10: in cui un frullato rovina una serata e un piatto di riso freddo la risolleva
Kim non aveva pensato che rifiutare con disprezzo una persona viscida come il signor Sunday Byrd avrebbe portato a conseguenze negative. Insomma, era lui ad avere torto. Avrebbe dovuto vergognarsi e ritirarsi nel proprio angolo dietro la lavagna, il posto degli asini e dei maleducati. Kim aveva vissuto per troppi anni in un ambiente in cui l'educazione aveva un valore e di certo non era pronta alla tempesta che iniziò ad abbattersi su di lei non appena tornata sulla nave.
Mentre la Emerald lasciava Maiorca per toccare le coste di Barcellona, Malaga e Cadice, avviandosi inesorabilmente verso l'oceano Atlantico, Byrd decise che era tempo che quella sciocca ragazzetta venisse punita.
Kim si ritrovò con il triplo del lavoro: dovette iniziare a tenere lezioni fino all'ora di cena, nonostante le persone interessate fossero pochissime e alle volte non arrivassero nemmeno al numero di tre. Sunday non sentiva ragioni: aveva un contratto di lavoro flessibile e questo significava che in ogni momento, durante quella che era la sua giornata di lavoro, dalle sei del mattino alle dieci di sera, poteva essere chiamata per qualche attività. Non era importante che tre quarti di queste fossero evidenti punizioni inutili.
Kim resistette tre giorni, ma quando la nave riprese il mare per Funchal, una piccola isola al largo del Marocco, si presentò nel suo ufficio per fargli presente che le ore spese a ripetere tecniche yoga a un paio di passeggeri annoiati non si potevano di certo definire lavoro. Sunday sorrise, tirando le labbra in un sogghigno divertito. Kim sapeva che godeva della sua lenta tortura, perché era un uomo incapace di accettare dei no. Gliel'avrebbe fatta pagare fino al momento in cui non gli avesse permesso di averla vinta.
"Se non ti piace il tuo lavoro, io non ci posso fare granché" le disse, ostentando una calma del tutto innaturale. "Forse non dovresti stare su questa nave".
"Io amo il mio lavoro" rispose Kim, gelida. Byrd si strinse nelle spalle e sospirò con fare paziente.
"Gli errori si pagano, carina. Non è di certo colpa mia se hai preso la decisione sbagliata".
Kim ebbe un moto di puro odio nei confronti del superiore. Stava parlando della sua decisione di imbarcarsi, ma tra le righe era palese il riferimento a quello che era successo tra loro. Non era solo arrogante, ingiusto e barbaro: Byrd era anche molto furbo. Kim ripensò a quello che Jo le aveva detto, il primo giorno di lavoro: non era la prima insegnante di yoga passata per i ponti della Emerald. Che la ragazza prima di lei si fosse licenziata per disperazione? Non avrebbe mai pensato di ammetterlo, ma la prospettiva di scendere da quella nave per non vedere mai più il signor Byrd era alquanto allettante.
Fu con estrema fatica che ritrovò la tranquillità necessaria affinché la sua voce non tremasse, ma quando fece per rispondere, Sunday Byrd l'anticipò.
"Comunque ho preso atto delle tue lamentele. Vedrò cosa posso fare".
Kim uscì dal suo ufficio con un profondo senso di disagio e molti cattivi presagi. Pensò di parlarne con Jo, ma quando se la trovò davanti al bar, sorridente come al solito, non ebbe cuore di nominare Byrd. Si disse che le acque si sarebbero calmate, prima o poi. L'uomo avrebbe trovato una nuova giovane ragazza da torturare, si sarebbe stancato di lei. Kim se lo augurava con tutta sé stessa, perché aveva il cuore pesante e un senso di oppressione perpetua aveva iniziato a oscurare le sue giornate.
