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Capitolo 10

GRACE





Passai la domenica a letto accompagnata da un mal di testa lancinante e un atroce dolore a muscoli e ossa. Il lunedì mattina Alan mi provò la febbre, misurando appena 37,5°, così rimasi a casa da scuola nonostante mi sentissi meglio.

Verso le dieci del mattino di quel noioso lunedì, la mia routine Netflix-frigorifero-divano fu spezzata dal suono del campanello.

Sbuffai e mi avvolsi con il mio plaid peloso blu per andare ad aprire alla porta «Sì?» domandai cercando di coprirmi gli occhi dalla luce del sole.

«Buongiorno, sono qui per promuovere un nuovo prodotto della nostra azienda.» disse l'uomo, ma lo fermai subito dicendo, cordialmente, che non mi interessasse. Gli chiusi la porta in faccia e tornai a buttarmi sul divano.

Il campanello suonò nuovamente. Feci un lungo respiro e mi alzai ancora andando ad aprire alla porta.

Due donne mi sorrisero «Buongiorno, siamo qui per diffondere la parola di Dio.»

Sbattei le palpebre due volte, cercando di mettere a fuoco le due figure che avevo davanti, poi scossi la testa «Non sono interessata.» dissi bruscamente.

Chiusi la porta.

Mi lanciai a peso morto sul divano e feci partire l'ennesimo episodio di Shadowhunters, quando il campanello suonò di nuovo.

Lanciai il telecomando per la rabbia e mi alzai in piedi talmente velocemente che mi venne un capogiro. Quando mi ripresi, corsi alla porta «Non ho bisogno di alcuna fottutissima aspirapolvere, né di sapere cos'ha da dirmi Dio!»

Davanti a me comparve un torace ben piazzato e dovetti alzare lo sguardo per incrociarne uno alquanto confuso. I due occhi azzurri mi fissavano come se fossi appena uscita da uno show dei Muppet.  

Caleb fece un sorrisetto «È una fortuna che io non sia qui per venderti aspirapolveri o per parlarti di Dio, no?»

Rimasi a bocca aperta a guardarlo. Non avrebbe dovuto essere a scuola?

«Che ci fai qui?» gli chiesi.

«Ero venuto a vedere come stessi, ma vedo che te la stai cavando alla grande.»

Avvolta dal mio plaid, rimasi a fissarlo con gli occhi semi chiusi. Gli sbattei la porta in faccia e tornai strisciando verso il divano.

Il campanello riprese a suonare, ancora e ancora, mettendo a dura prova il mio autocontrollo.

«Se ti lascio entrare la smetti di rompermi?» gridai riaprendo la porta.

Il suo dito era ancora fermo sul bottoncino del campanello, mi sorrise e lo suonò un'ultima volta «Certo.»

Sospirai e gli lasciai lo spazio per entrare, richiudendo subito la porta alle sue spalle. Sapevo che mi sarei pentita a breve di quella scelta, ma avrei fatto di tutto pur di far cessare quell'orribile suono.

Mi raggomitolai sul divano il più possibile lontano da lui, con la scusa della febbre e tutto il resto.

Lui non parve bersela e si mise accanto a me «Come stai?»

Lo guardai di sbieco e cercai di interpretare la sua espressione. Non capivo se fosse sinceramente preoccupato, o se tutto quello fosse solo l'ennesimo suo tentativo di farmi "cadere ai suoi piedi".

Decisi di rispondere con circospezione «Sto meglio.»

Ripresi a guardare Netflix alla tv e lo ignorai, sperando che capisse di non essere proprio gradito e che scegliesse di sua spontanea volontà di andarsene.

«Non so perché, ma mi aspettavo che fossi proprio una da serie tv fantasy su maghi e cose simili.»

«Shadowhunters.» lo corressi.

Lui si voltò a guardarmi e io tornai immediatamente a guardare la tv «Non sono solo maghi, ci sono anche Shadowhunters, vampiri, licantropi...»

Lui scosse la testa sorridendo.

Quando mi girai per guardarlo, lo ritrovai a fissarmi e sentii le guance diventarmi subito rosse. Odiavo il fatto che riuscisse ad avere quell'effetto su di me.

