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"42°: Mi fa bene parlare con te!"

Michele
Mi volto verso mio padre e lo guardo. La sua espressione è seria ed io ho la sensazione che non abbia tutti i torti. Per me quella ragazza è molto speciale. Forse non ho mai fatto per nessuno quello che sto facendo per aiutare lei.
"Non succederà mai niente, papà! Io sono il suo rapitore, e per quanto possa trattarla nel miglior modo possibile in un simile contesto per lei rappresenterò sempre quello... non potrei mai imporle la mia presenza se dovesse riuscire a riprendersi."
"Ah, caro Michele! Sei tanto furbo per alcune cose... e per altro sei ingenuo come può esserlo un bambino. Angela mi ha detto con quanto affetto ti tratta quella ragazza... lei capisce come sono le persone, ha capito che tu le vuoi bene. O forse pensa esattamente le stesse cose che pensi tu, ma in maniera inversa. Forse neanche lei vorrebbe imporre a te la sua presenza..."
"Lei è buona, a prescindere dalle persone con le quali si deve confrontare ed io provo stima per lei anche per questo motivo... anche se ho il terrore costante che Mattia possa approfittarne e farle del male!"
"Era a questo che pensavi, non è vero? È per questo che ti sei fatto male."
Non riesco a rispondergli verbalmente, quindi annuisco.
"Tranquillo, lascia stare. Qui ci penso io. Tu torna da Angela. Non so cos'abbia, ma ho la netta sensazione che farà come quando era una bambina: parlerà solo con te..."
In effetti questa cosa è capitata spesso.
Una volta, per esempio, quando era molto piccola, le era stato detto che non era figlia dei nostri genitori, perché era l'opposto di loro e lei era tornata a casa in lacrime.
All'inizio non aveva voluto parlarne con nessuno, poi si era aperta con me. All'epoca io non avevo avuto bisogno di spiegarle niente, perché lei una risposta se l'era data da sola. Pensava fossero soltanto parole cattive, ma non ne capiva il motivo. Io quel giorno non le avevo detto nulla, perché lei mi aveva chiesto soltanto di starle accanto.
Sto per andare io a raggiungere Angela, ma è lei a venire giù da me.
Mio padre finisce di preparare la colazione, poi mi fa un cenno e dice: "Bene, io vi lascio soli. Angela... qualsiasi problema tu abbia, sfogati!"
Angela annuisce e lui si volta nella mia direzione.
"Michele... so che non è da te, ma cerca di pensare un po' di più a te e un po' di meno agli altri. Essere altruisti va bene... basta non dimenticarsi di se stessi."
Annuisco a mia volta e lui si allontana. Certo... magari fosse tanto facile occuparsi di meno delle persone che si amano per lasciar spazio a se stessi. Io non ci riesco.
Ci sediamo al tavolo, l'uno accanto all'altra.
"Angela... ci siamo solo io e te. Te la senti di raccontarmi com'è andata?" le chiedo, prendendo la sua mano e accarezzandola.
"Non so se ci riesco. Non ho il coraggio di guardarti in faccia, penso si veda... perché mi vergogno di me, di quello che mi è toccato fare. Mi sento sporca, Michele!"
"Ti sentiresti un po' meno a disagio se nemmeno io guardassi te?" le chiedo.
"Non lo so... forse" risponde.
"Possiamo metterci l'uno di spalle all'altra e concentrarci sul piatto, se vuoi." le dico.
"Non lo so. Ho bisogno che tu mi dia la mano."
"Allora facciamo in un altro modo. Ti girerò soltanto la faccia, ma ti terrò la mano."
"Tu... resisterai, vero?"
"Ci proverò, ma se dovessi accorgerti del fatto che non ce la faccio, dimmi di girarmi."
Lei stringe la mia mano ed io le volto il viso. L'unica cosa che le vedo fare prima di voltarmi è maneggiare nervosamente due fette di pane e cioccolata. Le distrugge con la mano. Po mi volto dall'altra parte e non la guardo più, ma continuo a tenerle la mano.
"Mi ha rovinato la vita proprio la notte dopo il mio compleanno, Michele" inizia a dire. Sento la sua voce incrinarsi, come se volesse piangere, ma non mi volto. Tendo la mano che stringe la sua e sfioro la sua guancia con il dorso. Attraverso Dora ho imparato a capire quando qualcuno è sul punto di lasciarsi andare ad un pianto liberatorio senza guardarlo.
"Ecco... d-dopo quella sorta di festa che tu e i ragazzi avevate preparato per me Mattia mi ha portata via con una scusa. Diceva che doveva parlarmi. Io, come una stupida, gli ho persino creduto! Santo cielo, povera la mia Serena che ha un padre simile! Io l'ho condannata: io!"
La sento battere forte il pugno dell'altra mano sul tavolo. A quel punto mi alzo, vado dietro di lei e faccio un'acrobazia per cambiare mano e bloccare quella che va su e giù come un ascensore senza alcun controllo.
"Angela, ferma! FERMA!" le dico, alzando forse un po' troppo il tono. Lei si ritrae, chiudendosi a riccio. "Dio mio, piccola... scusami! Avevo paura che ti facessi del male, per questo ho alzato la voce! Perdonami, ti prego!"
"Non... non è... questo..." balbetta. "Michele, io mi sento male! Ti giuro che sono contenta di aver avuto Sery, ma non volevo che nascesse dall'odio e dalla violenza!"