Il giorno successivo parve esserci un timido miglioramento: Byrd non le diede fastidio per tutta la mattinata e Kim poté fare le sue lezioni canoniche tranquilla, anche se in punta di piedi, aspettandosi l'ennesima richiesta. Quando giunse l'ora di pranzo, un barlume di speranza si insinuò dentro di lei: forse Byrd si era messo una mano sulla coscienza e aveva capito che il suo comportamento era stato inaccettabile. Forse l'avrebbe lasciata in pace. Ovviamente era solo un'illusione, che si mantenne viva, però, fino all'ora di cena. Mentre la Emerald attraccava a Funchal e Kim finiva di ritirare i materassini usati per l'ultima lezione, Byrd comparve con il suo solito passo marziale, gli occhiali riflettenti la luce incendiaria del tramonto. Quando la ragazza si voltò a guardarlo, avendo udito i suoi passi, ebbe come l'impressione, per un secondo, di guardare negli occhi un demone.
"Ah, eccoti qui, carina. Fortuna che non sei ancora andata a divertirti".
Kim si irrigidì, stringendosi contro un materassino. Nella sua testa sfarfallarono molte immagini che spiegassero la presenza dell'uomo su quel ponte, una più spiacevole dell'altra. Alla fine cercò di allontanare i cattivi pensieri e domandò: "Mi cercava?".
"C'è stato un piccolo incidente nel deposito".
Il deposito era una stanzetta piena di oggetti sul ponte Shelley, poco distante da uno degli ingressi al buffet. Tutti i materassini, gli elastici e i famosi tubi di gomma usati in piscina venivano riposti lì durante la notte. Ogni due settimane il signor Merry – o meglio, la signorina Torres – passava a fare il check e a valutarne le condizioni.
"A quanto pare qualche testa di cazzo – quasi sicuramente quella cogliona della tua amica – ha lasciato la porta socchiusa e un bambino ha deciso bene di fare un macello con il frullato che aveva in mano proprio lì dentro. Ci sono un sacco di cose da pulire per mettere a lucido quello sgabuzzino".
Kim rimase in silenzio per un lungo istante, incapace di comprendere se Byrd la stesse prendendo in giro o meno. Fu con un tono alterato dallo shock che disse: "Non è nelle mie mansioni".
"Da oggi sì. Hai detto che volevi un lavoro più soddisfacente, no? Cosa c'è di meglio di questo?".
Il ributtante sorriso dell'uomo le scatenò un conato di vomito. Avrebbe voluto mettersi a urlare, magari offendendo lui e tutta la sua schiatta, ma era troppo ben educata e troppo timida per farlo. Annuì, ma con il pensiero rivolto a un progetto.
Byrd parve quasi infastidito dal fatto che lei si fosse piegata alla sua richiesta senza neanche protestare, ma non sapendo che altro fare per torturarla, le augurò sarcasticamente una buona serata e se ne tornò dal buco da cui era venuto. Kim attese di essere sicura che non sarebbe tornato, dopodiché si incamminò velocemente verso gli ascensori. Cinque minuti dopo si trovava davanti a uno degli uffici dello staff al ponte Zero. Sulla targhetta c'era scritto il nome di una persona che lei conosceva solo per la sua reputazione. Bussò un paio di volte prima che una voce stanca le desse il permesso di entrare.
"Buonasera, signor Merry. Spero di non disturbarla" disse, entrando nel piccolo locale occupato dal direttore di crociera. L'uomo, uno stempiato sessantenne con occhi ingigantiti enormemente dalle lenti ovali degli occhiali e l'aria esausta, alzò gli occhi dallo schermo del PC su cui stava lavorando. Sulla sua scrivania c'erano delle cornici, una serie di cartellette verdi ammonticchiate con cura e un piatto di plastica ormai vuoto, che doveva essere stata la sua cena.
"Sì? Lei è?".
"Phan Kim. Sono l'insegnante di yoga".
"Ah, sì. La nuova insegnante di yoga" fece per lanciare un'occhiata al computer, ma tornò subito a posare i suoi occhi su di lei. Cercò di aprirsi in un sorriso cordiale. "Cosa posso fare per lei?".
