"120°: Stringimi forte"
Carmen
Quando esco da quella cella, il volto fradicio di lacrime di quel povero ragazzo mi resta impresso nella mente. Non l'ho mai visto piangere, non in questo modo, e se ci penso mi si spezza il cuore. Lui sta soffrendo tanto.
Esco e vado dal poliziotto che ha cercato di trattenermi.
"Romano, giusto? È questo il tuo nome." gli dico.
"Certo, signora De Luca." mi risponde lui. "Vuole parlarmi di... qualcosa in particolare?"
"Certo, ma non qui. Sono argomenti troppo delicati. È meglio parlarne nel tuo ufficio" gli dico, dandogli ad intendere che non accetterò un no come risposta e voglio parlargli immediatamente.
Romano mi fa strada fino al suo ufficio. Io chiudo la porta e lo vedo sedersi dietro la sua scrivania. Resto ferma, in piedi, appoggiandomi ad una parete. Non voglio sedermi. Voglio solo parlargli.
"Che cosa vuole dirmi?" chiede.
"Quanto ti ha pagato Mattia?"
"Non... non capisco di cosa lei stia parlando, si..."
"Se devi rifilarmi qualche ridicola scusa, ti prego di chiudere la bocca!" dico, alzando il tono.
Lo vedo chinare la testa.
"Ti ripeto la domanda. Quanto... ti... ha... pagato... Mattia?"
Lui fa un cenno con la mano.
"Io posso darti molto di più... ma tu devi smetterla di prendertela con Michele, mi hai capito? Altrimenti ti giuro che smuoverò mari e monti per farti finire al suo posto... e con i soldi si può ottenere parecchio, l'hai detto tu stesso a quel ragazzo. O mi sbaglio?"
Cerco di simulare un tono duro, perché voglio spaventarlo. Michele non lo teme, ma forse chi ha molta paura di lui è l'altro ragazzo.
"Ah, e ti dirò di più, Romano: cerca di comportarti bene in linea generale, mi hai capito bene?"
Romano annuisce soltanto. Il suo viso è illuminato da un sorriso, ma non ha il coraggio di guardarmi in faccia. Getto le banconote che tanto ama sulla sua scrivania, con puro disgusto. Gli volto le spalle ed esco di corsa dal suo ufficio per poi dirigermi verso le scale. Devo scendere due rampe di scale per arrivare all'ingresso del carcere. Mentre scendo le rampe di scale, però, incontro l'ultima persona che vorrei vedere: Mattia.
"Non si saluta, suocera?" mi chiede beffardo.
"Si salutano le persone, non i vermi di terra."
"Vermi... di... terra?" chiede.
"Esatto, perché soltanto un verme di terra è capace di una cosa del genere. Hai cercato di aggredire una ragazza sola, che non aveva armi per difendersi, mentre tu avevi una pistola e avresti benissimo potuto ammazzarla. Ti sei addirittura spinto a sparare alla persona che l'ha salvata: tuo fratello, e hai dato a lui la colpa di tutto!"
Lui alza una mano, ma io lo colpisco con forza su un braccio. Non so quanto male gli abbia fatto il mio schiaffo, ma spero che ne abbia per molto.
Il solo guardarlo mi provoca un immenso disgusto.
Mi allontano, disgustata dalla faccia tosta di quella persona.
Decido di andare a casa del ragazzo che si sta prendendo cura della mia bambina e non mi ci vuole molto per raggiungerla nonostante io non abbia preso l'auto. Quando arrivo il ragazzo mi accoglie calorosamente. È una persona davvero gentile.
"Lei è nella mia stanza. Non sta ancora bene come prima... è un po' debole e stanca, ma non ha più febbre... prego, venga."
Quando entro chiamo la mia bambina e la vedo voltarsi. I suoi occhi, rossi e gonfi di pianto, s'illuminano non appena le tocco il viso. La sua pelle è fresca e, nonostante sia un po' pallida, mi sembra che si senta meglio.
"Mamma! L'hai visto, vero? Come sta? Come sta Michele?" chiede, agitatissima, abbracciandomi come forse non aveva mai fatto.
"Ecco... il fatto è... è che io..." cerco di dirle e lei capisce al volo.
La guardo: i suoi occhi sono tristi e sembrano tornare lucidi, come li ho visti prima.
"Anche Michele ha pianto tanto quando mi ha visto. Pensava che io... che io lo odiassi... povero caro! Era stravolto."
"Oh no! Povero amore mio, no!"
"Tesoro, adesso ascoltami. Lui ha bisogno del tuo sostegno, lo capisci? Sta malissimo, crede che quello che state patendo entrambi sia solo colpa sua!"
"Ma lui non c'entra... non c'entra, mamma!"
"Lo so, ma non serve che tu ne parli con me, lo capisci? È con lui che dovresti parlarne. Lui si è sforzato tanto per mostrarsi freddo con le persone che stanno facendo di tutto per rendere la sua vita un vero inferno, per mostrarti forte, sorreggere te e farti coraggio, ma purtroppo non resisterà ancora a lungo."
"Mamma... per favore, potresti portarmi da lui?" mi chiede.
"Piccola, non oggi. Sei ancora debole, non possiamo farti uscire..."
"Michele domani potrebbe non esserci più. Io non voglio restare qui ad aspettare, mamma! Ti scongiuro, portami da lui!"
"Tesoro, se con "domani potrebbe non esserci più" intendi a causa dell'esecuzione, ti assicuro che verrà avvertito almeno un paio di giorni prima. È una pratica che è solita in queste carceri e si usa perché in questo modo i condannati possono soffrire di più, come se contassero i secondi, o prepararsi psicologicamente alla loro fine. Lui di questo non mi ha detto proprio niente."
