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3. Non sono analfabeta

Quando lo zio lasciò la camera, la prima cosa che fece Dragana fu avvicinarsi alle finestre. Spostò meglio le pesanti tende che le oscuravano la vista, così da poter scorgere cosa offrisse il panorama.

Rocce.

Rocce e tetti delle case del paese. La vegetazione era rada, perlopiù riuscì a scovare le punte degli abeti fare capolino al di là delle abitazioni, e sembrava che l'intera zona fosse circondata da aguzze montagne. Era finita in un posto sperduto tra i Carpazi. Un pensiero improvviso le assalì la mente: si scostò dalla finestra e recuperò lo zaino lasciato ai piedi del letto. Il cellulare confermò la sua più grande paura: niente campo. Come avrebbe fatto a comunicare con Sara? Se avesse dovuto trovarsi male – fatto molto probabile – con i suoi parenti, a chi avrebbe potuto denunciarlo?

Sconsolata per la scoperta si lasciò cadere sul letto, decorato da una trapunta preziosa e da una miriade di cuscini. Accarezzò i tessuti, riportando alla mente le serate passate sul divano con i suoi genitori, stretti a lei sotto una coperta che a stento bastava per tutti e tre.

Erano solo due settimane che se ne erano andati, ma le parevano passati anni e le costava ammettere che senza la loro costante presenza si sentiva persa. Si ritrovò a osservare la collana che da pochi giorni ornava il suo collo: era un ciondolo semplicissimo, della grandezza di due euro, argentato da una parte e nero dall'altra. Aveva due facce, una luminosa e una oscura, proprio come ogni persona. Come sua madre e suo padre. Quest'ultimo custodiva il gioiello in uno dei cassetti della sua camera, ma Dragana non l'aveva mai visto indossarlo e le era capitato tra le mani mentre stava inscatolando gli oggetti dei suoi genitori. In un primo momento voleva fare di testa sua, senza rispettare le direttive della dottoressa Mottin, e chiudere ogni parte di loro in quelle scatole. Non appena le sue dita erano entrate a contatto con il metallo freddo, però, subito i visi dei suoi genitori le erano tornati alla mente e la loro presenza, così pregnante in tutta la stanza, si era fatta quasi palpabile. Aveva finito di inscatolare tutto il resto, ma aveva tenuto la collana: proprio come le aveva suggerito la psicologa, un oggetto sarebbe bastato a mantenere vivido il loro ricordo.

Un bussare incerto la riportò alla realtà, lontana chilometri dalla sua casa, e la catapultò tra i monti impervi.

«Sì?» chiese titubante, temendo che Melissa o la Nonna si presentassero alla sua porta con cattive intenzioni.

Nessuno rispose, così si fece coraggio e afferrò la maniglia, tirando con più forza di quella che credeva necessaria. Davanti a sé, al posto degli occhi ghiacciati di un membro della sua famiglia, trovò le due valigie che si era portata dall'Italia. Sănder doveva essere un uomo molto timido. Le afferrò e con poca grazia riuscì a trascinarle in camera, per poi chiudersi la porta alle spalle. Aveva ancora qualche ora prima della cena, così decise di sistemare le poche cose che le avrebbero ricordato chi era stata, nella speranza che, nel tempo passato lì, avrebbe continuato a rimanere se stessa.

Aprì la prima valigia, rivelando il suo contenuto alle pietre antiche della camera: un malloppo di vestiti sbucò, spiegazzato, sotto un pesante pacchetto di album cartonati legati tra loro da uno spago sottile. Li fissò per qualche secondo, prima di afferrarli con entrambe le mani e scaraventarli lontano da sé, in un moto di istintivo disgusto. Cosa le era passato per la testa, quando aveva fatto i bagagli?

Contrariata, svuotò la valigia direttamente sul letto, così che potesse piegare nuovamente i vestiti e riporli nella cassettiera antica addossata alla parete. Ritrovarsi a compiere gesti meccanici riuscì a calmare i suoi nervi, ma ogni due magliette i suoi occhi saettavano agli album abbandonati ai piedi della finestra. Continuò così – maglietta, maglietta, scarpe, pantalone, maglietta, scarpe – per quello che parve un tempo infinito, fino a quando si ritrovò a piegare i jeans come fossero t-shirt.

Con un sospiro profondo abbandonò i vestiti e si lasciò trasportare verso quelli che erano stati i suoi compagni di vita per molti anni. A ogni compleanno i suoi le regalavano un album da disegno. Aveva iniziato fin da piccola a dimostrare uno spiccato interesse per l'arte e suo padre l'aveva sempre esortata a esprimersi attraverso colori e tempere. Con il tempo, Dragana aveva capito che preferiva creare disegni in bianco e nero, che amava sfumare il carboncino per creare giochi di ombre e di luci, che necessitava di imprimere su carta ogni suo ricordo, ogni posto che visitava o persona che incontrava. Negli anni aveva collezionato decine di album, le cui pagine racchiudevano i suoi ricordi più belli. Li aveva portati con sé in Valacchia, convita di potervi trovare conforto quando avesse avuto nostalgia, ma con i loro fogli pregni di grafite non facevano altro che ricordarle ciò che aveva perso.