"Vorrei presentare una lamentela".
"Di che tipo?".
"Il signor Byrd pretende che io svolga mansioni a me non attribuite".
Non appena ebbe pronunciato il nome del suo superiore, Kim capì che la sua visita si sarebbe conclusa con un nulla di fatto. Albert Merry parve rinchiudersi a riccio in un cheto sospetto, perché pronunciò molto lentamente le parole seguenti: "Che tipo di mansioni?".
"Pretende che io, stasera, pulisca da cima a fondo il deposito degli oggetti di ginnastica".
"Beh..." tergiversò l'uomo. "La pulizia è una cosa molto importante ed è qualcosa che viene richiesto a tutti".
Kim rimase in silenzio, annichilita, mentre l'uomo cercava qualcosa sul PC. Alla fine trovò quello che voleva e aggiunse: "Inoltre vedo che nel suo contratto sono state inserite una serie di mansioni supplementari oltre allo yoga e in effetti c'è anche quello del mantenimento e della cura degli strumenti utilizzati. Quello non è il deposito degli strumenti che lei stessa usa?".
"Sì" rispose la ragazza, con la nausea e un vago senso di disperazione. Merry si strinse nelle spalle con sguardo dispiaciuto. "Mi dispiace che debba fare la notte, ma io non posso fare nulla al riguardo".
Kim non tentò di ribellarsi né di far ragionare il direttore di crociera: aveva il presagio che non ne avrebbe cavato un ragno dal buco. Doveva solo mettersi il cuore in pace e capire che Byrd l'avrebbe sempre fatta franca, perché era di alto grado, era bianco e, soprattutto, era maschio. Uscì dall'ufficio del signor Merry trascinando con sé quella poca voglia di vivere che aveva e risalì al ponte Shelley. Il sole non era che un disco rosso lontano all'orizzonte e, mentre si accendevano i fari notturni, Kim si mise al lavoro, per quanto ingrato e ingiusto che fosse.
***
Quando finalmente Kim raggiunse la porta della sua cabina, era quasi mezzanotte. Si sentiva a pezzi: aveva dolore alle ginocchia perché era stata costretta a lavare a mano il pavimento del deposito, le dolevano le spalle e c'era un punto della testa che pulsava sordo, perché a un certo punto aveva anche tirato una testata all'anta di un armadietto. Aveva pianto un poco, singhiozzando seduta nella macchia di frullato che aveva già iniziato a puzzare. Era tanto triste da non aver nemmeno fame. Aprì la porta strofinandosi gli occhi gonfi, pensando al fatto che avrebbe dovuto muoversi in silenzio per non svegliare la sua coinquilina, ma trasalì bruscamente quando sentì Jo esclamare: "Kim! Ma dove eri finita?".
Gli occhi di Kim ci misero un attimo a mettere a fuoco la stanza in penombra, illuminata solo dalla fioca luce del televisore acceso, ma quando ormai sembrava sul punto di riconoscere il profilo delle figure, la plafoniera si illuminò e a lei fu strappato un gemito. Si coprì gli occhi e per questo si accorse che Jozefien le si era fatta incontro solo quando la tirò nella cabina, chiudendo la porta.
"Hey, che fine hai fatto? Ti ho aspettato a cena e poi al bar, ma... perché hai gli occhi gonfi?".
Jo le prese il viso tra le mani e davanti al suo sguardo preoccupato, Kim non riuscì a contenersi. Si mise a singhiozzare come una bambina e lasciò che Jo, stupita, la trascinasse fino al suo letto, dove la mise seduta, prima di recuperare lo sgabello nascosto sotto il mobile per sé.
"Kim...".
"Io non ce la faccio più" sussurrò la ragazza, coprendosi il viso con entrambe le mani. "Sta rendendo la mia vita un inferno".
"Chi?".
