1. Servus, Erica
*Disclaimer. La lingua che la protagonista si ritroverà a parlare è il rumeno: per ovvie ragioni i dialoghi saranno scritti nella nostra lingua, mentre userò il corsivo quando parla effettivamente in italiano, che non può essere compreso dagli altri personaggi, o quando vengono usate parole di cui la protagonista non conosce la traduzione*
Dragana si riparò gli occhi feriti dalla luce del sole che, nascosto dalle pesanti coltri di nebbia, creava un'atmosfera lattea e limbica. Con le ciglia a schermarle la vista percorse la pista d'atterraggio seguendo le altre persone e lasciandosi alle spalle il mezzo su cui avevano passato le ultime ore.
L'aeroporto di Sibiu, in Romania, accolse Dragana tra le sue salde braccia. A dispetto di quel che si aspettava, la struttura era moderna e ordinata, anche se la troppa folla iniziava a farle mancare l'aria. Si accertò di avere l'inalatore per l'asma a portata di mano; non si sarebbe concessa di abbandonarsi al panico, ma trovare con le dita la superficie cilindrica e fredda nella tasca della giacca la tranquillizzò. Si allontanò dagli altri passeggeri, aspettando che la massa di gente defluisse prima di recarsi a ritirare il suo bagaglio: a differenza di tutti coloro che stavano rientrando a casa, lei non aveva fretta.
Alzò lo sguardo sul tetto in vetro, che lasciava intravedere un cielo monocromatico e vuoto. Come lei. Nel giro di tre ore, passate ad ascoltare il suo vicino russare, si era ritrovata in un mondo completamente diverso da quello ordinario a cui era abituata. Soprattutto, vi era stata catapultata senza il suo volere.
Si scoprì a ripensare al sogno che l'aveva colta la sera prima: era solita rivivere la sepoltura dei suoi genitori e la psicologa a cui era stata affidata le aveva ripetuto più volte che era normale, perché serviva al suo cervello per metabolizzare. Aveva grande stima per la dottoressa Mottin, ma odiava la sua stessa mente, perché la costringeva a rivivere, notte dopo notte, uno dei momenti più difficili della sua vita. Quella volta, però, le sembrava di ricordare un dettaglio diverso: sentiva ancora tra le dita la consistenza liscia di una carta, gli angoli appuntiti e la leggerezza dell'oggetto sul suo palmo. Possibile che un sogno si fosse trasformato in un ricordo?
Si riscosse dai suoi pensieri quando un uomo si scontrò con la sua spalla. L'impatto la face tornare nell'aeroporto, allontanandola dal clima lugubre del cimitero che aveva visitato più volte nei suoi incubi, e le diede la carica per appropinquarsi al nastro trasportatore. Dragana attese, paziente, che le sue valigie facessero capolino: erano due pesanti bagagli neri e appartenevano rispettivamente a sua madre e suo padre, ma da quel momento poteva anche decretare che sarebbero state definitivamente una sua proprietà. Quando le intravide abbandonò lo zaino che pendeva dalla sua spalla destra e si sporse per recuperare i due macigni che contenevano ciò che rimaneva di lei: libri e vestiti. Nessuno le chiese se avesse bisogno di aiuto, nemmeno quando la sua difficoltà diventò evidente. Non ci face caso, nell'ultimo periodo aveva imparato che ricevere soccorso spontaneo non era per tutti un gesto scontato.
Cercò di lasciare da parte ogni riflessione triste, sfidando se stessa a trovare almeno un lato positivo: tentò di non pensare al fatto che non avrebbe più passeggiato per le vie di Verona, che l'assistente sociale che l'aveva affiancata nelle ultime settimane si trovasse in quel momento a più di mille chilometri di distanza e, soprattutto, si impose di allontanare dalla sua mente l'immagine della fotografia patinata che aveva scelto per la tomba dei suoi genitori.
