutto, ristoranti, teatro, bar, sale da ballo, altre robe. Se dopo hai voglia e tempo, andiamo anche lì".

"Devo andare a parlare con una certa Sunday Byrd" disse Kim.

"Una certa? Byrd è un uomo".

"Un uomo? Ma non è un nome da donna?".

Jo le rivolse uno sguardo divertito, ma non replicò. L'ascensore emise di nuovo il segnale di arrivo e le due scesero nell'ennesimo corridoio, questa volta di piastrelle di ceramica con eleganti decori di tralci d'edera e di vite, un motivo bucolico che poteva solo anticipare un salone da buffet. Ed eccolo, infatti: strutturato su due piani, il ristorante self service Belle Dame rappresentava un paradiso per qualunque appassionato di cibo. I suoi lunghi banconi ricoperti di mosaici raffiguranti fiori e foglie intrecciati nei capelli di bellissimi volti femminili offrivano un vasto assortimento culinario, dalla pizza ai dessert più elaborati, passando per barbecue, fritti, pasta di tutti i tipi, un ricco buffet vegano e grandi fontane di cioccolato fuso. Entrambi i ponti erano occupati da tavoli, poltroncine e sedie, tutti sulle tonalità del verde scuro e dell'oro, colonne a forma di driade con occhi di smeraldo e tappeti floreali. Lampade a stella emanavano una luce dorata.

Era decisamente un luogo più accogliente rispetto all'Atrio, soprattutto perché Kim si rese immediatamente conto di alcune presenze umane. Si muovevano rapide e distaccate rispetto a tutto quel lusso scintillante: dietro i banconi, attorno ai tavoli, vicino alle vetrate da cui si poteva osservare una parte del canale della Giudecca. Nella mente di Kim comparve l'immagine di un piccolo uccellino, un bulbul. Vedeva sempre quei passerotti crestati sugli alberi nel parco vicino casa: scattavano da un ramo all'altro proprio come i domestici e i cuochi lì presenti. Cercò di concentrarsi su una di quelle ombre di luce e per un secondo le parve di intercettare un viso nascosto dietro il vetro a protezione del banco dei dolci, ma poi Jozefien parlò ad alta voce, facendole prendere un colpo e perdere l'occasione.

"Siva! Hey, Siva!".

Per un attimo Kim pensò che Jo fosse impazzita e stesse invocando – in modo un po' troppo informale per essere ascoltata – il dio della Trimurti indiana, ma quando una voce le rispose – una voce decisamente umana - capì che doveva essere il nome di qualcuno. Meglio: della donna che, comparsa da dietro una delle colonne istoriate, venne loro incontro a brevi ma veloci passetti. Aveva la pelle scura del popolo Tamil e un corpo pesante costretto in una camicia bianca e un grembiule verde scuro, eppure si muoveva con grazia e rapidità. Doveva essere una cameriera, Kim lo dedusse proprio da quella sua bravura nell'evitare di inciampare nei mille ostacoli della sala da pranzo. Quando fu sufficientemente vicina, le diede circa sessantacinque anni: la pelle del viso e del collo era un poco cadente e profonde mezzelune nere erano disegnate sotto i suoi occhi. I capelli neri, legati in una treccia lassa avvolta dietro la testa, erano venati d'argento. Portava due minuscoli cerchietti d'oro a lobi allungati da anni di orecchini ben più pesanti e la targhetta dorata appuntata sul seno. Kim vi lesse un nome lunghissimo e subito sotto individuò la bandierina dell'India.

"Ciao, Jozefien" disse la signora, parlando con un inglese privo di qualsivoglia accento. "Come mai qui?".

Nonostante l'aspetto consumato, i suoi occhi erano svegli e sfrecciarono sul volto di Kim, rendendo vana la domanda appena posta. La ragazza ricambiò e si chiese, confusamente, come mai non portasse il bindi. Non era forse il simbolo delle donne indiane? O forse era solo uno stereotipo?

Jo le circondò le spalle con una delle sue lunghe braccia e rispose: "Sto portando in giro la mia nuova amica. Kim, ti presento...".

"Sivashangari Ram Kumar" la interruppe la donna. "Meglio se lo pronuncio io, conoscendo la tua incapacità di rendere giustizia al mio nome".

Jozefien sorrise, come se l'altra le avesse fatto un complimento. "Siva ha la lingua molto tagliente".

"Solo con chi se lo merita" tese una mano a Kim, che gliela strinse. Aveva un palmo ruvido, vecchio. La ragazza si chiese se non avesse dovuto darle qualche anno in più.

"Io sono Kim" le disse.

"Vietnamita" precisò Jo. "Non cinese. Nuova insegnante di yoga, eh già".

"Yoga" ripeté Sivashangari. "Forse intendevi yoga per bianchi".

Kim sapeva cosa la donna intendesse. Accennò un sorriso di scuse e, con imbarazzo, rispose: "Purtroppo".

"Siva". 

Una vocina delicata invocò la signora alle spalle di Jo. Sia lei sia Kim si voltarono, incrociando il volto di una ragazza giovanissima dalla pelle giallastra, con begli occhi scuri a mandorla e lisci capelli neri sistemati in uno chignon. Kim notò il suo imbarazzo non appena si rese conto di essere osservata.

"Arrivo, On" rispose Siva, tornando a guardare le sue due ospiti. "Scusate. Avremo modo di conoscerci meglio, signorina".

Le superò senza aggiungere altro e raggiunse la giovane, che le si strinse contro come un cucciolo perso. Tornarono immediatamente al lavoro. 

"Beh" disse Jozefien dopo quasi un minuto. "Saliamo?".

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