Fu tentata di prenderli e donarli, uno a uno, alle fiamme del caminetto, ma si fermò prima che se ne potesse pentire. Li chiuse, invece, nella valigia che aveva appena liberato, intenzionata a tenerli lontano dalla sua vista. Non aveva avuto un album nuovo, quell'anno, né aveva portato con sé il materiale da lavoro: avrebbe dimenticato il disegno e avrebbe scordato la libertà che le donava, timorosa di rimanere intrappolata in una realtà che ormai non le apparteneva più.

Passò alla seconda valigia, decisamente più pensate della prima. Dentro aveva stipato tutti i libri di sua mamma: era una storica e amava profondamente l'essere umano, tanto da volerne ripercorrere i trascorsi. Dragana era sempre rimasta affascinata da come la madre sapesse trasformare la realtà storica in una coinvolgente narrazione e, soprattutto, da come non fosse barricata all'interno delle sue credenze: sua mamma alternava i racconti sui Romani alle leggende dell'Antico Egitto, le avventure di Colombo ai miti indiani, e così via fino a creare mondi fantastici intrisi di storia. Sua madre era una mente creatrice e Dragana non aveva avuto il coraggio di abbandonare la sua anima in una casa che sarebbe presto diventata dimora di qualche sconosciuto.

Si rese conto solo in quel momento che, forse involontariamente, aveva portato con sé l'essenza della sua famiglia con soli tre oggetti: l'arte con i suoi album usurati, la Storia con i libri di sua mamma e il profondo legame che intercorreva tra loro con la collana di suo padre. E, improvvisamente, si rese anche conto che, nonostante loro non ci fossero più, aveva tutto quel che le serviva per andare avanti.

Quando si accorse che erano le otto precise, finì di sistemare l'ultima maglietta nel cassetto e uscì di corsa dalla camera. Non avrebbe messo in discussione le parole dello zio e il breve incontro con la nonna le era bastato per capire che non avrebbe dovuto trasgredire alle sue regole. Quindi si affrettò, percorrendo il lungo corridoio fino ad arrivare alla scalinata principale: stava per fiondarsi lungo i gradini quando entrò in collisione con un altro corpo.

«Prost» sibilò Melissa, massaggiandosi la spalla e scostandosi da lei quasi non volesse toccarla. Ciò che più terrorizzava Dragana era l'immensa calma della cugina: fosse stata una qualsiasi ragazza si sarebbe messa a urlare risentita, invece Melissa si limitò a fissarla con disprezzo. Non sembrò nemmeno aspettarsi delle scuse, pareva bastarle fare sentire Dragana costantemente inappropriata.

«Scusa» sussurrò comunque, giusto per mantenere la facciata da ragazza educata.

«Provaci ancora e ti mostro io dove infilare le tue scuse. Levati» le rispose con tono pacato, prima di superarla e scendere le scale con eleganza.

Dragana rimase a fissare le sue spalle allibita, fino a quando una voce conosciuta si fece spazio nelle sue orecchie, propagandosi tra i muri dell'entrata: era la nonna e, sentendola, Dragana capì di essere in ritardo.



Quando si sedette a tavola si sentì oppressa dagli sguardi penetranti di Melissa e della nonna. La sala da pranzo occupava l'ala est della casa e, grazie con le sue vetrate alte, Dragana immaginò che al mattino potesse ricevere tutta la luminosità del sole. In quel momento, però, con la notte impetuosa che minacciava di inghiottire ogni cosa, tutto ciò che riusciva a osservare erano gli archi trilobati illuminati da gentili lucernari: la sala presentava tre possibili entrate e le forme curve che le decoravano creavano un clima maestoso e anticheggiante. Sopra di loro, a rischiare la sera, pendeva un lampadario in ferro battuto, le cui lampadine erano avvinghiate da intricate volute.

La nonna e lo zio si erano accomodati ai capi opposti della tavolata – che sarebbe bastata per ospitare almeno venti persone –, mentre Dragana aveva scelto di stare alla larga da Melissa, sedendosi il più vicino possibile a zio Mac.

A rompere la tensione fu Sănder, che si presentò nella sala da pranzo con un carrello carico di piatti. Dragana non aveva ancora capito quale fosse il suo lavoro lì, ma veniva trattato come un vero e proprio tuttofare. L'uomo posizionò un piatto fumante di fronte a Dragana e quando la ragazza riuscì a intravedere la portata, tra le volute di vapore, sorrise spontaneamente. Sul piatto erano disposti degli involtini dal colore poco invitante, che nascondevano però un succulento tesoro: uova, riso, carne e spezie aspettavano solo di essere liberate dalla foglia di cavolo che le avvolgeva.

«Lo conosci?» le chiese lo zio, vedendola già addentare il primo pezzo.