Lei annuisce soltanto, debolmente. Il suo viso pallido mi fa provare un profondo senso di colpa. Forse non avrei dovuto dirle in che stato era quel ragazzo. Il fatto è che, ormai, anche lui per me è un po' come un figlio e vederlo soffrire in quel modo, dopo tutto quello che ha fatto per la mia bambina nel periodo del sequestro, mi fa veramente male.
Nen dovevo dirglielo. Non ancora, almeno.
Dora
Sono felice che mia madre vada d'accordo con Michele, perché credo sia terribile quando ci s'innamora di qualcuno e i tuoi genitori ostacolano il tuo rapporto con quella persona.
Anche se la mia situazione, probabilmente, è anche peggiore.
O meglio: la sua: quella di Michele, chiuso in carcere praticamente senza motivo. E io ho provato a dire la verità, ma nessuno mi ascolta, perché i miei occhi hanno deciso di essere malformati e di non fare il loro lavoro. O, almeno, è la scusa che quel maledetto giudice corrotto mi ha rifilato.
È notte fonda e io continuo a girarmi e rigirarmi in quel letto. Non riesco proprio a stare ferma, perché l'idea che lui stia praticamente facendo tutto da solo mi fa sentire in colpa. Mi sono sempre lasciata confortare da lui, mi sono lasciata andare, ma lui non ha potuto farlo, perché non c'ero soltanto io da sostenere. C'era la sua famiglia, c'erano i suoi amici, e poi i suoi carcerieri, che non erano da sostenere, ma da contrastare.
Non riuscendo a stare ferma, mi alzo lentamente dal mio letto. Mia madre ha voluto riportarmi a casa. Preferiva curarmi di persona.
Mando un messaggio WhatsApp al gruppo della mia famiglia, poi mi dirigo in giardino e raggiungo Pegaso, che è molto irrequieto.
"Ehi, amico! Ho tanto bisogno di un favore, sai?" gli dico. "Tu hai mai visto dove si trova il carcere in cui è Michele?"
Appoggio la mano sinistra sulla sua testa, perché chiaramente lui non può parlare.
Muove la testa in avanti, come per darmi un segno affermativo.
"Io... io dovrei andarci."
Sento il cavallo affiancarmi e abbassarsi. A volte si gestisce come un cane-guida, ma in altre occasioni mi fa direttamente salire sulla sua groppa per portarmi da qualche parte. Infilo un casco e un'imbracatura che mi hanno dato per i casi di questo genere e salgo sulla sua schiena. Lo sento muoversi in maniera molto spedita e sono contenta del fatto che le strade siano deserte a quest'ora di notte. Il vento freddo mi scompiglia i capelli e mi stringo nelle spalle per scaldarmi, ma non restiamo fuori molto a lungo, perché Pegaso si ferma all'improvviso.
"So che non ti farà molto piacere, ma non posso farti entrare là dentro, capisci? Dovresti aspettarmi qui."
Lo sento muovere di nuovo la testa in quel modo e scendo dalla sua groppa. Tolgo di dosso l'armamentario e mi affido al mio bastone bianco. Stranamente la porta è rimasta aperta. Cerco di fare meno rumore possibile e di fare mente locale. Ricordo la strada che ho percorso con il commissario, o almeno spero. Per quanto ne so, potrei finire nella cella di qualche sconosciuto, anche se spero che non succeda.
Mentre sto scendendo le scale, però, mi sento toccare una spalla e mi volto di scatto.
"Vuoi vedere Michele, vero?"
Annuisco debolmente e spero che questo poliziotto mi aiuti. Ricordo bene la sua voce: è il collega di Romano, quello che l'ha portato qui insieme a lui, quel giorno di poco più di un mese fa.
"Tranquilla, so tutto. L'ho scoperto per caso e voglio aiutarti. Vieni con me, ora ti porto da lui..."
Mi prende delicatamente il braccio e mi fa scendere quelle rampe di scale.
Lo sento aprire una porta che cigola piuttosto forte. Trattengo il respiro per qualche secondo.
"Michele! Ehi! C'è una visita per te!" dice gentilmente il ragazzo.
Sento un movimento lento e leggero dall'altra parte della cella e dopo un po' due braccia si stringono attorno al mio corpo.
"Ciao amore mio..." sussurra lui, come se non riuscisse a crederci. "Come hai fatto a venire qui? Sei da sola?"
"Non proprio... qui fuori c'è Pegaso. La mia mascotte... non so se ricordi!"
"Certo che ricordo. Ma perché sei venuta nel cuore della notte? Poteva succederti qualcosa, tesoro mio." mi dice sempre a bassa voce, accarezzandomi la schiena. Quando pronuncia quelle parole sento il suo cuore battere a mille.
"Michele, sono qui e sto bene!"
"Se ti fosse accaduto qualcosa mentre venivi qui... io non me lo sarei mai perdonato!"
Lo sento stringermi a sé, talmente forte da farmi sentire il rumore delle nostre ossa che scricchiolano, ma sinceramente non me ne preoccupo molto.
Anch'io lo sto stringendo forte a me, come se fosse il nostro ultimo abbraccio.
"Sono qui perché vorrei ascoltarti. Se vuoi puoi sfogarti con me. So che stai soffrendo tanto. Non posso capirlo, perché non lo vivo, ma lo so e... volevo chiederti perdono, perché invece di aiutarti... ti ho aggiunto anche le mie lacrime e questo non è giusto... non è per niente giusto!"
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