Si diede forza pensando che avrebbe conosciuto un ramo della sua famiglia di cui fino a poco tempo prima ignorava l'esistenza, ma in fondo al suo cuore Dragana sapeva che niente avrebbe potuto risollevarla. Era consapevole che nei suoi occhi chiunque, con un po' di attenzione, avrebbe potuto scorgere un costante velo di tristezza, ma cercava di nasconderlo abilmente con la sua facciata di determinazione e con lo strato pesante di ombretto nero. Le sue labbra non si sollevavano in un sorriso da troppe settimane: non l'avevano fatto nemmeno quando Sara, l'assistente sociale, le aveva detto che avevano rintracciato un parente disposto a prendersi cura di lei fino alla maggiore età. Dragana aveva annuito, ma in realtà non le importava che cosa ne sarebbe stato di lei.
Chi era, senza i suoi genitori? Chi sarebbe diventata? Suo padre le ripeteva sempre un ordine, in modo bonario, che era diventato la sua risposta per ogni problema che Dragana gli presentava: sii chi desideri. In quel momento Dragana non desiderava altro che essere con loro, stretta in un abbraccio familiare, e la certezza che non avrebbe potuto mai più realizzare quella fantasia infantile si era fatta strada nella sua mente nello stesso momento in cui il medico legale le aveva chiesto di identificare i corpi. Salme, le aveva chiamate il dottore, come per togliere l'ultimo barlume di umanità che restava sul volto irriconoscibile dei suoi genitori.
Scosse la testa, decisa a non pensarci, e recuperò i suoi averi per poi avviarsi ai controlli di sicurezza.
L'impiegato che stava dietro al bancone parlò senza preavviso, facendo sollevare lo sguardo di Dragana. Al suono duro delle parole dell'uomo si maledisse per non aver ascoltato Sara: l'assistente sociale le aveva proposto di ritardare di una settimana la partenza, così da avere il tempo di recuperare quella che per anni era stata la seconda lingua di Dragana, il rumeno. La ragazza aveva rifiutato, sicura che pochi giorni le sarebbero bastati per ricordare quello che con il tempo aveva dimenticato, ma in quel momento, di fronte all'uomo della sicurezza che la fissava con insistenza, si rese conto di una verità universale: comprendere e mettere in pratica erano due azioni diverse. Aveva capito cosa le stesse domandando – il motivo per cui viaggiava –, ma non riusciva a trovare il modo per rispondere, presa dal panico per il vuoto che le riempiva la testa.
Chiese scusa e cercò di concentrarsi, ripetendosi che non c'era niente di male nel non ricordare la lingua tanto cara a suo padre, soprattutto perché sapeva essere un lapsus momentaneo.
«Mi trasferisco» riuscì a dire alla fine, sperando di non aver fatto errori di pronuncia e sempre più consapevole che quella sarebbe diventata la lingua che avrebbe dovuto usare ogni giorno.
«Per lavoro?» continuò l'uomo, mentre il suo sguardo si spostava allo schermo del computer. Dragana credette di vedere una scintilla di compassione, nei suoi occhi celati da un paio di occhiali.
«Per un crudele gioco del destino» rispose in italiano.
«Ah, ecco, ho trovato i documenti» esclamò il suo interlocutore, sovrastando l'ultima frase della ragazza. «Ti auguriamo una buona permanenza. Il prossimo!»
Le restituì il passaporto e, prima che Dragana potesse anche accennare a un saluto di cortesia, il passeggero alle sue spalle si era già appropriato del suo spazio.
La ragazza si lasciò superare e, sospirando pesantemente, recuperò i suoi bagagli, per poi seguire le indicazioni che l'avrebbero portata all'uscita. Non aveva mai parlato con il presunto zio Mac, non era nemmeno sicura che fosse effettivamente suo zio, ma Sara le aveva garantito che la loro sarebbe stata una buona convivenza. Dal canto suo, invece, era sicura che più a fondo di così non sarebbe potuta andare: non le restava altro che provare a risalire.
Appena varcò le porte che davano sull'uscita, una moltitudine di persone, bagagli, lacrime e abbracci la scombussolarono. Dovette fare lo slalom tra famiglie appena ritrovate e saltare valigie abbandonate in mezzo al passaggio, ma alla fine riuscì a raggiungere l'esterno e non avrebbe potuto essere più grata di essersi lasciata alle spalle l'aria viziata dell'edificio. Odiava gli aeroporti. Odiava gli addii. O le presentazioni. Tutto ciò che chiedeva era ritornare a una semplice, ordinaria vita da diciassettenne il prima possibile.
Sara le aveva fatto studiare passo passo cosa avrebbe dovuto fare una volta arrivata a Sibiu: era scesa dall'aereo, aveva ritirato i bagagli, passato i controlli e si era recata all'uscita. Il quinto punto prevedeva di aspettare Sănder, l'autista di suo zio. Non aveva idea di che aspetto avesse, né di che macchina possedesse, ma Sara aveva detto che si sarebbe fatto riconoscere.
Dragana si accostò al marciapiede, cercando di trovare un angolo dove non sarebbe stata d'intralcio, e si sedette su una delle valigie più grandi. Non sapeva quanto avrebbe dovuto aspettare, così decise di recuperare il telefono dal bagaglio a mano e di controllare se qualcuno le avesse scritto.
Si aspettava di trovare almeno un messaggio da parte di Sara, ma lo schermo non le indicò alcun tipo di notifica, nonostante le avesse promesso che si sarebbe fatta sentire per darle le ultime indicazioni: si era limitata ad accompagnare Dragana all'aeroporto di Milano Malpensa e poi l'aveva lasciata nelle mani di sconosciuti. Dei miei parenti, si corresse. Dei suoi parenti sconosciuti.
Un'ombra distolse la sua attenzione dal cellulare, costringendola ad alzare lo sguardo. Un uomo la stava fissando con insistenza e non seppe se iniziare a temere i suoi occhi chiarissimi, contornati da una pelle così sottile da sembrare carta velina raggrinzita, o se consigliargli un parrucchiere per sistemare le ciocche rade che gli ricadevano sul cappotto come dei vecchi nastri di Natale argentati.
«Ti serve aiuto?» chiese, scervellandosi per ricordare se in rumeno esistesse un pronome formale. Sperò di non risultare maleducata, anche se quello era l'ultimo dei suoi problemi.
«Servus» le rispose l'uomo, sforzandosi quasi di far uscire il suono dalla propria bocca.
Dragana alzò le sopracciglia, confusa. «Non credo di aver capito, io-»
«Servus, Erica» la interruppe lui, insistente. Al sentire il suo primo nome, dal suono molto più dolce rispetto a quello che era abituata a usare, iniziò a prestargli la sua completa attenzione. Forse distratta dal suo aspetto inusuale non si era accorta del cartello che teneva tra le mani. Spostò lo sguardo sul pezzo di carta stropicciato e si rese conto che, effettivamente, lì c'era scritto un nome che non usava da moltissimo tempo, troppo comune per l'ambiente italiano in cui era cresciuta: Erica Ezustfat. Fin da piccola aveva sempre preferito il suo secondo nome, Dragana, forse perché così si sentiva meno lontana dalle origini che i suoi genitori le avevano sempre fatto amare.
«Sănder?» domandò scioccamente. Chi altri avrebbe potuto cercare una ragazza con il suo stesso nome? L'uomo annuì una sola volta, poi si girò e si incamminò verso il parcheggio. Frastornata dal suo comportamento e notando che non accennava ad aspettarla, Dragana scese dalla valigia e si affrettò a raggiungerlo. Era quello il tipo di persone di cui si circondava zio Mac? Sara ne era a conoscenza? Dragana era del parere che non si potesse giudicare il libro dalla copertina, ma l'aspetto poco rassicurante di Sănder non la aiutava ad avere una buona impressione dei suoi parenti. Si diede mentalmente della stupida per la sua frivolezza e, finalmente, notò che Sănder si era fermato davanti a quella che pareva la presa in giro di una macchina. La vernice nera scrostata era così sporca che sembrava quasi ci fosse un meditato effetto ombreé e il cigolio che produsse la portiera quando Sănder la aprì per farla accomodare rivelò la necessità di oliare le giunture.
«Grazie» sussurrò Dragana, lasciando che le togliesse le valigie dalle mani. Prese posto sui sedili posteriori, decidendo di non farsi più domande e attendere fino a quando qualcuno avesse potuto darle spiegazioni, dal momento che era inutile riempirsi la testa di interrogativi.
Il viaggio le fece rimpiangere il russare del suo vicino in aereo: Sănder era l'animo meno loquace che avesse mai conosciuto – e lei stessa non era da meno – e le ore trascorsero lente e cadenzate. Si ritrovò a osservare sul telefono i minuti che cambiavano con una pigrizia insostenibile, alternando lo sguardo tra il display e il paesaggio che scorreva sotto ai suoi occhi. Dopo aver abbandonato l'aeroporto, tutto ciò che aveva potuto osservare era desolazione. Forse aveva ragione Sara, andare lì l'avrebbe aiutata a ritrovare se stessa: in quel momento sentiva una profonda sintonia tra il paesaggio esterno e l'interno del suo cuore.
Ben presto le strade cittadine lasciarono il posto a un territorio montuoso e impervio. Sara le aveva anticipato che lo zio viveva nella sul confine tra il distretto di Brașov, in Transilvania, e Argeș, in Valacchia, ma non aveva chiesto all'assistente sociale altre informazioni. Passò qualche ora, prima che un paesino rompesse la monotonia del panorama: le case diradate e anonime si facevano sempre più numerose, mentre i tetti a spiovente e l'assenza di fiori decorativi le fecero presumere che dovesse fare freddo per la maggior parte dell'anno. Si ritrovarono a passare per strette vie lastricate e per due o tre volte temette che gli specchietti li avrebbero abbandonati, ma Sănder si rivelò un buon autista e riuscì a districarsi dalle situazioni più difficili.
«Dove siamo?» chiese, sporgendomi tra i sedili anteriori.
«Munții Făgărașului» le risponde Sănder, indicando con una mano i picchi che si stavano delineando di fronte a loro. Monti Făgăraș. Il nome non le suonava familiare, ma cercò di stare calma e non preoccuparsi: zio Mac non avrebbe mai mandato qualcuno di pericoloso a prenderla, gli assistenti sociali le avevano assicurato che sarebbero stati effettuati dei controlli per i primi mesi e se le fosse successo qualcosa avrebbero potuto esserci delle conseguenze legali per il suo tutore. Con quei pensieri a consolarla, ritornò nella sua posizione. La Valacchia era pronta ad accoglierla tra le sue braccia, ma lei era abbastanza pronta per buttarcisi senza remore?
Attraversato il paese nella sua interezza si ritrovarono a percorrere un sentiero a curve che terminava sulla cima di una collinetta. La lieve altura, distaccata rispetto al resto delle case, culminava con quello che sembrava in tutto e per tutto un antico castello.
L'entrata decorata con colonne sormontate da archi a sesto acuto, le finestre strette e minacciose, i doccioni mostruosi che vegliano dall'alto: ogni elemento dell'architettura le fece pensare a un'abitazione abbandonata e cristallizzata nel tempo. Non appena varcarono il cancello, però, una nuova consapevolezza si fece strada nella mente di Dragana: avrebbe dovuto abbandonare per sempre l'idea del suo bell'appartamento in centro a Verona, perché tutto faceva presumere che fosse proprio quella la residenza degli Ezustsfat.
L'auto si fermò, ma Sănder non accennò a volersi muovere. Dragana stava per domandargli se fossero arrivati, quando il portone in legno intarsiato dell'ingresso si aprì di uno spiraglio, permettendo a un altro uomo di uscire dalla casa.
Il pizzetto nero e la pipa stretta tra due labbra sottoli furono i primi dettagli a colpire la ragazza: insieme ai baffi curati davano una parvenza di regalità, amplificata dalla lunga veste in damascato rosso che avvolgeva la figura dello sconosciuto fino ai piedi. Solo quando l'attenzione di Dragana ritornò agli occhi di ghiaccio dell'uomo capì chi la stesse osservando dall'ingresso: era Mac Ezustfat, il suo nuovo tutore.
NdM. Riconosco che i capitoli non siano cortissimi, quindi chiedo a voi: preferite che li spezzi a metà o li lascio così? In base a quello che preferite mi regolo con le pubblicazioni!
Questa settimana sarà un po' anarchica, pubblicherò tra qualche giorno il secondo capitolo e un bonus per ringraziare chi ha tenuto la storia in biblioteca per tutto questo tempo (due anni! C'è qualcuno che la aspetta dal 2017?) e poi stabilirò un giorno fisso (pensavo al sabato, che dite?)💀
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