Dragana annuì enfaticamente, mentre il sapore deciso della carne le raschiava la gola. «Găluscă» bofonchiò, buttandosi sulla panna acida che Sănder aveva appena posato vicino al suo gomito.

«Noi lo chiamiamo sarmală» la corresse lo zio.

Dragana alzò le spalle noncurante: erano solo etichette, il piatto rimaneva sempre lo stesso. Era uno dei preferiti di suo padre, nonché il piatto delle "serate felici": Crin raramente riusciva a tornare in tempo per preparare la cena, ma quando succedeva chiamava a raccolta lei e la mamma, e passavano la serata a creare il ripieno e a sbollentare la verza. Il profumo invitante riuscì, come un balsamo, a portare a galla ricordi avvolgenti e, chiudendo gli occhi, Dragana poteva quasi sentire il sapore di casa e percepire il gorgoglio leggero dell'Adige che accompagnava le loro serate in famiglia.

Poi l'incantesimo si spezzò e la voce di Melissa riempì la sala.

«Contieniti, văr» la ammonì, quasi avesse commesso un peccato capitale ad assaporare un buon piatto. Il modo in cui l'aveva apostrofata poteva sembrare un insulto, ma Dragana sapeva che che significava "cugina".

Prima che potesse dimostrare di non avere paura di lei, decisa a chiamarla con un termine che non aveva nulla a che fare con la parentela, lo zio le interruppe.

«Abbiamo stabilito che tra una settimana ricomincerai la scuola: ti serve del tempo per ambientarti, ma riteniamo giusto che tu concluda il tuo percorso di studi» la informò Mac.

Dragana sapeva che sarebbe arrivato un momento simile, ma sperava che Sara le avrebbe concesso più tempo. Non era sicura che sarebbe stata pronta per ricominciare qualcosa che avrebbe determinato per sempre il passaggio alla sua nuova vita.

«Non vogliamo in casa un'analfabeta» commentò la nonna.

«Non sono analfabeta» mugugnò lei, portandosi un altro boccone alla bocca.

«Esti o viperă fără părinti, vă distrugeti familia*» le risponde parlando troppo velocemente perché la potesse capire. Con i suoi occhi di ghiaccio, fissi su Dragana, la nonna aveva proprio l'aspetto di qualcuno che sarebbe stato capace di ucciderla nel sonno. Senza accorgersene, Dragana rabbrividì.

«Bunică intende che non te la cavi male, ma da ora in poi è meglio che inizi a parlare il rumeno come si deve: fare nuove amicizie, inoltre, potrebbe essere un bene per te» intervenne zio Mac.

Dragana non capì perché insistessero tanto sulla scuola: avrebbe potuto prendere lezioni e concludere il Liceo italiano da privatista. Sara non aveva accennato al fatto che avrebbe dovuto frequentare una scuola lì, anche perché sospettava ci sarebbero state materie diverse da quelle affrontate durante il suo percorso di studi. Inoltre, appena avesse compiuto diciotto anni, aveva intenzione di dire addio a quella famiglia e a quella terra sconosciuta: sarebbe tornata in Italia e avrebbe ripreso da dove il fato aveva interrotto la sua vita.

«So che non ti importa di quello che accadrà in questo anno.» Le parole di zio Mac, così in linea con i suoi pensieri, la colpirono come una pugnalata. Lui era gentile e si stava dimostrando disponibile nei suoi confronti: anche se non avrebbe mai potuto rimpiazzare i suoi genitori, era la persona che in quel momento le era più vicina. Dragana cercò di capire il suo punto di vista, ma non poteva apprezzare qualcuno che era rimasto lontano dalla sua famiglia per così tanto tempo: per lei ognuno di loro era un estraneo.

«Non è così, è solo che la mia è una situazione temporanea» chiarì.

«Lo capisco, ma penso sia importante che tu faccia tutte le esperienze di cui un'adolescente abbia bisogno: non accetterò che passi un anno intero in casa, quando fuori puoi vivere la tua vita. A meno che tu non ti trovi un lavoro» decretò Mac, prima di tornare a concentrarsi sul suo piatto.

A corto di parole, Dragana decise di rimanere zitta. Pensò che doveva aver parlato realmente con Sara, a meno che non fosse seriamente preoccupato per la sua istruzione. In ogni caso, non le restava che farsene una ragione: che le piacesse o meno, avrebbe dovuto uscire dalla sua stanza fatta di ricordi e aveva solo sette giorni per raccogliere tutti i frammenti di se stessa.


Dizionarietto

*Sei una piccola vipera orfana, stai solo rovinando la nostra famiglia

Prost: stupida, stolta

văr: cugina


NdM. Lo so, avrei dovuto aggiornare ieri, ma penso che per me sia più comodo il sabato. Allora, che ve ne pare? So che è un capitolo di passaggio, ma credo sia importante cercare di delineare Dragana prima di passare all'azione vera e propria.

Fatevi sentire nei commenti, così so se la storia vi piace o se c'è qualcosa da modificare, mi farebbe molto piacere avere uno scambio con voi!

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