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16. Sono una Ezusfat

Dopo le lezioni del pomeriggio Dragana si recò nuovamente nell'aula di arte, già pronta a sopprimere ogni suo pensiero nel buio della stanza. Nei giorni precedenti non aveva potuto impedirsi di pensare a che stirpe appartenesse l'insegnante. Forse era una Succube, anche se sospettava che il pallore grigiastro del suo volto fosse dovuto all'assenza di luce, non a una dieta a base di sangue. Oppure un'Errante e, in quel caso, non le avrebbe chiesto di spiegarle come fosse morta. Era curiosa di capire con chi avesse a che fare e, allo stesso tempo, spaventata dalla risposta che avrebbe ricevuto.

Aveva avuto paura di lei, come di Sokrat e Nastia, ma la necessità di passare del tempo da sola aveva avuto la meglio.

Quando fece il suo ingresso la mancanza di rumori attirò la sua attenzione: si era abituata a passare l'ora della lezione con il pennello della donna che accarezzava la tela, invece l'insegnante era ferma di fronte alla sua opera, gli occhi socchiusi e le mani poste in grembo.

«Ho lasciato che restassi senza fare nulla perché sei la prima che continua a venire qui, ma se non ti metti al lavoro sarò costretta a parlare con la preside.»

Dragana restò sulla soglia, avendo cura di chiudere la porta alle sue spalle per non far entrare luce indesiderata. «Posso rimanere, solo per oggi?» chiese con un filo di voce. Le sarebbe bastata quell'ora, poi avrebbe trovato un altro luogo dove rifugiarsi, ma dopo la discussione con gli amici tutto quello che desiderava era la solitudine.

«No, se hai intenzione di rimanere con le mani in mano. Non voglio scansafatiche nel mio corso.»

La ragazza prese atto che nei giorni precedenti aveva approfittato dell'aula e del silenzio per rifugiarsi in un luogo isolato. Forse frequentare un nuovo corso non sarebbe stata una brutta idea.

Alla fine, però, ascoltò l'insegnate, mosse i piedi con poca sicurezza e, una volta che i suoi occhi si abituarono al buio, iniziò a cercare quello che le serviva.

Ricordava che il materiale da disegno si trovava su uno scaffale vicino alla porta d'ingresso e, timorosa, si avvicinò: osservò a lungo i fogli dalla diversa grammatura, individuò le matite con differente durezza, i pigmenti colorati per creare gli acquerelli, le boccette di china dalle forme più disparate. Studiò ogni cosa intimidita, non avvicinandosi mai troppo, fino a che le sue mani non ebbero la meglio e si allungarono senza un suo comando, prendendo in modo automatico ciò che le sarebbe servito.

Quando ebbe raccolto tutto il necessario, si posizionò su un banchetto al centro della stanza, portando con sé anche una candela dallo stelo lungo e liscio. Accarezzò con i polpastrelli la carta dalla superficie ruvida, si beò del frusciare delle matite, dell'odore del carboncino che le solleticava il naso e del gusto amarognolo della mina sulla punta della lingua. Poi tracciò la prima linea sul foglio, riconoscendo nel grattare dello strumento da disegno un suono familiare, rilassante.

Rimase a osservare il tratto che aveva creato – nient'altro che una linea curva e precisa – lasciando che la mano ricorresse non alla sua vista, ma alla sua mente, e ricominciò a disegnare incanalando in quel tratteggiare costante tutto ciò che la turbava.

Aveva davvero avuto intenzione di rinunciare a quell'esperienza? Disegnare le dava ossigeno puro da respirare, necessario per riemergere dallo stato di apnea in cui viveva dalla morte dei suoi. Si rimproverò per essersi privata per così tanto tempo della matita che si adattava perfettamente ai calli della sua mano, della carta che presto sarebbe diventata pregna dei suoi pensieri, testimonianza di ciò che non sapeva rivelare a parole.

Lì, sotto la luce fioca della candela, capì cosa intendesse la donna: non le serviva vedere, per creare. Non le serviva avere di fronte i suoi genitori, per ricordare i tratti decisi del volto di suo padre, la curva setosa della chioma della madre, il calore dei loro abbracci, il suono delle loro risate. Erano immagini che conservava dentro di lei, a cui poteva attingere chiudendo semplicemente gli occhi. E le sue mani, arrugginite dalle settimane passate lontane dalle matite, erano lo strumento essenziale per trasformare ciò che osservava a occhi chiusi in qualcosa di concreto.

Quando terminò, non del tutto soddisfatta dal lavoro, studiò il disegno da lontano. Alcune linee erano imprecise, le proporzioni non del tutto corrette, ma l'essenza era palpabile e oggettiva: due persone innamorate ne abbracciavano una terza, di cui però Dragana non aveva tratteggiato il volto. Erano i suoi genitori, che stringevano una ragazza che non aveva ancora scoperto se stessa.

«Mi pare buono» disse di punto in bianco la donna, pulendosi le mani sulla gonna di lana.

«Il mio disegno?» chiese ingenuamente Dragana.

«No, sciocca, come potrei valutarlo? Mi pare buono che tu finalmente ti sia data una svegliata.» Dragana sorrise, riponendo la matita sul banco e osservando per un'ultima volta il sorriso dei genitori che era riuscita a ricreare.

«Ho capito cosa intendevi. Disegnare al buio non è così difficile come pensavo» annunciò, avvicinandosi al quadro che, piano piano, stava prendendo forma sotto il pennello della donna. In quel momento c'erano solo macchie colorate e Dragana si riscoprì curiosa di capire che cosa sarebbe emerso dal bianco.