Si avvicinò, mi prese il volto tra le mani e se lo avvicinò a sé.

«Che stai facendo?» chiesi crucciata.

«Riprendo da dove ci siamo interrotti sabato.» mormorò ormai a pochi centimetri da me.

No, non hai capito niente bello mio.

«Lasciami.» asserii spingendolo via.

Non si spostò neanche di un millimetro.

«Andiamo, lo so che lo vuoi anche tu.» continuò fissandomi in modo insistente.

Si avvicinò ancora, le sue labbra sfiorarono nuovamente le mie dando loro una leggera scossa. Non riuscii ad allontanarmi.

Il campanello suonò per la quarta volta quella mattina, ma per la prima volta ne fui davvero grata.

Spinsi via Caleb con tutta la forza che avevo e mi alzai velocemente in piedi guadagnandomi un nuovo capogiro.

Il biondino mi afferrò per un braccio e mi tenne in piedi, sui suoi occhi sparì del tutto la malizia lasciando il posto a una velata preoccupazione.

Arrivai ad aprire la porta e mi ritrovai davanti un paio di occhi azzurri contornati da folte ciglia scure e una linea sottile di eyeliner. Il piccolo viso ovale era circondato da lunghi boccoli dorati che dovevano essere davvero morbidi.

«Ciao, sono Amber. Sono la tua nuova vicina.» affermò porgendomi la mano. Il suo accento era europeo, si sentiva leggermente.

La strinsi e ricambiai il suo sorriso «Grace, piacere. Perdonami ma non sto troppo bene in questo momento, se non è un problema per te potremmo vederci uno di questi giorni e chiacchierare davanti a un caffè, o qualcosa di simile.» mi coprii la bocca con la mano e mi spostai leggermente quando sentii di dover tossire.

«Oddio, scusami se ti ho disturbata. Accetto volentieri un caffè nei prossimi giorni. Ti lascio il mio numero così puoi contattarmi quando vuoi.» disse cominciando poi a dettarmi il suo numero che digitai sul mio cellulare.

«Ecco fatto, Amber. Sei stata molto gentile a passare.» la salutai con un sorriso e chiusi la porta dopo che anche lei mi salutò e cominciò a uscire dal vialetto.

Tornai a rintanarmi sotto le coperte e sospirai di sollievo quando il caldo tornò a pervadermi.

«Dovrei distruggerlo quel dannato affare.» borbottò il biondino seduto al mio fianco.

«Spero di attaccarti l'influenza.» sbottai acida quando lui si avvicinò di più e posò un braccio attorno alle mie spalle.

«Che tenera, tigre.» mormorò cominciando a giocare con i miei capelli «Ma per contagiarmi con l'influenza, l'unico modo che hai è quello di restarmi il più vicino possibile.»

Mi bloccò contro il bracciolo del divano e mi guardò con malizia «Oppure, meglio ancora, baciandomi.» e mise le sue labbra sulle mie. Era un contatto leggero, ma la pressione che esercitò mi fece girare la testa. Inizialmente sentii una lieve scossa, ma passò subito e rimasi con gli occhi sbarrati e le dita strette al divano.

Stava succedendo davvero? Ci stavamo baciando?

No, no... questo è terribilmente sbagliato. Non posso ricaderci ancora come una stupida.

Fece passare le dita tra i miei capelli, poi scese lungo il collo fino alla schiena, dove cominciò a stringere per avvicinarmi a lui. Ancora una volta non opposi resistenza e, odiavo ammetterlo, non lo feci soltanto perché la febbre mi stava togliendo le forze, ma anche perché una piccolissima pare di me – quella che ancora non era cinica, che credeva nelle storie d'amore da film e che era attratta da lui – si rifiutò di starmi a sentire e mi fece attaccare ancora di più a lui.

Ti sta solo usando, continuavo a ripetermi nella testa.

Provaci, mi gridava il cuore.

Come poteva un singolo bacio causare tanto conflitto in me? Come poteva essere così difficile ragionare, quando a mente lucida ero sicura di non sopportarlo?






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