"Angela, adesso stai calma e ascoltami. Serena non è nata dall'odio o dalla violenza. Serena è nata dall'amore. Dal tuo amore. La violenza non fa nascere nessuno. Caso mai può fare il contrario. Se fosse dipeso da quel... da... da lui, forse Serena non sarebbe nata per niente, ma tu hai voluto che vivesse lo stesso, perché in fondo lei che colpa aveva se è stata concepita da un genitore che non la merita e da un altro che è stato costretto? E poi il padre di Serena non sarà mai lui. Suo padre sarà lei a sceglierlo e lo troverà in qualcuno che ti vorrà bene come compagna o forse come qualcos'altro... qualcuno che vorrà bene anche a lei, capito?"
Lei sembra calmarsi. Io ritorno alla mia posizione di prima e aspetto.
Non voglio forzare le cose: se vorrà continuare il racconto lo farà, altrimenti le lascerò il tempo che le occorre per tranquillizzarsi e, se e quando vorrà, mi spiegherà tutto.
Lei, però, sorprendendo me e forse anche se stessa, riprende a raccontare.
"Siamo arrivati ad un casolare. Non ci abitava nessuno, ma era come nuovo. Il fatto è che essere là, da sola con lui, mi metteva addosso molta ansia, e mi dispiace di aver dovuto dare ragione al mio istinto. Lui mi ha messo una benda intorno agli occhi... ma io ho capito e l'ho tolta. Lui è stato tremendo. Mi ha insultata, picchiata, sbattuta al muro come niente. Ed io ero talmente disperata che ho iniziato a..."
Si ferma e sento il suo braccio irrigidirsi, come se non se la sentisse di parlare di un dato argomento appena sfiorato.
"Hai iniziato a fare cosa?" le chiedo, cercando di mantenere un tono pacato per non farla sentire troppo sotto pressione.
"Michele, io ho iniziato a chiamare te!" esclama Angela.
Le stringo la mano. Non ho mai capito niente... eppure lei si fida tantissimo di me, tanto da invocare un aiuto che io non potevo darle in un momento come quello in cui Mattia le ha distrutto il corpo e l'anima.
"Piccola... santo cielo, io... io non..."
"Michele, lo so già. Tu non c'eri, non lo sapevi, perché io non ho voluto che lo sapessi. Come avresti potuto immaginare se io ho fatto tutto ed il contrario di tutto per non fartelo capire? Non potevi aiutarmi, perché non lo sapevi!"
Lei è dolce, accomodante, comprensiva. Il problema è che io mi sento un vero disastro vivente. Perché non ho cercato di capire qualche segnale?
Lei, anche se involontariamente, me ne avrà dato qualcuno di sicuro. Quando stai male, inconsciamente, il più delle volte tendi a farlo capire tramite le piccole cose. Forse quella volta in cui ha urlato contro Mattia, saltando giù dal suo lettino dell'ospedale e cacciandolo via a suon di pugni.
Forse quello era un segno. Perché non l'ho capito prima? Perché ho aspettato che lei si ammalasse per accorgermi di quanto stesse soffrendo a causa di quel... di quell'indefinibile, perché per uno che fa quello che ha fatto lui non esistono parole.
Neanche i peggiori insulti vanno bene. Sarebbe l'equivalente di considerazione.
Un lusso che lui non merita per niente, soprattutto dopo questo.
Parole intermedie, non volgari? Sarebbe come attenuare quello che ha fatto ad Angela, e per queste cose non esistono attenuanti.
Indefinibile è l'unica cosa che si può dire di lui.
"Lui... mi ha strappato tutti i vestiti di dosso, con foga. Mi ha lasciato i suoi segni sul corpo... mi sono sfogata con Dora, ma c'è una cosa che non ho voluto dirle. Mattia... mi ha inciso una parola sulla schiena, con un coltello a serramanico... come quello che ha sulla schiena quel tale."
Angela lascia la mia mano e mi dice che, se me la sento, posso guardarla. Io lo faccio, ma me ne pento subito dopo. Non può averlo fatto davvero.
"Scarto." È questa la parola che le ha scritto sulla schiena. L'hanno vista soltanto i medici ed un poliziotto. Lei ha avuto bisogno di una trasfusione di sangue. Nessuno di noi poteva darle il suo, perché non eravamo compatibili, ma per fortuna c'è stato un donatore misterioso che le ha salvato la vita. Se solo sapessi chi è mi piacerebbe fare qualcosa per lui.
"Ogni volta che mi guardo allo specchio mi dico che ha ragione" ammette tristemente.
"Puoi anche fare questo, Angela, però la ragione dovresti dargliela come se lo prendessi in giro. Se è vero che quella è proprietà degli idioti, quando ti guardi allo specchio e ti senti uno... Dio mio, mi fa ridere solo il pensiero che Mattia abbia scritto sulla tua pelle una cosa tanto falsa e stupida! Ecco, ogni volta che guardandoti allo specchio vedi quell'orrore, tu dagli pure ragione, ma fallo come se dicessi: "Visto che ci tieni tanto"..."
La sua reazione mi stupisce, perché per come stava non avrei mai creduto di portarla a sorridere con una sciocchezza, però ci riesco.
"Vedi? Gli "scarti", come li chiama lui... possono fare ciò che vogliono, ma non saranno mai belli come lo sei tu quando ridi!" le dico.
"Ma tu hai un tesserino speciale per tirare su il morale alla gente anche nelle situazioni peggiori?"
"Nessun tesserino, anche perché se ce l'avessi l'avrei già utilizzato per Mattia. Almeno, facendosi una bella risata, avrebbe evitato di far patire le pene dell'inferno a quella ragazza!"
"Non è che ora sono io che devo calmare te, Michè?" chiede.
"Non lo so, fai un po' tu" le dico.
"Allora ti dico una cosa che spero possa renderti felice" mi dice, scattando in piedi. "Mi fa bene parlare con te!"
E a me fa bene sentirmelo dire.

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