«Hai tanto da imparare, bambina. Io sono Blenda Aranyfist, ma puoi chiamarmi Blenda» le rivelò la donna, dopo più di una settimana di silenzio. Dragana si diede dell'idiota: avrebbe iniziato prima a disegnare, se avesse saputo che era quella la soluzione per superare l'ostilità della donna.

«Dragana» le rispose lei, senza aggiungere altro.

«Bene, Dragana. Vuoi descrivermi cosa hai disegnato?»

«Me stessa» confessò parzialmente la ragazza. Non voleva rivelarle dei suoi genitori, per paura che poi le avrebbe fatto domande a cui non voleva rispondere.

«Un autoritratto, dunque?»

«Più o meno. Non ho completato il volto» ammise.

L'insegnate smise di dipingere, per prestarle del tutto la sua attenzione. «Un fatto curioso. Hai intenzione di finirlo?»

Dragana ci pensò. Osservò le sue scarpe logore, portando poi lo sguardo al disegno che, a causa dell'oscurità, lontano dalla candela vedeva a malapena. «Un giorno, forse.»

«Cos'è che ti spaventa tanto?» chiese la donna, con un'inclinazione di fastidio nella voce. Dragana pensò che non fosse abituata a fare conversazione, ma poi convenne che invece il problema era un altro: Blenda avrebbe voluto vedere il lavoro di Dragana e, impossibilitata, l'unico modo per conoscerlo era attraverso la descrizione della ragazza. Descrizione che lei le stava negando, per non rivelare i suoi pensieri più intimi.

«Sono diversa da tutti, qui. E non riesco più a trovare me stessa, non mi riconosco più» ammise, sedendosi sconfitta accanto all'insegnante.

«Cos'è, sei un'Intoccata e non vuoi prendere parte alla tua morte? O hai deciso che l'emoglobina animale non ti soddisfa più?» domandò Blenda, ridacchiando in modo sommesso.

«No. Sono una Ezustfat» confessò alla fine Dragana.

La donna si fermò, con il pennello sospeso nell'aria in attesa di raggiungere la tela. «Una Ezustfat nuova? La pronipote di Mac ha già avuto dei figli?»

Dragana sorrise: a quanto pareva, non tutti erano al corrente della sua identità. «No, Melissa è mia cugina. Sono... la figlia di Crin?» chiese, sperando di fugare ogni dubbio della donna nominando suo padre.

Blenda sorrise, poggiando il pennello alla base del cavalletto, lo sguardo sospeso di fronte a lei. «Oh, il caro Crin! Quello che è accaduto è stato ingiusto e non lo biasimo per la scelta che ha fatto. E ha una figlia, incredibile come voli il tempo» si lasciò scappare, persa tra i ricordi. «Da piccoli eravamo amici, le nostre famiglie erano molto legate. Giocavamo nel vostro cimitero ed ero spesso arrabbiata perché è sempre stato più bello del nostro, con tutti quei fiori e quei colori... Sarei felice di rivederlo, dopo tutto questo tempo.»

Dragana si rattristò, avversa all'idea di togliere il sorriso dal volto della donna. «Lui è morto. Poco più di un mese fa» disse alla fine, abbassando lo sguardo sulle sue scarpe.

Non l'aveva mai detto ad alta voce, nemmeno dalla psicologa. Quelle parole le erano rimbombate in testa per tutto il tempo, ma scoprì che pronunciarle faceva più male che sentirle in continuazione tra i propri pensieri.

«Oh... Non ne avevo idea, non esco molto spesso. E tu sei qui con tua madre?» si preoccupò Blenda.

Dragana deglutì. Crescere, si disse, è affrontare le proprie paure, anche se queste altro non sono che parole impronunciabili. Si diede forza.

«No, lei è... Sono morti entrambi, in un incidente sul cantiere di papà.»

La donna si voltò verso di lei, quasi avesse riacquistato il dono della vista, e le strinse una mano tra le sue. La sconosciuta aveva abbandonato del tutto la propria ostilità, forse riconoscendo in Dragana il ricordo di Crin.

«Sono cresciuta con Crin, le nostre famiglie si sono sempre rispettate in onore del sangue. Non temere le differenze degli altri: noi Mietitori siamo maledetti tanto quanto loro, anzi le nostre mani sono artefici di peccati ben più gravi di quelli dei Maledetti. Non lasciarti spaventare da ciò che non conosci, perché ben presto ti renderai conto che è proprio grazie all'ignoto che potrai capire chi sei tu. E forse, allora, potrai concludere il tuo disegno» le disse con sincerità.

Dragana si accorse che aveva usato l'aggettivo "noi": anche lei faceva parte di una famiglia di Mietitori, proprio come la ragazza. Non era mai stata incline a credere nelle parole degli sconosciuti, ma quella donna, con la sua voce sommessa e le frasi sincere, le diede speranza che forse la vita, lì, non sarebbe stata così dura.

NdM. Capitolo di passaggio breve, ma pieno di indizi che Dra ha spudoratamente ignorato xD Mentre scrivo queste note ho già la testa immersa nelle vacanze: ho revisionato i capitoli per poterli pubblicare durante la settimana senza portare con me il pc (in caso il mio aereo cadesse, la storia dovrete immaginarvela xD).

Voi andrete in vacanza? O ci siete già stat*?

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