"Byrd".
"Quello stronzo." Kim non aveva mai sentito Jo ringhiare, ma fu sufficientemente minacciosa da costringerla a guardarla. Jo le rivolse uno sguardo arrabbiato, ma subito dopo si tese verso la credenza, recuperò un pacchetto di fazzoletti e gliene tese uno, assieme a una carezza sul viso.
"Ora respira e soffiati il naso. Sei super stanca e... hai mangiato?".
Kim scosse la testa e Jo sorrise. Si alzò, aprì un'antina e ne estrasse un piatto di alluminio coperto di stagnola. "Non sapevo se lo avessi fatto, così nel dubbio ti ho preso qualcosa in mensa. Riso freddo".
"Grazie" bisbigliò Kim, la voce corrotta da una bolla di muco in gola, distratta per un secondo dalla gentilezza della sua collega. Jo tolse la copertura, recuperò l'unico cucchiaio di metallo che possedevano e le tese il piattino.
"Dai, avrai fame. E se vuoi puoi raccontarmi quello che è successo".
Aveva creduto di non essere affamata, ma non appena la prima cucchiaiata di riso toccò la sua lingua, capì che sarebbe stato l'unico modo per fermare la nausea. Così come condividere la sua triste esperienza. Raccontò a Jo ogni cosa, dal viscido tentativo di approccio di Sunday alla sua vendetta, dal frullato nel deposito all'inutile signor Merry.
"Io non ho mai lasciato aperta la porta del deposito. È un bugiardo schifoso. Scommetto che è stato proprio lui a fare tutto quel macello, giusto per fartela pagare".
"Io non so davvero cosa fare, Jo. Non voglio cedere al suo ricatto".
"Ci mancherebbe. Quel lurido... è pure sposato, lo sapevi? Sposato con due figli. Buraku di sanka".
Kim finì sconsolata il suo riso e dovette ammettere a sé stessa che forse il pianto era stato causato anche dal calo di zuccheri.
"Grazie, Jo".
"La prossima volta che ti rompe le palle per qualche lavoro, chiamami. Di sicuro in due lo finiamo prima".
"Cosa? Come chiamarti?".
"Non esiste che ti lasci in balia di quello stronzo".
"Jo" la implorò Kim, "Lo sai che si accanirebbe anche su di te"
"Come ti ho già detto non può fare altro che insultarmi, perché ancora non ha il diritto di tagliarmi la testa. E io la mia amica la aiuto quando cazzo mi pare".
La ragazza rimase in silenzio, provando un sincero e tenero affetto verso Jozefien. Doveva essere una di quelle persone che tollerava qualsiasi sopruso su sé stessa ma non sulle persone a cui voleva bene. Fare parte della categoria era motivo di strano e sentito orgoglio per Kim.
Posò il piattino sulle lenzuola e sorprese Jo lanciandole le braccia al collo. Si ritrovarono entrambe piegate in avanti, strette in un disarticolato abbraccio.
"Ora non ci pensare. Pensa che dopodomani sarà la nostra ultima sera sulle coste di questo continente. Partiamo per l'Atlantico. E sai cosa si fa quando si arriva fin qui?".
Kim si scostò un poco per guardarla negli occhi. Quelli azzurri di Jozefien le sorrisero di rimando.
"Cosa?".
"Una festa. Una grande festa del crew. Ovviamente sei invitata anche tu".
"Ma, io...".
"Non ci sarà Sunday".
A Kim non piacevano molto le feste, ma pensò di aver profondamente bisogno di un momento di svago dal ribollente brodo di problemi che era diventato la sua vita. E poi ci sarebbe stata Jo.
"Va bene, certo".
"Bene, grande! E ora fila in bagno a sistemarti, che ormai è ora di dormire".
Kim ubbidì e mentre si lavava i denti ringraziò silenziosamente gli spiriti e gli dei per averle messo a fianco una persona che potesse considerare sua amica.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro