Capitolo 15
GRACE
Avrei voluto che il viaggio verso il lago Michigan fosse durato in eterno e cercai di trattenere la delusione quando fui costretta a scendere dalla moto.
Stare abbracciata a Davon era qualcosa di ultraterreno.
Ci incamminammo l'uno accanto all'altra senza sfiorarci, c'era pochissima gente ed effettivamente potevo anche capirne il motivo: quel giorno sulla sponda del lago tirava un bel vento freddo.
Davon mi fece cenno di sedermi sulla sponda e annuii mettendomi giù con lui.
«Dimmi qualcosa di te, Grace.» disse guardandomi appena.
«Ad esempio?»
Lui alzò le spalle e finalmente mi guardò con quello sguardo penetrante «Hai l'accento inglese, quindi vuol dire che nemmeno tu sei di qui. Da dove vieni?»
Aveva detto "nemmeno"?
«No, infatti mi sono trasferita qui da poco. Vengo da Londra.» ammisi, cercando di valutare se dirgli o meno la causa del mio viaggio.
Lui sorrise lievemente. Non era il suo
sorriso pieno di energia, era malinconico.
«Amo Londra. È una città splendida.»
«Ci sei stato?» gli chiesi stupita.
«Ci vivevo.» precisò.
Rimasi a bocca aperta «Ma non mi dire! E da quanto sei qui a Chicago?»
«Dopo che sono morti i miei genitori, a diciotto anni sono venuto a vivere qui. A Londra ho vissuto per qualche anno con i miei zii e mio cugino ma sentivo di aver bisogno di cambiare aria e così mi sono trasferito qui non appena ho potuto.»
Mi raggelai «Oddio scusami, non volevo farti ricordare...»
Lui scosse la testa «Tranquilla, ormai quello scoglio l'ho superato.»
Gli presi la mano e la strinsi, i suoi occhi erano lucidi «So come ci si sente. Mi dispiace per i tuoi genitori, deve essere stato difficile per te.»
Lui guardò le nostre mani unite «Dubito tu possa comprendere questo tipo di dolore, ma grazie per averci provato.»
Mi morsi il labbro inferiore e sentii quelle parole uscire dalla mia bocca quasi involontariamente: «No, invece. Ti capisco benissimo perché io mi sono trasferita qui per lo stesso motivo. Anche i miei genitori sono morti.»
Sentii gli occhi inumidirsi e cercai di ricacciare le lacrime indietro quando nella mia testa si stampò l'immagine di mia madre che mi guardava dall'uscio, o quella di mio padre che mi dava il bacio della buonanotte.
Davon mi abbracciò «Scusa, mi dispiace.»
Cercai di fare quella forte, non lo ero mai stata realmente, e nemmeno quella volta ci riuscii. Piansi silenziosamente stringendomi a lui, avevo bisogno di una persona che mi capisse e che per una volta non fosse mio fratello.
Chiusi gli occhi e sospirai dando un po' di pace al mio povero cuore.
«Davon, levale quelle cazzo di mani di dosso!» gridò qualcuno dietro di me.
Mi allontanai di scatto, giusto qualche istante prima che un ragazzo si buttasse su Davon placcandolo.
Rimasi immobile a bocca aperta finché non realizzai la situazione e capii di dover fare qualcosa, qualsiasi cosa.
Davon se la cavava bene nelle risse, ma Caleb era un pazzo psicopatico e l'avrebbe sicuramente ucciso perché chissà che cosa gli era passato per la testa.
«Fermati! Lascialo immediatamente!» gli gridai contro, ma lui non mi sentì.
O meglio, fece finta di non sentirmi.
Caleb tirò un pugno in pieno viso a Davon, il quale rotolò su un fianco cominciando a tossire.
Mi buttai su Caleb e gli strinsi le braccia attorno al suo busto talmente forte che si bloccò.
«Ora basta!» lo afferrai per un orecchio e tirai. Lui mi seguì e si alzò.
«Mi spieghi che cazzo ti è preso?» gli gridai contro.
Lui non mi guardò. Codardo.
Guardai Davon «E tu perché invece che spingerlo via hai pensato fosse meglio riempirgli la faccia di pugni?»
Davon si pulì il labbro sporco di sangue e mi guardò con la rabbia negli occhi «Non l'avrei fatto se lui non mi si fosse buttato addosso.»
Caleb tornò a guardarlo male «Non mi sarei buttato addosso a te se tu non ti fossi appiccicato in quel modo a lei. E perché diavolo stava piangendo? Che le hai fatto?»
Sbattei più volte le palpebre, poi mi affrettai ad asciugarmi gli occhi.
Davon lo guardò confuso, ma sempre sul punto di scoppiare «Non le farei mai del male, sei pazzo?»
Caleb fece per andargli contro di nuovo ma lo tirai lontano «Basta, tornate a casa tutti e due!» sbottai.
Caleb incrociò le braccia al petto e guardò il lago, mentre Davon mi si avvicinò massaggiandosi un braccio «Vuoi un passaggio?»
Stavo per rispondere, ma Caleb mi anticipò «Non ha bisogno del tuo fottuto aiuto.» disse a denti stretti.
«Zitto tu.» sbottai.
Il biondino tornò a guardare il lago borbottando.
Fissai Davon negli occhi e gli sistemai una ciocca di capelli che gli copriva lo sguardo desolato «Grazie mille Dav, non fa niente. Ci sentiamo in questi giorni.»
Lui annuì, raggiunse la sua moto e, non appena partì, mi voltai a guardare Caleb con le mani ferme sui fianchi, lo sguardo glaciale.
«Mi spieghi che diavolo ti è saltato in mente? Sei impazzito per caso?» domandai. Il tono della mia voce era abbastanza alterato ma non volevo mettermi a gridare e dare spettacolo più di quanto già non fosse.
Lui non mi rispose, si limitò a guardarsi la punta delle scarpe. Almeno sembrava un minimo pentito. Ma io avevo bisogno di risposte.
«Quindi? Pensi di fare il gioco del silenzio ancora per molto? Ti rendi conto di ciò che hai fatto? Che hai contro di lui? Chi ti ha dato il permesso di fare una cosa del genere?» continuai «Perché ti dà tanto fastidio che sia uscita con Davon? A te non dovrebbe importare, giusto? Come a me non importa chi veda tu o con quante ragazze passi il tuo tempo nella camera da letto.»
Okay, mi era uscita male, ma il punto era sempre lo stesso.
«Cos'è: il gatto ti ha mangiato la lingua per caso?» sbottai incrociando le braccia al petto.
A quel punto lui mi guardò, poi si avvicinò talmente velocemente che non riuscii ad allontanarmi quando mise le mani sulla mia schiena e le labbra sulle mie.
Sgranai gli occhi e mi spinsi all'indietro, le mie mani ferme tra di noi.
La sua lingua passò molto lentamente tutto il contorno del mio labbro inferiore e si allontanò solo quando mi sentì tremare.
«Come hai potuto notare, la lingua ce l'ho ancora.» disse alzando un angolo della bocca.
Deglutii.
Quando mi ripresi mi allontanai nel tentativo di mettere più distanza possibile tra di noi.
«Stupido idiota...» borbottai stringendo forte i pugni.
Mi incamminai verso la strada e sentii Caleb alle mie spalle seguirmi.
Lo guardai da sopra la spalla e trattenni una risata quando lo vidi camminare zoppicando leggermente e tenendosi un braccio stretto al petto.
«Oh, andiamo... non può averti fatto così male.» ridacchiai aspettandolo.
Lui mi guardò stringendo gli occhi a due fessure «Sapeva dove colpire, quel bastardo.»
Misi le mani in tasca e lo colpii con la spalla «Chissà cosa penseranno a scuola quando lo verranno a sapere...»
Caleb si fermò «Non oseresti.»
Sorrisi «Oserei.»
Mi raggiunse alla svelta e mi afferrò il polso con la mano del braccio sano «So come farti cambiare idea, vuoi un'anticipazione ora? In mezzo a questa strada?» mormorò solleticandomi l'orecchio.
Strinsi le labbra e mi allontanai «Piantala, starò zitta.»
Poi mi venne in mente un piccolo particolare: non vedevo né la sua moto né la sua macchina nei paraggi «Ma sei venuto qui a piedi?» gli chiesi.
Lui scosse la testa «Correndo.»
Cercai di mascherare un sorriso grattandomi il naso, ma lui se ne accorse comunque e ridacchiò «Ti fa tanto piacere saperlo?»
Mi ricomposi «Nient'affatto.» risposi secca.
Ricominciammo a camminare fianco a fianco finché non tornammo davanti a scuola.
«Non credo di essere in grado di guidare con il braccio in questo stato.»
Sapevo che mi sarei pentita di quello che stavo per dire...
«Se vuoi ti riaccompagno io a casa, così non dovrai fare la strada da solo.» dissi.
Lui si voltò e mi sorrise «Ci stai provando con me, Dekker?»
Alzai gli occhi al cielo «Taci prima che cambi idea.»
Mise il braccio sano sulle mie spalle e riprendemmo a camminare verso casa sua «Dai, lo so che in realtà provi qualcosa per me, tigre.»
«Sì, disgusto.» mormorai.
Lo sentii ribattere qualcosa, ma non lo ascoltai perché qualcosa aveva attirato la mia attenzione. Poco più avanti a noi, accanto a dei cassonetti, c'era uno scatolone di cartone che si muoveva.
Mi allontanai da Caleb, che si lamentò, e mi affrettai a raggiungere lo scatolone. Tentennai prima di guardarci dentro per paura di trovarci topi o, peggio, un bambino, ma alla fine presi coraggio e mi sporsi per dare un'occhiata.
«Ma che fai?» brontolò il ragazzo alle mie spalle tentando di raggiungermi zoppicando.
«Lamentati in silenzio, se proprio devi.» sbottai, fissando con occhi sbarrati il contenuto della scatola.
Feci cenno a Caleb di raggiungermi e, quando arrivò al mio fianco, si chinò per guardare anche lui.
Afferrai quella palla di pelo nera e subito cominciò a fare le fusa tra le mie mani. L'avvicinai al volto del biondino, il quale si allontanò schifato «Sposta quella cosa dalla mia faccia.»
Ridacchiai «Non è dolcissimo? Un gattino tutto pelo.»
Lui inarcò un sopracciglio «Io sono dolcissimo. Questo animale è buono solo a portare malattie. Anzi, mettilo giù.» disse cercando di togliermelo dalle mani.
Un secondo miagolio si elevò sopra ai rumori del traffico e del chiacchiericcio delle persone richiamando la mia totale attenzione. Un altro gattino nero mi stava guardando.
Presi anche quello e li strinsi a me per scaldarli, poi guardai Caleb, la sua espressione sempre schifata.
«Sei un insensibile.» dissi infastidita.
Lui si limitò ad alzare le spalle.
Guardai quelle due creaturine e cercai di trattenere le lacrime. Mi ricordarono subito me e Alan da piccoli: orfani, spaventati e che non appartenevano a nessuno. Ma noi avevamo zia Kath, e decisi che loro avrebbero avuto me. Poi realizzai una cosa e sospirai «Alan non mi permetterà mai di tenerli.»
Caleb sgranò gli occhi «Aspetta, intendi portarli a casa?»
Cosa si aspettava?
«Credi che possa lasciarli qui? Moriranno!»
CALEB
Quel lato di lei mi mancava. L'avevo vista acida, competitiva, determinata, scherzosa persino... anche se con me raramente, fragile la notte in cui dormì a casa mia, ma mai preoccupata per due stupidi animaletti.
«Ne terrò uno io.» dissi senza pensarci.
Non sapevo che diavolo avessi per la testa quando lo dissi, a me gli animali non piacevano neanche.
Lei mi guardò «Che hai detto?»
Avevo l'occasione di tirarmi indietro, ma stupidamente non lo feci «Hai sentito: ne porterò uno a casa mia, così magari tuo fratello ti farà tenere l'altro.»
Sul suo viso comparve un sorriso a trentadue denti che mi spiazzò. Lasciò i gatti nella scatola e mi saltò addosso abbracciandomi, procurandomi un male allucinante quando sbatté contro i lividi. Cercai di sorreggerla quando barcollai all'indietro e la rimisi con i piedi per terra prima che entrambi cadessimo sul marciapiede. Alcune persone ci guardarono male.
«Grazie, grazie, grazie!» esclamò con la voce attutita dal tessuto della mia maglietta. Mi piacevano i suoi abbracci.
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